Compassione. L'unica arte ancora capace di dire umano l’uomo

Gennaro Matino (April 23, 2017)
  • Dal film di Nanni Moretti, “La stanza del figlio”, Laura Morante
Ho rivisto in questi giorni un grande film di Nanni Moretti, “La stanza del figlio”, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes, e devo dire che mi ha commosso di nuovo, profondamente. I conti con la verità del dolore non si saldano mai, sarà perché per “mestiere” i conti li fai spesso, che la visione del film, in questi giorni, ha provocato in me pensieri strani, dolore, speranza, domande di senso su quello che avviene nel quotidiano vivere a Napoli o altrove, su troppi innocenti, giovani e bambini, uccisi da una sorte crudele, incidente, malattia, o da scandalosa ingiustizia, che sia guerra, armi chimiche, fame o traversate criminali

LA morte di un figlio non ci si rassegna. Troppo forte il dolore, insopportabile contronatura. Ho rivisto in questi giorni un grande film di Nanni Moretti, “La stanza del figlio”, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes, e devo dire che mi ha commosso di nuovo, profondamente.

Sarà perché i conti con la verità del dolore non si saldano mai, sarà perché per “mestiere” i conti li fai spesso, che la visione del film, in questi giorni, ha provocato in me pensieri strani, dolore, speranza, domande di senso su quello che avviene nel quotidiano vivere a Napoli o altrove, su troppi innocenti, giovani e bambini, uccisi da una sorte crudele, incidente, malattia, o da scandalosa ingiustizia, che sia guerra, armi chimiche, fame o traversate criminali. Pensieri contrastanti, rabbia, tanta, rassegnazione, per me, per chi a me si affida, neppure a parlarne, non mi riguarda, non voglio riguardi chi amo, piuttosto lotta e superamento: “Fino a quando esisterà lo spazio e con esso le creature viventi, possa io concorrere a cancellare i dolori del mondo” (Dalai Lama).

Aveva ragione lo scrittore argentino Manuel Puig, quando scriveva che accettare il dolore rassegnati, equivale ad accettare la morte da vivi. È ammirevole chi accetta senza reagire, ribellarsi o protestare contro le imposizioni, le gravi rinunce e perdite; chi nel proprio dolore non protesta ma serenamente lo vive. Io vivo il dolore come scandalo e la morte dell’innocente come abuso, per questo consegno la rassegnazione alla lotta per ritrovare equilibrio, per organizzare speranza contro ogni sconfitta.

La straordinaria interpretazione dei protagonisti del film, la veridicità della sceneggiatura, la trama raccontata con estrema autenticità mi hanno toccato. Il dramma di una bella e serena famiglia visitata all’improvviso, come da fulmine a ciel sereno, dall’esperienza della morte: il figlio muore in una immersione subacquea. Mi sono ritrovato nelle tante storie dolorose che mi sono state raccontate, esperienza simile a tante esperienze che in prima persona ho vissuto. Ho riascoltato le paure, i sensi di colpa, le difficoltà del vivere, del rapportarsi con le mille parole consolatorie che sembrano più alibi di chi dietro ad esse vuole nascondere le proprie ansie, la fuga dal dolore altrui, le crisi in famiglia dopo la tragedia, tutte cose che mi erano familiari.

E ho potuto constatare come anche nella vicinanza a coloro che rimangono, ci sia la volontà, il desiderio di farsi forza perché comunque bisogna andare avanti. E nel film, come nella vita, persiste il non capire che la tragedia vissuta ha ormai cambiato irrimediabilmente la vita di chi sopravvive, che nulla resta uguale e che non si può più essere quello che si era prima. Lo spettacolo dovrà pure continuare ma alcuni attori si accorgono che la parte che sembrava loro essere stata affidata gli è stata con violenza scippata dalle mani. Rassegnazione non è dimenticare, fuggire; non si può essere o fare come se non fosse successo niente.

La stessa proposta religiosa è vissuta come scandalosa, inadeguata, se propone una rassegnazione passiva e non una eroica, sofferta, combattuta conquista di pace. Mi sono contrariato quando nel film i protagonisti, come tanti nella realtà, si sono rivolti alla fede perché dalla fede avessero compagnia nella loro vicenda dolorosa e hanno trovato solo parole di circostanza, “Il Signore si porta via i migliori”, “Era troppo buono per vivere in questo tempo volgare”, frasi certamente sentite ma incapaci di ridare speranza ai disperati. Là dove la sofferenza grida il “no” alla vita, là la vita deve trionfare nella partecipazione alla sofferenza e nella testimonianza di chi crede nel Dio cristiano e sa che è un Dio che non ama la morte, non la chiede, non la vuole, in un Dio sofferente in cui trovare la risposta ai suoi dolori. Ma anche se credenti non si è, lottare è comunque la risposta perché la morte non si prenda gioco anche di chi sopravvive all’amato, di chi costretto dalla morte a morire tutti i giorni potrebbe decidere di restituire il suo biglietto di ingresso alla vita. Ne “Il Re Lear”, William Shakespeare scrive: “Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono, l’animo può superare molte sofferenze”.

Se la via per superare il dolore è rassegnare le armi e sentirsi completamente sconfitto, schiacciato e annientato, allora io lotto contro tutte le rassegnazioni. Ma se rassegnarsi è rassegnare

le dimissioni da un uomo vestito di apparenza per rivestirci della nostra nudità, della nostra vera condizione, per cercare armi diverse e continuare a combattere contro il dolore, insieme, contro la nostra o altrui condizione di limite, allora rassegnarsi è incominciare a sperare contro ogni speranza. Il mondo cambierà quando le parole di circostanza sul dolore cederanno il passo a quelle di compassione, l’unica arte ancora capace di dire umano l’uomo.

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