Articles by: Gennaro Matino

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    Europa distante. Un fallimento della politica


    QUANTO ancora lontana sia la comprensione di uno Stato sovranazionale che venga avvertito dai comuni cittadini come casa comune. Gli esperti sostengono che il calo dei votanti alle europee sia fisiologico in quanto è un voto vissuto con minore convinzione dagli elettori rispetto alle politiche e alle amministrative.


    Tuttavia, proprio questa progressiva disaffezione e la valanga di astensionismo che si registrerà domenica prossima, la dice lunga su quanto la politica abbia fallito e quanta responsabilità ci sia stata da parte degli Stati nazionali nell'aver affondato il sogno di popoli uniti nella costruzione del bene comune.


    Non c'è una spinta ideale che possa convincere davvero sulla necessità del voto, non c'è una protesta eroica per decidere di non farlo. Resta un fatto, semplice e drammatico, l'Europa per molti non esiste, è solo un nome su una carta geografica. La scelta di quanti non andranno a votare non solo renderà palese la presa di distanza di chi non ha mai creduto o ormai non crede più nell'Europa, ma anche l'amarezza di chi, credendo ancora in quel sogno, avrebbe voluto partecipare attivamente alla sua costruzione da cittadino consapevole e non da suddito.


    Democrazia è partecipazione, resa di significato per i bisogni di ogni giorno, risposta alle attese di giustizia e di pace che riguardano ogni uomo che vive in una comunità specifica. Partecipazione è farsi carico per la propria parte della responsabilità comune che non si delega.


    Tuttavia siamo stati esclusi dalle scelte decisive che riguardano la nostra vita, senza poter esercitare questa responsabilità e se questo già provoca in noi una progressiva perdita di contatto con le istituzioni nazionali, che promulgano leggi quasi mai in sintonia con i cittadini, avremmo voluto che almeno l'Europa fosse stata cosa diversa.


    Invece l'Europa sembra un'intrusa, un'istituzione ancora più distante culturalmente come non necessaria, inutile, poco familiare, tanto quanto le sue determinazioni. Anzi, per il cittadino comune, al di là del voto di domenica, è difficile comprendere perfino cosa significhi essere europei, difficile ancor di più se si sente limitato da disposizioni restrittive. E questo perché poco si è investito sulla cultura europea che resta somma di diverse lingue e non desiderio di unità. Non si è intrapresa una strada capace di impegnare diversi popoli in una visione di vita comune e condivisa, compresa da tutti come utile a tutti. Difficile credere nell'Europa dei popoli se ancora non si è determinato un contrappeso politico e ideologico alla tecnocrazia che decide da sola senza consenso popolare, segnando il destino di intere popolazioni con scelte economiche pesanti, imposte dall'alto, avvertite dalla gente come odiose.


    Come certifica l'Istituto Toniolo, per sei giovani italiani su dieci, l'Ue è un progetto sostanzialmente fallito e le istituzioni politiche comunitarie non sono state all'altezza delle sfide degli ultimi anni. Sentimento ancor di più esteso alle nostre latitudini, a Napoli e nel Meridione, dove l'Europa non esiste affatto, come non esiste ancora compiutamente l'unità d'Italia. Il disgusto per la politica ha fatto il resto, ha cambiato i connotati della partecipazione popolare e se i parlamenti nazionali, quanto i consigli comunali, sono ritenuti inutili, difficile pensare che possa essere diverso per il parlamento di Strasburgo.


    D'altronde lo sanno bene i diretti interessati, i candidati alle europee e i loro partiti, che poco si stanno impegnando in questa improvvisata sfida elettorale, senza emozioni, senza programmi, senza progetti, senza nessun manifesto, nessuna strategia, solo il dolore di una perdita, la morte dell'idea originaria di Europa così come sognata dai padri fondatori. Una visione sfumata per la miopia di una classe politica mediocre che dichiara la sua incapacità nel saperla raccontare, il fallimento di un progetto visionario dilapidato sul tavolo marcio di banchieri spudorati e di burocrati incartati.


    Qualche comizio qua e là, più di rumore e di colore che di contenuti, un solo auspicio per tutti: che tutto termini in fretta. A prevalere resta la falsa preoccupazione che a trionfare siano i populismi, quelli di vecchi e nuovi urlatori che sparano nel mucchio per raccattare carcasse, ma restano comunque complici del sistema, anch'essi prossimi sconfitti per aver partecipato a qualcosa in cui neppure credono.


    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).


  • Opinioni

    Riuscirà Francesco a smantellare le resistenze all'interno della Chiesa?


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    Dodici mesi da Papa, Bergoglio ha lanciato una sfida alla Chiesa e al mondo credente. Attenti osservatori, cattolici e laici, gridano alla rivoluzione. Il rischio è che il rumore delle sue parole restino bloccate alla periferia dell’annuncio, ma non abbiano la forza di riorganizzare la struttura ecclesiastica. Un rischio che, se dovesse risultare tale, trasformerebbe il pontificato di Francesco nel più grande dramma della Chiesa cattolica.


    Non è un giudizio su Francesco, ma sulla gerarchia della Chiesa che sembra non essere ancora pronta, al di là delle parole di circostanza, alla rivoluzione annunciata, come d’altronde non è stata capace di rischiare il cambiamento auspicato dal Concilio Vaticano II, un evento ben più importante dell’elezione di un papa. Indubbiamente gli osservatori di questioni vaticane sono contenti di riempire le pagine dei giornali per raccontare il nuovo verbo di Francesco, ma quasi tutti dimenticano che basterebbe che la Chiesa desse finalmente corso alle sue quattro costituzioni e alla visione organizzativa che si è data con il Concilio, che lo stesso Francesco sarebbe di gran lunga superato. Egli stesso ne sarebbe felice.


    Certo va dato merito al Papa il mettere in discussione il presente della Chiesa con parole inaudite che rispondono alle attese di tanti che vorrebbero una Chiesa madre e non matrigna, di uomini e donne emarginati dalla vita ecclesiale per le loro scelte e condizione di vita. Indubbie aperture, quelle del Papa, alla condizione omosessuale, ai separati, ai divorziati, ma benché le sue parole abbiano giustamente fatto rumore e creato attese, altre, necessarie a garantire una riflessione ampia e seria della Chiesa su stessa, per ripensare il suo ruolo e la sua missione nel mondo, sembrano essere pronunciate con minor forza.


    Parole nuove come elezione dei vescovi, criteri di scelta e di invio, rapporto tra chiesa locale e chiesa universale, ruolo del laicato nel governo della chiesa, celibato sacerdotale, ammissione delle donne ai ministeri ecclesiastici, governo delle diocesi e efficienza pastorale, che invece vengono ritenute più di ambito tecnico per addetti ai lavori. Eppure sarebbero proprio queste le parole che garantirebbero un ripensare insieme le grandi tematiche avanzate dal Concilio, colpevolmente insabbiate da una gerarchia che, dietro la presunta preoccupazione di difendere la tradizione, ha invece garantito più il proprio potere che il bene della comunità.


    Riuscirà Francesco a smantellare questa struttura resistente? La sua parola sarà capace di trapassare il muro di un potere incancrenito? Sarà interessante capire quali saranno le sue prossime decisioni, in tanti guardano al Sinodo del prossimo ottobre sulla famiglia come a un evento decisivo. Personalmente la penso diversamente perché delle novità certamente arriveranno in campo matrimonialista, si parlerà del rispetto della condizione sessuale di ognuno uomo e sarà già tanto. Tuttavia, solo un nuovo Concilio potrebbe dare a Francesco la forza necessaria per garantirgli una riforma globale della Chiesa che porti a compimento le intuizioni del Vaticano II, un sostegno di tutta la Chiesa al Papa che il rumore di una piazza San Pietro gremita o di una piazza mediatica non può inventare.

    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).


  • Opinioni

    Emancipate voi stessi dalla schiavitù mentale


    CHI ha paura di sognare è destinato a morire», così cantava il più alto interprete della musica reggae, Bob Marley, poeta di pace che lasciava la vita in questo stesso giorno del 1981, stroncato da un male contro cui, per ubbidienza alla propria fede religiosa, aveva deciso di non combattere.


    Marley è considerato uno dei musicisti più influenti di tutti i tempi, ma è molto di più, è un grandioso interprete della libertà e della pace, voce politica della lotta non violenta contro ogni oppressione razziale. Tanto da meritare nel 1978 la medaglia della pace delle Nazioni Unite.


    Anche Napoli ha voluto ricordarlo l’altra sera all’Arenile di Bagnoli, sul palco alcuni tra i più grandi seguaci del genere reggae, tanta gente, giovani e meno giovani, a celebrarne la memoria. Una sua frase, catturata da una sua celebre canzone, “Redemption Song”, riesce ancora a far giocare i miei sogni: «Emancipate voi stessi dalla schiavitù mentale, nessuno a parte noi stessi può liberare la nostra mente».


    Emanciparsi dalle passioni, verità che accomuna uomini giusti, diversi per fede e per percorsi intellettuali. Emanciparsi dalla schiavitù mentale, potenza straordinaria di un messaggio capace di superare il tempo: non si può essere veramente liberi se non si libera la propria mente, se non si rende trasparente il proprio cuore, perché non si può chiedere agli altri quello che non si pretende da se stessi. Fatica immane, ma fatica indispensabile per essere liberi.


    Un invito a rendersi padroni del proprio destino, a riprendersi se stessi, un sentimento di speranza che interpella ancora con più forza un oggi senza visionari, un tempo di nuove sudditanze perverse e schiavitù striscianti in cui oscuri padroni decidono per tutti e decidono male senza mai chiedere il permesso.


    Un Occidente anemico di sogni, un’Europa di cui dovremmo essere cittadini, capaci di costruirla insieme, ma ci accorgiamo dolorosamente di non avere armi ideali e colori di speranza per determinarne il destino.


    È strano che proprio nella nostra epoca dove ognuno sembrerebbe padrone della propria storia, dove a proposito e a sproposito si parla di autodeterminazione, si avverta un senso di disagio riguardo alla comprensione e all’uso della libertà.


    Mentre si parla di tempo dello sviluppo economico e scientifico, mentre si esalta la conquista della forma democratica di vita civile e politica, mentre si celebra la storia passata dei martiri della libertà, gli uomini sperimentano, proprio nel nostro malato mondo occidentale, come una perdita di identità, di vuoto di comprensione del loro ruolo nella storia.


    Ci sentiamo come sballottati ora da un lato ora dall’altro dall’ebbrezza del nostro potere o dalla povertà delle nostre risorse.


    Siamo capaci di conquistare lo spazio, ma impotenti dinanzi alle mille sconvolgenti notizie di cronaca che segnalano quanta violenza, crimine, depravazione, vive nelle nostre stesse strade.

    Vorremmo tutti essere protagonisti attivi della trasformazione del mondo e delle nostre vite, ma qualcosa ci sussurra nel profondo di non illuderci. È come se avessimo perso la strada, la meta, di cui percepiamo l’assenza determinante, ne soffriamo, vorremmo scorgere una luce capace di ricondurci a casa, ma non sappiamo come fare. E tutto questo genera disagio, che diventa malattia del vivere uccidendo completamente i sogni, le aspirazioni, la gioia.

    «Per dare significato alla vita devi fare qualcosa», canta ancora Marley, devi continuare a sognare.


    Forse sarà per questo che il Maestro di Galilea invitava a considerare la vita come una scoperta di fanciullezza, una riconquista del sogno perduto. «Se non diventerete come bambini non sarete felici ». E quel sogno fanciullo auspicato per tutti non era proposta confessionale. Era una rivoluzione, il desiderio di un mondo guardato con gli occhi dell’innocenza. Occhi di uomini che non avrebbero dovuto vergognarsi dei propri sogni, che anzi avrebbero lottato per ritornare a guardare la vita con occhi di bambino.


    La differenza tra un vecchio e un ragazzo non sono gli anni, sono i sogni. Un vecchio non vede che il suo passato e vive di nostalgia e di rimpianti. Un giovane corre i suoi sogni e aspetta di interpretarli. E così è facile incontrare vecchi giovani e giovani vecchi. Colpa del sogno.

    La lotta per la libertà non è una lotta persa, se resisteranno i sognatori, se libertà resterà una parola sconvolgente che non può essere offesa dall’uso nauseante che se ne fa nei salotti perbenisti, nelle chiese decadenti, nei parlamenti parolai, ma parola di speranza per riconquistare i nostri sogni ceduti per pochi spiccioli a farabutti da quattro soldi.


    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).




  • Opinioni

    Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Paolo VI ed il Concilio Vaticano II

    Una sola domenica, il 27 aprile festa della divina Misericordia, per proclamare santi, insieme, in una sola volta, due Papi, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, così vicini, così lontani. Mai personaggi del mondo ecclesiastico hanno avuto un percorso di esperienza e di vita così diverso tra loro. Anche se in tanti si stanno affrettando in questi giorni a trovarne faticosamente significati tangenti, esperienze collegate, caratteristiche somiglianti, in realtà non ci sono, se non per il fatto di essere stati entrambi papa.

    Una scelta però che non può essere stata casuale, anche se nessuno lo crede, e che nasconde in verità una strategia comunicativa, un desiderio condivisibile di proporre con la celebrazione delle virtù eroiche di questi due grandi uomini, oggi agli onori dell’altare, il desiderio prorompente di una Chiesa in declino che vuole riprendersi la scena mondiale e presentare un’immagine positiva di se stessa, una Chiesa capace ancora di dire una parola interessante al mondo contemporaneo, dopo che è stata sporcata da troppe sue interne miserie. Due Papi santi in una volta, una scelta mai avvenuta, che non può che lanciare una sfida di significato. Papa Francesco scommette sulla crisi della Chiesa e sulla necessità del suo rinnovamento, una Chiesa che vive un momento difficile e doloroso, una crisi che può determinarne il suo oscuramento e che, per essere così invasiva, va oltre la coraggiosa azione pastorale del Papa argentino, che quasi avverte la difficoltà a passare un verbo nuovo all’interno di mura ben serrate da poteri impermeabili ad ogni reale cambiamento.

    Certo Papa Francesco sta riscuotendo ampi consensi e simpatia provenienti da vari ambienti e non solo cattolici, ma sono successi personali che non incidono sul tessuto profondo della realtà ecclesiastica: per cambiare il volto della Chiesa c’è bisogno di ben altro di una Piazza san Pietro gremita ogni domenica.

    Lo sa bene il Papa, sa che la crisi della Chiesa sembra inarrestabile e sa che il suo giovane pontificato a fatica riesce a controllare e chi sa per quanto ancora. Una crisi che nelle sue stesse parole, pronunciate con enfasi e commozione ogni qual volta gliene è data occasione, egli stesso non nasconde, anzi semmai vuole ricordarla al mondo, descriverla, farla conoscere per poi poterla governare, semmai convertirla grazie ad adesioni importanti, significative e numerose di uomini, donne, laici e clero che sempre più coscienti stiano al suo fianco prendendo sul serio il dovere non più rimandabile di rinnovare il tessuto profondo della Chiesa.

    Una scelta pensata, allora, quella di Francesco di riproporre al mondo due grandi testimoni, i due Papi santi, che il mondo credente e laico diversamente hanno amato, ammirato, seguito, esaltato, criticato, combattuto, entrambi comunque al centro del dialogo mondiale, in tempi complicati e che oggi possono essere da stimolo, da incoraggiamento per quanti si sentono in dovere di cambiare la Chiesa, per riproporre al mondo, ma soprattutto alla Chiesa stessa, un messaggio problematico ed esaltante: a voi che pensate che la Chiesa sia finita, che non possa cambiare, che i suoi problemi resteranno insuperabili, io vi racconto una Chiesa ancora viva, che ha ancora tanto da dire come hanno saputo dire Giovanni XXIII e Giovanni Poalo II, nostri contemporanei, che con la loro vita hanno sconvolto il loro mondo, consegnando una parola autorevole e determinante. Due Papi che hanno descritto il secolo scorso, solo cinquant’anni li separano, anche se sembra essere un tempo lunghissimo.

    Papa Giovanni che seppe leggere la storia dell’umanità come esperienza d’amore tra Dio e i suoi figli di fronte alla quale perfino la luna, la notte dell’apertura del Concilio Vaticano II, in una piazza San Pietro esultante, si sentì chiamata ad affacciarsi per osservare lo splendido spettacolo: Dio, l’uomo, il creato, in un solo abbraccio.

    Papa Giovanni Paolo, l’uomo venuto da lontano, coraggioso viaggiatore nel mondo delle sofferenze umane, capace di raccontare ai più lontani una Chiesa presente, vicina, compassionevole, ma anche forte di denuncia contro ogni potere autoritario, contro la barbarie dell’ingiustizia sociale e della delinquenza organizzata.

    Tra loro il Concilio Vaticano II e un grande assente nella festa della canonizzazione, Paolo VI, che per entrambi i papi santi sarebbe stato davvero l’unico che avrebbe potuto avvicinarli, renderli contemporanei.

    Ma forse questa è l’intenzione sottaciuta di Papa Francesco: canonizzare Giovanni XXIII e Giovanni Poalo II, per parlare finalmente di Paolo VI e di quella straordinaria esperienza che è stato il Concilio, unica strada da praticare per poter sperare, oltre la piazza, in una Chiesa bella e santa.

    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).

  • Op-Eds

    Two Popes Declared Saint, Paul VI & the Second Vatican Council

    One Sunday, April 27th, the festivity of the Divine Mercy, to declare saint, together, two Popes, John XXIII and John Paul II. So close, yet so far.

    Never in the ecclesiastic world two personalities had such different life journeys. Even if many are trying these days to find common meanings, related experiences, similarities…the truth is that there aren’t any, except for both of them having been Popes.

    A choice though that cannot be random, even if no one believes it, and that hides a communications strategy, the justifiable desire to present, by celebrating the heroic virtues of these two great men, the explicit urge of a declining Church that attempts to regain the world stage.

    A Church striving to propose a positive image of itself, that after being stained by too many internal misdeeds, still has something interesting to tell the contemporary world.

    Two Popes declared saints simultaneously: a first, a choice that cannot be but challenging.
    Pope Francis bets on the Church crisis and on its need for innovation. A Church that is going through a difficult and painful spell. A crisis that could determine its collapse, invasive to the point of threatening the audacious pastoral response of the Argentinean pope, who is surely aware of the difficulty of spreading the new word within those high walls made inaccessible by powers opposed to any real change.

    Of course Pope Francis is achieving resounding success in many domains, not only catholic, but they are personal achievements that don’t impact deeply on the ecclesiastic reality as such: what’s needed to change the face of the Church is more than a crowded St Peter’s Square every Sunday.

    The Pope knows it well, he knows that the crisis of the Church seems unstoppable and that his young pontificate barely manages to keep it under control, and who knows for how long more.

    An emergency that in his own words, pronounced emphatically and with emotion whenever he is given the chance, is not hidden, but actually reminded to the audience, in detail, with the aim of recognizing it in order to manage it. With the purpose of maybe transforming it, also thanks to numerous and significant new contributors, men and women, laics and clergy, who consciously and without postponing it, take seriously their duty to innovate the Church at its deepest level.

    A well thought out choice then, this one of Francis’, that presents to the world two great figures, the two saint Popes, that believers and non believers had differently loved, admired, followed, glorified, criticized, fought. But no matter what, both at the center of the world’s dialogue.
    Personalities that during the complex current circumstances could act as a stimulus, could be of encouragement for those who feel it’s their duty to innovate the Church. To challenge the world, but above all the Church itself, with a problematic yet exciting message: if you think that the Church is doomed, that it cannot change, that its problems will remain insurmountable, I’ll instead tell you about a Church that is still alive, that still has a lot to say. Like John XXIII and John Paul II, our contemporaries, did: by subverting their own world with their lives, delivering an authoritative and critical message.

    Two Popes that defined last century. Only 50 years separate them, even though it may seem longer than that.

    Pope John who read the history of humanity as and experience of love between God and his people. Even the moon, on the night of the opening of the Second Vatican Council, in the joyful St Peter’s Square, was called out to witness the spectacle: God, the man, all that’s been created. All enveloped in one embrace.

    Pope John Paul, the man who came from afar, brave traveler in the world of human suffering, able to recount to the most distant a Church that is present, close, compassionate. But also strongly opposed to any authoritarianism, to the cruelty of social injustice and the brutality of organized crime.

    Between them the Second Vatican Council and a great absentee on the day of the canonization, Paul VI, who for both of them could have been a point of contact.

    But maybe this is Pope Francis’ latent intent: proclaiming John XXIII and John Paul II saints to finally bring up Paul VI and that remarkable event that the Council has been, only way to go in order to hope, beyond the square, in a beautiful and saint Church.

  • Opinioni

    Napoli. L’ulivo si secca, la speranza no


    Domenica delle Palme, la memoria si intenerisce andando al tempo in cui i giovani mettevamo qualche fogliolina all’asola pronti a vivere il giorno di festa, il grido dell’Osanna che apriva la settimana santa. Tra le diverse ricorrenze, questa domenica è forse quella che da sempre conserva il rumore della strada. Lo è ancora per tanti, che senza alcuna remora si dichiarano credenti in quel poco d’ulivo indossato senza vergogna, quasi vessillo di appartenenza. Fruscio di ulivo che si sposta di strada in strada, verde giovane attaccato a ramo potato fresco per consentire al saporito frutto di crescere rigoglioso.

    Oggi è inizio di passione e attesa di resurrezione, giorno di incontri, festa di perdono per chi vuole tentare la via della riconciliazione. Un tempo le foglioline dall’asola o dalle borse passavano alle mani, agli affetti e consegnavano nel gesto antico un bisogno presente di serenità. Si portava in ogni casa la palma, che palma non è ma ramoscello di ulivo giovane, speranza di nuova avventura in attesa della Pasqua, voglia appassionata di serenità, di armonia, di famiglia riunita. Si portava a casa l’ulivo e si conservava per la domenica seguente quando, tuffato nell’acqua benedetta, ogni padre una volta l’anno si faceva coraggio e vincendo ogni pudore aspergeva la sua famiglia, benediceva il capo dei suoi cari e aggiungeva commosso: “Abbiamo visto insieme un altro anno!”.

     
    E anche quando, passata la Pasqua, la palma era ormai pronta a seccare si conservava con gelosa cura, reliquia di amore spartito, memoria di un gesto semplice e potente quanto il desiderio che quella benedizione paterna potesse durare tutto l’anno, tutta la vita. Seccava il ramo non la speranza, seccavano le foglioline che, ormai brunite, cadendo scricchiolavano sotto le scarpe. Non seccava la gioia di sentirsi casa, di sapersi protetti in casa propria. Era quella la festa, la gioia di spartire la vita. Napoli era tutta una famiglia, perché ogni famiglia era Napoli. Problemi ce n’erano tanti, di sicuro più di oggi, ma la festa era per tutti, anche per i meno fortunati, forse perché tutti erano un po’ più poveri.

     
    Ora le cose vanno in una direzione diversa e la speranza a Napoli rischia di seccare. Una città, la nostra, mai capace di capire se stessa fino in fondo, di vedere dentro di sé, una città difficile da raccontare a chi la guarda da lontano, ancora più difficile passarla in giorni complicati come questo, in cui le fronde odorose di ramoscelli d’ulivo devono fare i conti con una pace difficile da annunciare nel suo ventre, da raccontare a tanti suoi figli disgraziati, troppi per essere una città normale, uomini e donne che non sanno più cosa significhi vivere una festa.

     
    Ogni giorno per loro, stesso giorno, stessa prova da affrontare, poco pane da spartire. Difficile da spiegare che oggi è la festa del perdono a chi prova sulla propria pelle l’abbandono, e avverte tanta rabbia dentro, difficile portare pace a chi vive in perenne conflitto, a chi dalla festa è escluso perché stordito dal rumore delle proprie ferite, dal peso delle proprie lacrime. I soli rami da agitare per tanti restano quelli della disperazione, forse della ribellione, peggio della rassegnazione. Case abbandonate al loro destino, famiglie seviziate, futuro rubato.

     
    Tuttavia il coraggio della speranza si esalta proprio nel giorno della prova e se Napoli vuole ritrovare se stessa deve poter ridiventare città della compassione. Non si possono lasciare da soli quelli che ormai hanno perso tutto, che sentono di aver perso Napoli. Sperare è categoria da atleta speciale che non corre per gareggiare sugli altri ma con se stesso, con il suo domani che spera essere diverso da un presente sofferto, deluso, deriso, schiacciato dal sopruso.

     
    Speranza è lottare per un giorno migliore, che non sia più prigioniero come quelli vissuti in tempo di lutto. Napoli non è la sua decadenza, non è la scelleratezza di quanti, passando sul suo cadavere, fanno bottino delle sue carcasse. Napoli è fatta anche di gente generosa, aperta, orgogliosa della propria appartenenza, per questo può farcela, deve farcela, e la responsabilità è soprattutto di chi già ce l’ha fatta. Napoli può riscoprirsi famiglia se chi ha più degli altri fa pace con chi non ha più niente, se chi si sente benedetto abbraccia i maledetti dalla storia.

     
    Domenica delle Palme è icona di un percorso che racconta il passaggio dalla morte alla vittoria definitiva, un passaggio che non può non provocare chi ha a cuore il destino della propria città.


    Riappropriamoci dell’orgoglio di essere popolo, una famiglia allargata, prendiamo il ramoscello della pace, consegniamolo come annuncio di riscatto a chi proprio non se l’aspetta e auguriamo a lui e a noi: ce la possiamo fare, insieme ce la faremo.



    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).

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    Napoli. Salicelle. Dove l'incesto urbano diventa umano


    “Mi chiamo Tommaso, sono nato alle Salicelle, periferia infame. Di chi sono figlio? Mio padre è mio nonno. Già, proprio così, avete capito bene, io ho saltato un giro”. Nascere è venire alla luce. È sfondare il buio, lasciare alle spalle la cella chiusa che imprigiona l’esistere. Nascere è vita che si apre al nuovo.


    Il suo sbocciare è come un rintocco di campana pronta a suonare per il tempo successivo le ore della storia.

    Dove sei nato? È un rintocco. Quando sei nato? Ne è un altro.

    Nascere è origine collocata e se nasci a Napoli, lo è di più, dove, a differenza di altri posti, la città s’intromette con prepotenza nel dna di chi, per provvidenza o per sciagura, viene alla luce nelle sue mura.


    La sua invadenza nell’io è così arrogante che si allarga a dismisura benché ci si sforzi a contenerla, perché è proprio di questa terra occupare spazi abusivamente.


    Si è così legati alle origini, alle radici, che l’aria di Napoli ti si attacca addosso dalla culla alla tomba. Nel bene e nel male è la tua terra e devi conviverci, sopportala, amarla, odiarla, forse.

    A dire il vero, dire che sei nato a Napoli non basta per capire da dove vieni, ‘a ro’ scinne, da chi discendi, direbbe il vecchio popolano, perché non si può parlare di Napoli come se fosse una realtà perfettamente compiuta. E questo vale soprattutto per chi da altrove, non conoscendola, pensa di risolvere il miscuglio delle diverse esperienze, luoghi e storie, di un antico popolo in una sola parola: napoletani.


    La città è un imbroglio di voci, di cuori, di vie, una grande metropoli con tante città. Tante Napoli quanti sono i rioni e i quartieri, tante quante sono le storie dei borghi e degli antichi villaggi, delle piazze d’arte e delle malate periferie.


    Dal centro ai grandi agglomerati alle porte di Napoli, tutti dicono di essere napoletani ed è certamente vero che la napoletanità è un sentire dentro più che un abitare presso, perché dirsi napoletano è sentimento esteso più del concetto stesso di popolo e di città, è vincolo di appartenenza universale che va oltre le sue mura, oltre lo specifico territorio di Partenope.


    “Sono nato alle Salicelle, sono un napoletano di frontiera, e ogni giorno è una scommessa. Chi debbo ringraziare, mia madre, che quando mi ha partorito aveva 16 anni? Mio nonno, che non mi ha mai fatto mancare niente e comunque è mio padre? Sono nato da un errore e il mio sangue è sangue sbagliato”.


    Il giorno in cui sei nato e il posto che ti ha visto venire alla luce fanno carne con la tua carne, ti accompagnano dal sorgere al tramonto della vita, te li porti appiccicati addosso come una malattia perché quel luogo e quel giorno parlano di te, ti individuano nella tua unicità, perché tu sia proprio tu e non un altro.


    Non puoi omettere il giorno e l’ora della nascita, né il luogo del tuo inizio, difficile farlo e se anche ci riuscissi sarebbe segno di dolore, di follia.


    Tommaso, lo chiamerò così, non ha avuto paura di raccontarmi della sua nascita, anzi me l’ha spiattellata in faccia, gridando il suo dolore, fuggendo il pudore, la vergogna, facendosi forza, per consegnare alle parole tormentate una frontiera di riscatto.


    “L’incesto” dicono gli esperti, “è un evento familiare, il sintomo, il punto di arrivo, di un complesso groviglio di relazioni patologiche interne alla famiglia, un insieme di complesse e profonde relazioni malate”. Nascere da un incesto è responsabilità che va oltre l’aberrazione di colui che compie un tale abominio.


    Alle Salicelle l’incesto non è un caso isolato e, per essere terra seviziata, anch’essa può dirsi nata da una visione urbanistica incestuosa, progettata contro ogni natura di vivibilità. Così si presentano tanti agglomerati costruiti dopo il terremoto del 1980 in Campania, specie a Napoli e in provincia, mucchi di case senza strutture sociali, che alla fine si somigliano l’un l’altro e dentro i quali scompare ogni individualità.


    Sono i “luoghi marginali”, di cui tante volte si occupano le cronache. E non sono quasi mai belle cronache, ma racconti di tragedie e fatti sanguinosi.


    Le Salicelle, dicevamo. Deportazione di popolo costretto ad occupare spazi angusti, gente spodestata dalla memoria e spostata in fretta da altrove per altrove miseria, povertà estrema, speranza di nuovo approdo, di nuova consistenza non trovata, futuro di giovani e ragazzi svenduto per calcolo politico, degrado da primato mondiale. Strade scure, tappeti di siringhe insanguinate, angoli di morte comprata in una dose, smercio di carne per osceno piacere. Tutto si può vendere alle Salicelle, anche la vita. Ogni giorno si inventa l’esistenza, arrivare a sera è già vittoria.


    La più famosa Scampia, suo malgrado, ha rubato la scena mediatica del degrado, tanto da diventare prototipo di quell’idea urbanistica fallimentare che ha perso ogni accezione positiva per rimanere solo l’indicatore spaziale di un disagio fatto di distanza dal centro, carenza di servizi e infrastrutture, ritardo nell’integrazione, tensione sociale, senso di emarginazione.

    Ma nelle tante dimenticate Salicelle, dove è nato Tommaso e tanti come lui, si vive peggio, si vive in attesa di risposte che non arrivano, mentre il giorno ormai si confonde con la notte.


    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale. Insegna Storia del cristianesimo. Editorialista di Avvenire e Il Mattino. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread”

  • Op-Eds

    Pope Francis: Revolution From Above?

    Pope Francis is without a doubt the new man of our times. He knew how to take up a challenge of vital importance, that of value- related communication, by talking about the shared values of people today. That challenge has put the Catholic Church back at the center of the world’s stage. 

    For many, the Church is suddenly interesting again. A lot of people have seen the Pope’s new attitude as the start of a perhaps unhoped-for but clearly understood revolution. Yet while we’re celebrating the dawn of a new age, it’s important to remember that no Pope can singlehandedly change the Church.

    With his simple, warm style and frank, direct speech, Francis has inaugurated a new outlook for the Church. That much is beyond dispute. But even a pope with his charisma cannot change it by himself. Pontiff Bergoglio has chartered the course of hope, instilling a feeling in many people—believers and non-believers—that they can expect the Church to be less bent on power and more open to engaging with a different world. 

    Francis has made this clear from the beginning, trying to steer the Roman Church away from the media siege surrounding internal scandals and corrupt ministers, a siege that, among other things, caused Pope Benedict XVI to step down. But Francis alone cannot succeed where the Second Vatican Council—the largest Catholic gathering in our time—failed, or succeeded only partially. That prophetic event reunited bishops from around the world to try to let a little air into the stuffy rooms of the Church, setting out a plan to radically overhaul the system and rebrand the Church as the People of God, rather than a preserve of power wielded by an aggressive and self-serving hierarchy. 

    By seeking to repair the Roman Curia and restructure the IOR, or Vatican Bank, to foster the idea of a more open church, Francis has clearly aligned himself with the Second Vatican Council. But if you think that a bit of restyling can guarantee the Catholic Church will recover from its internal dysfunction, you may be setting yourself up to be let down. 

    The change, if it comes, must come from the ground up, from the dioceses, parishes, and neighborhood churches all over the world. Because if it doesn’t work for the church down the street, it won’t work for the Church at large. Furthermore, the change must be embraced by Rome, which has so often barred local churches from making amendments to the faith. Francis’s revolution will begin the day Rome—the primary and certainly most holy seat of the Church—makes room for others.

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    Gennaro Matino teaches Theology and History of Christianity in Naples, where he runs the parish of SS. Trinità. He has written several books and essays, and collaborates extensively with both traditional and new media.

  • Una Chiesa che indebolisce la scelta individuale: è tiranna


    ESISTE una mistica della disobbedienza, sapiente arte che ti permette di conservare l’integrità morale ed elevarti al di sopra del pantano dei caproni che hanno per motto l’antico detto napoletano: “Attacca ‘o ciuccio addò vo’ ‘o padrone”, che tradotto liberamente significa rassegnati allo strapotere dell’arrogante.


    Suprema disciplina, la disobbedienza, indispensabile per chi nella società civile vuole porre argine alla volgarità della menzogna e all’inganno del potere malato, ma ancora più urgente nella comunità ecclesiale spesso seviziata da vescovi mediocri e arroganti che hanno dimenticato che ogni uomo è stato chiamato alla libertà (cf Gal.5,13). Scrivo qui di quest’ultima che più frequento, ma utile sarebbe ragionar anche di altrove. Da ragazzo mi è stato insegnato che chi ubbidisce non sbaglia mai, che basta ubbidire alla Chiesa per ubbidire a Dio e che è sufficiente abbandonarsi alle disposizioni del proprio superiore per sentirsi tranquilli: niente di più falso se a monte di ogni decisione non viene anteposto il primato della coscienza. Nessuno può sostituirsi alla sofferenza personale di una scelta, nessuno può pensare di passare sopra alla responsabilità individuale giustificando il tutto come virtù di umiltà, come docilità, soprattutto quando la corruzione è cosi dilagante.


    Forse nasce proprio qui quel malato rapporto che esiste tra autorità della Chiesa e Vangelo, tra potere ecclesiastico prepotente e la libertà della Parola che invece si propone e mai si impone. E forse sta qui la radice dell’inebetire del laico nella Chiesa cattolica, incapace di scelte autonome, ancora alla ricerca infantile del permesso concesso dell’autorità ecclesiastica, sta qui quell’anemia di un laicato adulto lontano dalla maturità credente, privo di radicata formazione evangelica che si affida pedissequamente alle decisioni dei vescovi e dei preti più che alla Parola del Maestro di Galilea.


    Esiste una Chiesa che non educa l’uomo alla ricerca interiore, che privilegia ancora l’oggettivazione del contenuto di fede, più che la soggettività del credente, la verità della regola più che la libertà dell’uomo, della sua coscienza.


    Persa l’intuizione della coscienza, tra i credenti la verità si è di nuovo confusa con la menzogna. Non ha senso che il cristiano accetti per fede una verità, se poi non è in grado né di capire, né in nome di quella fede e di quella verità di compiere un’inversione di rotta, un’autentica scelta morale autonoma, come se la fede consistesse nel proferire parole, invece che nella comprensione dell’animo, come se fosse questione più di bocca che di cuore. Esagero? Forse.


    Ma la storia la dice lunga rispetto a chi per osservare le leggi dell’uomo ha dimenticato la Parola del Maestro che aveva invece ammonito: “Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”. (Mt 7,7-8). Oggi non è diverso da quando prima del Concilio, in nome di un Limbo che non esisteva, per la salvezza del feto che rischiava di non andare in Paradiso senza il battesimo, si poteva praticare perfino un battesimo intrauterino. A una falsa verità conseguiva una orrenda pratica.


    Possibile che nessun uomo di Chiesa, prete o laico, abbia saputo resistere a questa aberrazione in uso per secoli che offendeva la dignità della donna e certo non risparmiava dall’imbarazzo chi doveva praticare il rito, aspergendo il feto mediante una siringa da iniezione per via vaginale? Assurdo? Non più assurdo di quanto sia invadente e invasivo un agire clericale che si intrufola ancora senza vergogna nella vita intima della gente, nel decidere la condotta sessuale delle persone, nelle scelte politiche e sociali, nel volersi sostituire alla libertà del singolo con la pretesa di averne autorità derivante da mandato divino.


    Non può esservi né coscienza, né discernimento se non nella libertà di scelta e nessuna fede sarà adulta senza tale libertà. La coscienza rende l’uomo libero dalla legge. Un precetto non può essere imposto dall’esterno, ma deve nascere dentro la coscienza come frutto di un lavoro interiore di discernimento. Ciò non significa che la coscienza sia l’ambito nel quale ognuno possa cercare gli alibi alla propria condotta. Anzi, la coscienza è più esigente di qualsiasi legge anche per coloro che non la ritengono il sacrario dove Dio parla all’uomo.


    Erich Fromm scrive: “La coscienza domina con un’asprezza non minore di quella delle autorità esterne, anzi il suo dominio può essere anche più duro di quello delle autorità esterne, dato che l’individuo ne considera gli ordini come propri. Come può ribellarsi contro se stesso?”. Una Chiesa che indebolisce la scelta individuale non è una madre che educa a libertà, ma una tiranna.

  • Opinioni

    Papa Francesco. Una sola voce. Una profezia, ancora


    Mi preoccupa l’eccessivo entusiasmo della stampa internazionale per le ultime parole di papa Francesco, non perché non siano parole importanti, ma perche sembrano interpretate più in forza di legittime attese che per il loro autentico significato.


    Il rischio per molti potrebbe essere la delusione. Una sola voce a raccontare l’emozione di un incontro, una parola che sorprende, quasi sveste. Papa Francesco semplicemente sbalordisce investendo la comunicazione tradizionale di un nuovo vento. In un soffio di tempo, la semplicità del tratto, la dolcezza dei lineamenti, il coraggio della parola franca hanno permesso a Francesco di essere accolto come uno di famiglia che, non sai perché, si aspettava che tornasse e finalmente aprisse la porta di casa.


    La gente comune ha percepito a pelle che può fidarsi. Succede raramente, ma quando succede è possibile prevedere rivoluzioni capaci di cambiare il senso delle parole e il destino degli avvenimenti. Succede quando quella strana alchimia che si crea all’improvviso tra più persone permette di dare credito a qualcuno anche senza credenziali.


    Tra la gente semplice le coraggiose parole di Papa Francesco, rilasciate al gesuita Antonio Spadaro, in una intervista pubblicata su Civiltà Cattolica, sono arrivate dirette e tutti hanno avuto la sensazione che qualcosa di nuovo, di importante, stia per avvenire: “Nella vita, Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Siano esse omosessuali, divorziati…Bisogna accompagnarle con misericordia”.


    Già in luglio, in volo per Rio, provocato dalle domande dei giornalisti, il Papa aveva auspicato una Chiesa ricca di misericordia, pronta a immaginare nuove strade di dialogo e di accoglienza. Misericordia, appunto, parola seducente e appassionata, ancora di più sulle labbra di un Papa che può inaugurare un nuovo stile di Chiesa e per tanti, che da essa si sono sentiti esclusi, aprire frontiere di speranza. Ma cosa dice Francesco? Non c’è uomo o donna  che non debbano essere accolti, la Chiesa e il mondo, la Chiesa e ogni uomo, debbono camminare insieme per scambiarsi “gioie e speranze”, interessarsi l’uno all’altro anche quando la speranza sembra essere compromessa, anche quando tutto sembra perduto, come in tempo di crisi. I mutati scenari sociali e culturali chiamano la comunità credente a vivere in modo rinnovato la  sua esperienza comunitaria di fede. Un cambiamento che vede la Chiesa pronta a fare il suo esame di coscienza per questa vicinanza all’uomo spesso tradita. Una Chiesa che mentre riconosce l’offerta entusiastica e coraggiosa di tanti suoi membri, non nasconde i suoi fallimenti e soprattutto i peccati dei ministri del Vangelo, che pesano sulla sua credibilità.


    La crisi del nostro tempo chiede alla Chiesa questa conversione, di metodo e di presenza, a una nuova visione del mondo che riesca a guardare al futuro. Conversione come cambiamento di prospettiva, per guardare all’uomo nella sua specifica consistenza, nella sua situazione concreta di gioie e dolori per incontrarlo nella sua reale esperienza senza giudicarlo, ma con la volontà di chiamarlo amico.


    Non c’è divorziato, separato, omosessuale che come uomini  non debbano poter sentire la carezza della misericordia, come ogni altro uomo. Grande rivoluzione di sensibilità, quella di Francesco, di una chiesa spesso avvertita insensibile, rivoluzione certamente di linguaggio, proposta di vicinanza all’uomo nella sua specifica condizione. Ma chi pensa di trovarci altro si sbaglia.


    Le stesse parole del papa sono chiare: “Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto”. E poi aggiunge, per evitare ogni falsa attesa e collocare il suo intervento in un alveo ben protetto: “Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione”. Non parlarne però, in certi casi come questo,  può indurre in errore come  interpretare la parola accoglienza con quella di accettazione.


    La vera rivoluzione certamente adombrata nelle parole di Francesco sarà il giorno in cui davvero coloro che sono invitati a pranzo dalla Chiesa, diciamo accolti, potranno sedersi a tavola, per consumare il pasto, diciamo accettati nella loro condizione. Solo allora passeremo dal tempo della profezia al tempo della condivisione.

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    Per leggere il testo integrale dell'intervista di Antonio Spadaro S.I. - Civiltà Cattolica  al Pontefice, pubblicata da Avvenire su concessione di Civiltà Cattolica >>>

     * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale. Insegna Storia del cristianesimo. Editorialista di Avvenire e Il Mattino. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread”
     

      

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