Articles by: Gennaro Matino*

  • Opinioni

    Napoli. Un brindisi alla mia città




    CARA Napoli, amata terra mia, come vorrei vederti sorridere, come vorrei che tra le righe della tua storia si potesse scrivere a caratteri cubitali la parola speranza. Parola di sogno, non per allontanarti dalla verità, non per imbastardire l’origine dei tuoi guasti, ma per sostenerti nella lotta del tuo riscatto.


    Tra qualche giorno lasceremo alle spalle l’anno andato, con tutte le illusioni che ti hanno ingannato: la politica delle promesse mancate, le prediche dei progetti mirabolanti mai realizzati, le processioni dei questuanti, cortei di professori senza cultura, di fondazioni umanitarie senza giustizia sociale, delle confraternite senza pietà per gli ultimi.


    Tra qualche giorno lasceremo alle spalle l’anno che passa. Forse non getteremo dalla finestra tutta la roba vecchia, non ne abbiamo la forza, non ne abbiamo l’attitudine, perché da secoli siamo rassegnati accumulatori di ingiustizie e prevaricazioni. Il desiderio c’è, in tanti, ma non la determinazione, così gli uomini che ti hanno ingannato avranno ancora il potere della parola per democratico consenso o per ecclesiastico mandato, avranno in tanti ancora la libertà di farti fessa.


    Vorresti un destino diverso, all’altezza della bellezza che il Padreterno ti ha concesso il giorno in cui ti ha partorito, sei stanca di sentirti offesa nella tua dignità, nelle straordinarie potenzialità sciupate che il genio e l’arte della tua gente hanno da secoli dimostrato di possedere.


    Ma Napoli mia, amata terra, lamentarsi non serve a nessuno se alle parole  di protesta non seguono quelle di speranza, uniche capaci di originare lotta, parole che costano sangue e fatica, che non possono essere rivendicate da chi non ha fede nel successo. Piangersi addosso è arte a te conosciuta, sei maestra nell’attribuire ad altri i tuoi dissesti, le tue rovine, ma credimi quello che manca alla tua storia è una rivoluzione vera, capace di cambiarti i connotati fin dentro le viscere, rigenerarti a sostanza di vittoria. Perfino quella di Masaniello fu solo una scaramuccia, che tale è rimasta, come quella del ‘99, storia conosciuta, grandi ideali ma lotta di pochi. Dove era il popolo, dove la tua gente?


    Difficile fare rivoluzioni dove festa e farina danzano insieme, dove il motto più gridato dalla tua gente è “cà nisciuno è fesso… noi pure dobbiamo campare”. Difficile inventare parole di liberazione dove il sacro ha reso onore ai potenti, difficile inventare giustizia se in nome di Dio la Chiesa ha preteso la rassegnazione degli afflitti a ogni genere di sopruso. Nessuno, cara Napoli mia, verrà a darti speranza, neppure il Papa con le sue dolci parole, se non acchiappi in te stessa la forza di sognare una nuova consistenza, il coraggio di dare vita a una nuova cittadinanza.

    Hai nel tuo bagaglio ricchezze ineguagliabili, puoi mostrare al mondo i tuoi tesori di cultura, di storia, di arte, soprattutto di un’umanità generosa.


    Ma che te ne fai di tutto questo se ancora sei aggrappata a ciò che hai perso, a un passato incapace di organizzare il futuro? Che storia stai raccontando di te, a te stessa, del tuo presente?

    Ti lasci scippare il futuro espellendo dal tuo seno gli uomini migliori, i più preparati che potrebbero regalarti il loro genio e la visione, costretti a cercare altrove sussistenza per invidia dei ladri di mestiere, mentre ti accontenti di mediocri raccomandati, figli di padri con qualche merito in più dei figli ma raccomandati anche loro, a suo tempo.


    Il sogno si lega alla speranza, ma la speranza non è materia onirica, non fa dormire chi vuole ribellarsi ai prepotenti, è costruzione titanica di vita, efficace motore di visione, è spazio nel presente per ridisegnare futuro, è desiderio di un domani che vuole destini condivisi.

    Solo una nuova politica, Napoli mia, potrà rigenerare il vissuto della tua terra, solo una nuova spiritualità potrà ridisegnare i confini della giustizia e della libertà, solo una cultura non prezzolata potrà indicare il corso nuovo della legalità.


    Pochi giorni e anche quest’anno sarà passato, qualche scoppio di mortaretti, un brindisi benaugurante, lenticchie per moneta, concerti in piazza sotto il cielo per ballare con le stelle.

    Il mio calice lo elevo a te, Napoli mia, amata terra, l’augurio è per te che tu possa da subito, il giorno dopo la festa, danzare la speranza, raccontare a chi ti ama che non sei un’occasione fallita, che ancora è possibile per chi lotta per la tua dignità guardare al suo domani non lontano dalle tue braccia.


    Speranza possibile se a brindare per te non resterò da solo.

    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).

  • Opinioni

    Un Natale con la neve, i capitoni e il presepio


    VORREI un Natale con la neve. Desiderio inopportuno in tempo di crisi?

    Infantile sogno, mentre si fatica a far quadrare i conti e a spartire il centesimo per campare? Eppure è più forte di me, non resisto, vorrei un Natale con la neve. Vorrei svegliarmi al mattino e trovare tetti, strade, macchine imbiancate.


    Quando ero bambino, il primo irrigidirsi dell’inverno coincideva quasi sempre con le feste natalizie e muoveva in me la speranza che il sogno si potesse avverare. Ad altre latitudini da Napoli, la neve è familiare, da noi è un’eccezione, quasi un miracolo, come il giorno della grande nevicata del 1956.


    Mi piacerebbe un Natale con la neve, poterla vedere fioccare negli occhi lucidi dei bambini, commossi di gioia, e insieme a loro, col fiato umido, velare le finestre, solcarle con fragile scrittura, appena appena capace di trattenere per un attimo la frase augurale: Buon Natale, augurio per tutti da consegnare al vento.


    Vorrei fare un bel presepio: al centro la grotta del prodigio, avvento di un Dioche non ha paura di farsi uomo, che non ha vergogna dell’umano, che locerca, lo chiama fino a rintracciarlo, pronto a vestirsi dei panni poco pulitidella sua storia. Ai lati della grotta metterei l’osteria e la macelleria, vita che siconsuma come vita. Metterei la cascata, le lavandaie, il pescatore. Non

    mancherebbe certo Benino, uomo dei sogni anche lui, pronto a risvegliarsi alcanto degli alati messaggeri.


    Vorrei un Natale con la frittura di capitoni. Ma che vai a pensare, direte. Amolti non piacciono neppure. Fatto sta che più lo dite e più a Natale pretendoche i capitoni fritti siano il mio piatto della memoria. Anche a casa mia, l’annoscorso, si disse che non era il caso. Mi rassegnai a farne friggere soltanto uno,per tradizione, visto che nessuno li gradiva. Fatto sta che l’unico a restaresenza assaggiarlo fui io e mi dovetti accontentare del solo profumo dell’aceto e dell’alloro. In realtà nessun profumo di cucinato. Troppo tempo, troppa applicazione stare ai

    fornelli, il precotto funziona meglio. Ancor meglio la dieta, forse mangiare da soli, utilizzare meglio lo spazio inutile che potresti condividere con gli altri.


    Spartire vita? A che serve, romanticismo inutile. Altra sostanza, altra economia di parole significative serve all’uomo adulto. Eppure io vorrei un Natale con i capitoni, con i miei vestiti e le mura della casa tutti impregnati di odore di frittura. Vorrei gli struffoli a Natale portati a tavola giusto poco prima dell’apertura dei regali. Vorrei vedere i bambini rubacchiare i confettini e poi leccarsi le dita dolci di miele. Vorrei soprattutto che la signora Ferinetti, quella del piano di sotto, che sta sempre sola, non subisse con rammarico e nostalgia i rumori della festa della famiglia di sopra, ma li potesse avvertire familiari, condividere dolcemente come suoi.


    È difficile rompere il silenzio di chi è solo. Ma difficile non significa impossibile, basta aggiungere un posto a tavola. Vorrei rubare dal copione di Eduardo la frase di Luca Cupiello: “Questo Natale si presenta come Dio comanda”.


    Qualcuno obietterà che il passato è passato e la nostalgia non serve a risolvere i problemi che ci attanagliano. È infantile pensare di celebrare un evento, anche se così importante per il calendario, mentre la criminalità spadroneggia, la crisi economica divora ogni cosa, il lavoro manca, la politica e i partiti sembrano sordi ai problemi della gente, mentre i potenti sono

    impegnati come sempre nella spartizione della torta. Sì, è vero, il passato è passato, ma la memoria non è da buttare.


    La differenza che c’è tra la nostra precarietà e quelle vissute ieri dai nostri padri sta proprio nella qualità della memoria, nella forza che allora sapeva consegnare. Ci sentiamo maggiormente smarriti oggi perché in tempi difficili ci accorgiamo di non aver conservato il pane bianco per i momenti bui, perché abbiamo rinnegato le nostre radici.


    Sarà infantile desiderare un Natale con la neve, gli antichi profumi, il calore di tavole imbandite. Sarà, ma è proprio questo che mi sento di augurare. Natale è questione di nascita, senza il vagito del nuovo nato non si celebra festa. Chi viene alla luce si affida sicuro nelle braccia di chi c’era prima di lui, mentre il passato consegna al bambino il suo testimone.


    Non mi vergogno delle mie radici, non mi vergogno del mio Natale. Auguro a tutti di non vergognarsi del proprio.
     


  • Opinioni

    Che non sia solo una Chiesa che corre veloce con le parole senza fatti...


    EPPURE, nonostante sia apprezzabile la bontà dell'intenzione, ho il timore, forse infondato, che questo nuovo linguaggio suggestivo e rivoluzionario, non facendo i conti con la realtà effettuale, possa rivelarsi un boomerang per la Chiesa stessa.


    Non credo che chi abbia responsabilità alte di ministero a Roma, a Napoli o altrove, possa dimenticare che i suoi pronunciamenti vengano accolti dalle masse e dalla comunicazione mediatica non tanto come opinioni personali, benché autorevoli, ma come verità di fede. Il confine tra il pensiero privato di un pastore e la verità ecclesiale è così labile nel tempo della comunicazione globale che il rischio della confusione è più che remoto. Un rischio che si palesa ogni qualvolta un papa o un vescovo esprime la sua personale opinione, fosse anche la più desiderabile e condivisibile, nelle quattro mura di una celebrazione privata, ma che diventa poi patrimonio pubblico. Opinione che non è regola e non essendo supportata da decretazione canonica in corso, da scelte pastorali consequenziali, da disposizioni chiare che indichino alle comunità parrocchiali come rapportarsi con i fedeli, resta un pio desiderio.


    Una bellissima visione che però devasta il vissuto quotidiano delle parrocchie, lasciando senza risposte chi cerca pace nel suo stato di vita e rischiando perfino di spogliare di autorevolezza chi è costretto, anche suo malgrado, ancora a dire dei no e che per questo risulterà, senza avere colpa, impopolare, antipatico, retrogrado, e soprattutto agli occhi della gente non in linea con il papa e con il vescovo.


    Non serve al destino della Chiesa, al suo futuro, fare promesse, prospettare rivoluzioni un giorno sì e un giorno no, soprattutto quando si ha la consapevolezza che il loro annuncio può provocare attese in chi aspetta risposte da tempo e soffre una condizione di esclusione dalla vita ecclesiale. Soprattutto quando, in forza di un muro antico di incrostazioni pesanti nella Chiesa, ci si accorge che le promesse che si stanno facendo restano buoni e santi propositi ma difficili da realizzare subito.


    Non debbo qui ricordare che sono il primo a desiderare che finalmente la Chiesa si renda madre amorevole dei tanti che sono stati espulsi dal suo seno, dei tanti che amano il vangelo ma che nella Chiesa si sentono stranieri. Anche io sono tra i tanti che aspettano una rivoluzione di linguaggio, ormai ineludibile, che renda accessibile il comandamento dell'amore del Maestro di Galilea ai viandanti della storia che non comprendono il clericalese e che certo in papa Francesco hanno visto possibile realizzare tale rivoluzione.


    Ma attenzione: una Chiesa dalle promesse gridate, anticipate, annunciate a grandi titoli dai giornali che restano però soltanto annunci, può provocare un male maggiore del passato malato da cui ci si voleva liberare; la Chiesa prima resta nuda delle parole gridate e di facile e fragile successo, poi spogliata anche di quelle che, benché antiche e datate, comunque le servivano per raccontare se stessa.


    L'uso della parola è suprema arte per comunicare se stessi e il ruolo di chi lancia una sfida con le parole che annuncia è direttamente proporzionato all'autorità di cui è investito. Se un grande ricercatore oncologico, globalmente riconosciuto come il più autorevole tra gli scienziati, nelle sue interviste affermasse che c'è la cura per gli ammalati di cancro, quale sarebbe la reazione degli ammalati? Quale sarebbe la ricaduta nel delicato rapporto medico-curante e paziente qualora la terapia, ancora da provare, protocollare, da sperimentare vedesse il povero medico di base, costretto nella verità del mestiere, a essere messaggero di delusione? Non oso immaginarlo.


    Una Chiesa che non sogna è solo un apparato, ne sono più che convinto, e non può recare lieti annunci se non ha una visione di futuro. Ma sognare da soli e restare da soli a sognare purtroppo costringe il sogno a restare solo un sogno. Bisogna invece sognare insieme e insieme costringere il futuro a diventare fatto, insieme bisogna trasformare il tempo del peccato in tempo di riscatto. Se l'annuncio del ricercatore avesse solo di poco preceduto la certezza della cura, il sogno allora sarebbe servito anche all'attesa, alla lotta dell'ammalato per curare se stesso. Ma se la cura ritardasse, l'amarezza, la delusione, il senso della sconfitta potrebbero provocare alla malattia accelerazioni mortali e trasformare l'annuncio di salvezza da sogno in incubo.


    C'è  il timore che questo nuovo linguaggio suggestivo e rivoluzionario non facendo i conti con la realtà possa rivelarsi un boomerang.



    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).

  • Opinioni

    La schiavitù, oggi. Subdola realtà


    OGGI nel mondo del mercato globale la schiavitù si ripresenta in nuove e raccapriccianti forme, proposta come ricetta necessaria e indispensabile al superamento della crisi, subdola materia di ricatto nelle mani di nuovi schiavisti che offrono lavoro sottocosto, senza protezioni, senza alcun diritto per chi è costretto a cedere dignità in cambio di pane. Spregevole chi propone a modello di progresso e di futuro quei mercati dal Pil in crescita che, forti di moderna schiavitù, possono produrre facilmente a basso costo.


    È traditore della sua gente chi colpevolmente dimentica la lotta che i popoli hanno fatto per sconfiggere i tiranni e guarda con ammirazione le economie ricche di quei paesi governati da prepotenti, senza libertà per i propri cittadini che abbassano giorno dopo giorno, sempre di più, l'asticella dei diritti umani per innalzare il livello del benessere dei più ricchi. Schiavitù che non è meno aggressiva sui mille marciapiedi della depravazione a pagamento.


    Marciapiedi di metropoli affamate di compagnie bugiarde, commercio non straniero nella nostra Napoli che vede giovanissimi vendersi per disperazione o per fame. L'aspetto più grave e urgente delle moderne schiavitù è proprio quello dello sfruttamento dei minori. Anche perché è un aspetto largamente sottostimato, le cifre ufficiali sono solo la punta di un iceberg.


    Le principali vittime della prostituzione tra i minorenni provengono dall'Europa dell'Est o da alcuni paesi africani, sono figlie di famiglie molto povere oppure provengono dagli orfanotrofi e sono schiave di chi le ha portate in Italia. Non meno raccapricciante è l'indifferenza dei troppi che sembrano commuoversi per la mano tesa di un bambino aggrappato al petto di una donna a elemosinare, senza chiedersi di chi sia figlio e per quale arte o sventura sia lì a mendicare e non a scuola o a giocare come i propri figli.

     
    C'è dunque un settore che non conosce crisi, ed è quello dello sfruttamento, un mercato che vede incrementare i guadagni e il numero delle vittime. Una realtà poco frequentata dai media, ma che rappresenta un problema grave, soprattutto in Italia, a Napoli: collaboratrici domestiche, lavoratori agricoli, operai, pescatori, con paghe di fame, il nostro Paese risulta essere quello con il maggior numero di vittime di sfruttamento in Europa. Dovunque l'uomo è strutturato, dovunque operino strutture di repressione, lì l'uomo verrà tragicamente schiacciato e perderà dignità. Sarà povero e non solo di mezzi materiali necessari alla sua sussistenza, sarà schiavo perché privato dei suoi diritti e dei suoi sogni, sarà psicologicamente e spiritualmente distrutto, annientato, facile preda di un mercato senza rispetto umano.


    Colpevole di questa ingiustizia anche chi doveva tutelarli, difenderli, schierarsi senza riserve al loro fianco, uomini di pensiero, di cultura, istituzioni. Colpevole anche la Chiesa quando vuole privare l'uomo della sua libertà individuale, per entrare prepotentemente nel sacrario della sua coscienza, il posto più sacro che Dio abbia riservato alla creatura. Troppo spesso le religioni sia dell'Est che dell'Ovest hanno schiacciato violentemente la libertà dell'uomo in nome di Dio, con l'unico obiettivo di governare i poveri, convincerli alla rassegnazione e così rendere più facili i disegni dei potenti.

     
    Nella nostra città ci sono tanti giovanissimi che si vendono per disperazione o per fame. Il settore dello sfruttamento non conosce crisi, anzi incrementa i guadagni e il numero delle vittime.

    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recenti libri: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013) e "Tetti di Sole" (2014).
     


  • Opinioni

    Ancora lontana la conversione della Chiesa al linguaggio della contemporaneità


    SENZA troppa consapevolezza, possono offendere la sensibilità di chi lotta per rivendicare il proprio spazio. La Chiesa, a Roma e a Napoli, avrà ancora libertà di parola se saprà usare con rispetto la sua oltre l'omologazione, se saprà rispettare la differenza dei destinatari. La parola è uno specchio nella quale la comunità si ritrova, difficile da imprigionare in dizionari che altro non restano che semplici istantanee di un processo di trasformazione continuamente in atto all'interno di una particolare comunità. Gli studiosi indicano con politica del linguaggio la missione di rendere comprensibili e accettate le differenze in un contesto plurale per consentire l'unità tra diversi e il passaggio di contenuti da condividere, senza seviziare la cultura di un popolo ma investigandola per scoprirne le ricchezze per poi esercitare un'azione di ingresso con il nuovo che si vuole proporre.

     
    La Chiesa non sembra ancora interessata a questo processo. Sostiene da un lato che è suo desiderio comunicare il Vangelo nel mondo che cambia, ma dall'altro non sembra pronta a porre attenzione a questa politica del linguaggio, convinta di poter piegare al proprio idioma i diversi contesti linguisti usando parole da eccesso clericale. La lingua non si inventa per decreto di Stato o per opera dei Concili, si parla e si comprende nel vissuto esistenziale. Non la si può imporre o volerla immutabile, considerato che proprio la differenza degli uomini la renda viva e quindi mutevole. Quando la parola semina, crea nuova vita e per questo inventa futuro. Anche la parola della Chiesa è seminagione di significati, forse ancor di più che altrove, essendo la Chiesa stessa fondata sulla parola e più di altre istituzioni ha bisogno di fare i conti con tale processo di inculturazione.

     
    Mestiere difficile quello dell'evangelizzatore che deve equilibrarsi tra fedeltà al Vangelo e adeguamento al destinatario e per questo è indispensabile una sua mediazione che non sia banale o peggio volgare, mentre avanza una rivoluzione linguistica tale che è difficile da prevederne i confini. Restare fermi a ragionare sui massimi sistemi di una fede messa in crisi da un mondo in cambiamento e non sforzarsi con ogni risorsa e opportuna strategia a condividerne il cambiamento, per comprenderlo e anticiparlo, lanciando coraggiose ipotesi, utopie di significato, significa farsi come sempre superare dalle parole nuove e poi semmai, come è successo in passato, rincorrerle, con la speranza di riacciuffarle. La velocità del cambiamento tuttavia non consente riacciuffamenti a buon mercato, riallineamenti con il tempo perduto, perché la rivoluzione in atto ha tempi tali che o si segue il nuovo mentre muta o si resta fuori. Già in passato non fu consentito alla Chiesa cattolica di recuperare quando all'inizio dell'età moderna Gutenberg inventò la stampa e mentre Lutero ne comprese subito la forza e la usò nella sua battaglia per dare nelle mani di ogni credente la Scrittura tradotta nella lingua corrente, i vescovi e i teologi cattolici si struggevano nel dover decidere se valeva la pena lasciar lavorare gli amanuensi o allinearsi con il nuovo.

     
    Il Concilio Vaticano II, qualche secolo dopo, scelse di usare le lingue nazionali nella liturgia per riportare il linguaggio al centro della comunicazione della fede. In verità è stata una rivoluzione mancata, il passaggio formale dal latino alle diverse lingue non ha consentito se non superficialmente il dialogo intraculturale, strategico per parlare alla diversità del mondo, passaggio che va oltre la traduzione letterale dei testi, imprimendo al lessico sacro il vissuto concreto della vita. Non basta qualche adattamento pubblicitario per reinventare l'annuncio del Vangelo, qualche battuta bonaria, soprattutto quando a monte non si intravede ancora una conversione della Chiesa al linguaggio della contemporaneità. Molti gridano al nuovo che avanza, grazie al pontificato di Francesco. Dal mio modesto punto di osservazione noto un nuovo benefico entusiasmo, ma il linguaggio della Chiesa non sembra andare oltre il suono, suggestivo per piazze rumorose non necessariamente attente, ma ancora lontano dal superare gli steccati del gergo clericale che per antica presunzione di certe cariatidi ecclesiastiche è ritenuto sacro e pertanto immutabile.


    Il passaggio formale dal latino alle diverse lingue non ha consentito il dialogo intraculturale, strategico per parlare alla diversità del mondo.

    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).


  • Op-Eds

    Pope Francis and the Revolution of Peace


    “ My home for Peace. Pope Francis, in the Holy Land, opens up San Peter’s doors and his own home to the revolution of Peace. It’s a long time coming peace, difficult to build, many times announced, and as many times betrayed.

     
    Israel and Palestine: ancient populations, strengthened by their history and truth, separated by violence and prejudice, with a common fate and a forced path ahead: dialogue.
     
    Twenty-one years after the handshake between Rabin and Arafat in the gardens of the ‘White House’, ‘The house of Peter’ could become the place for a new and definitive alliance to blossom.


    “We too - a barefoot Francis said on the esplanade of the Temple Mount- wish to witness to God's working in the world, and so, precisely in this meeting, we hear deep within us his summons to work for peace and justice, to implore these gifts in prayer and to learn from on high mercy, magnanimity and compassion"


    Compassion is the key to understand his papacy and at the same time the motivating force of this pilgrimage in the land of the great monotheist religions.

     
    There is a close connection between compassion and peace, feeling the pain of the other as a way to restart dialogues once interrupted. This historic trip was firmly wanted to celebrate the fifty years since Paul VI travelled to Jerusalem, the first pope to do so after San Peter.

     
    Pope Francis, coming from the edge of the world, had many times before stated that the paralysis of the consciences is contagious and spreads to the point that it hinders the freedom of entire populations. But also compassion has the potential to be contagious and can initiate the revolution of peace, if you have the courage to invoke it, always and everywhere.


    Hence his appeal "Dear brothers, dear friends, from this holy place I make a heartfelt plea to all people and to all communities who look to Abraham: may we respect and love one another as brothers and sisters!

     
    May we learn to understand the sufferings of others! May no one abuse the name of God through violence! May we work together for justice and peace!”
     
    We need to work hand in hand for peace, a peace that won’t be achieved until the truth will have completed its path to freedom.

     
    Together with the Ecumenical Patriarch of Jerusalem, Francis invoked peace for those men and women who, although of different faiths, have the right to believe in their God without having to fear discrimination or persecution. The wish for the two States is for their own dreams to become reality. For the Palestinians he urged a just peace, the right to have a sovereign state, to live with dignity and travel freely. For the people of Israel, he asked for the right to peace within their walls, the safety of its territories, but also peace in a wider sense, beyond its borders and beyond time: the supreme respect they are owed for their history … A history that is also ours but is too often forgotten, offended, desecrated, wiped out by fierce hate and merciless violence.


    “God – Francis prayed at of Yad Vashem’s Holocaust Memorial - grant us the grace to be ashamed of what we men have done,to be ashamed of this massive idolatry, of having despised and destroyed our own flesh which you formed from the earth, to which you gave life with your own breath of life. Never again, Lord, never again!”


    The revolution of Peace is possible if we offer it a home. This is why Francis has opened his doors: “ My home for Peace”.


  • Opinioni

    La rivoluzione della Pace di Papa Francesco


    “La mia casa per la pace”. Papa Francesco, in Terra Santa, sfonda il tetto di San Pietro e apre la sua casa alla rivoluzione della pace. Una pace lunga da arrivare, faticosa da costruire, più volte annunciata, più volte tradita. Popoli antichi, forti di storia e di verità, Israele e Palestina, contrapposti da violenza e preconcetto, con un destino comune e una strada obbligata: il dialogo.


    Ventuno anni dopo la stretta di mano tra Rabin e Arafat nei giardini della “Casa Bianca”, “la casa di Pietro” può diventare ora il giardino di una nuova e definitiva alleanza. “Anche noi”, ha detto Francesco a piedi nudi sulla spianata del Tempio di Gerusalemme, “vorremmo essere testimoni dell’agire di Dio nel mondo e per questo, proprio in questo nostro incontro, sentiamo risuonare in profondità la chiamata ad essere operatori di pace e di giustizia, ad invocare nella preghiera questi doni e ad apprendere dall’alto la misericordia, la grandezza d’animo, la compassione”.


    La compassione come chiave di lettura del suo pontificato e ora come motivo conduttore di questo pellegrinaggio nella terra dove le grandi religioni monoteiste si riconoscono cittadini.


    C’è uno stretto legame tra compassione e pace, il dolore del diverso come via per ricostruire dialoghi interrotti. Prima di questo storico viaggio, fortemente voluto per celebrare i cinquant’anni da quello di Paolo VI, primo Papa a Gerusalemme dopo San Pietro, Papa Francesco, venuto dai confini del mondo, più volte aveva ripetuto che le paralisi delle coscienze diventano contagiose e si espandono fino a bloccare la libertà di popoli interi. Ma contagiosa può essere anche la compassione capace di provocare la rivoluzione della pace, se si ha il coraggio di gridarla sempre e in ogni caso.


    Per questo il suo invito: “Cari fratelli, cari amici, da questo luogo santo lancio un accorato appello a tutte le persone e le comunità che si riconoscono in Abramo: rispettiamoci ed amiamoci gli uni gli altri come fratelli e sorelle! Impariamo a comprendere il dolore dell’altro! Nessuno strumentalizzi per la violenza il nome di Dio! Lavoriamo insieme per la giustizia e per la pace!”.


    Lavorare insieme per la pace, costruttori pacifici e pacificatori per un mondo nuovo. Una pace che non trova pace fino a quando non è compiutamente realizzata, fino a quando la verità non abbia compiuto tutto il suo percorso di libertà.


    Con il Patriarca Ecumenico di Gerusalemme, Francesco ha chiesto pace per gli uomini e le donne che, diversi per fede, hanno il diritto di poter credere nel loro Dio senza paura di essere discriminati o perseguitati. Che il sogno diventi realtà, questo l’auspicio per i due stati. Per il popolo palestinese ha invocato una pace giusta, il diritto a una patria sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente. Per il popolo di Israele, ha chiesto il diritto alla pace nelle sue mura, la sicurezza dei suoi territori, ma anche una pace più ampia, più estesa, che vada oltre i suoi confini e superi le barriere del tempo: il supremo rispetto dovuto da tutti per la sua storia, che è storia che ci riguarda, la nostra stessa storia troppo spesso dimenticata, offesa, oltraggiata, massacrata per vile odio e violenza disumana.


    “Dio”, così ha pregato Francesco al memoriale dell'Olocausto di Yad Vashem, “dacci la grazia di vergognarci di ciò che, come uomini siamo stati capaci di fare, di vergognarci di questa massima idolatria, di avere disprezzato e distrutto la nostra carne, quella che tu impastasti di fango, quella che tu vivificasti con il tuo alito di vita. Mai più, Signore. Mai più».


    La rivoluzione della pace è possibile se le offriamo una casa ed è per questo che Francesco ha aperto la sua: “La mia casa per la pace”.


    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale e insegna Storia del Cristianesimo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Editorialista di 'Avvenire' e 'Il Mattino'.  Opinionista di 'La Repubblica". Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread" (Baldini & Castoldi - 2013).

  • Opinioni

    Napoli, confrontati con te stessa


    NAPOLI a un passo dal default, lo spettro del dissesto finanziario, che per ora sembra scongiurato, fa ancora paura.

    Fa ancora paura a meno di dieci anni dall’uscita dal suo ultimo fallimento che è costato ai cittadini lacrime e sangue.


    Il governo Renzi ha lanciato una scialuppa di salvataggio alla città, un’operazione che così come viene presentata, per i sacrifici che l’intera collettività dovrà sopportare, non consente di fare salti di gioia.


    Tuttavia, comunque vada, al di là del giudizio di merito sul come si è arrivati a questa tragica situazione e oltre la fumosa analisi politica che si consuma più per spirito di parte che per visione di futuro, la sofferenza della città e le prospettive di una sua drammatica decadenza, più profonda di quella che la città già vive, dovrebbero provocare i protagonisti della vita pubblica e civile al senso di responsabilità.


    È tempo di una riflessione alta sul destino della nostra terra che permetta, al di là delle diverse posizioni ideologiche, sociali, politiche e culturali di ripensare la città insieme e, oltre le analisi necessarie, individuare profetiche soluzioni.


    Siamo a una svolta che è giusto definire storica, un tempo in cui i destini dei diversi sono accomunati più che dagli stessi sentimenti di appartenenza, dal rischio comune della deriva, e per questo varrebbe restare uniti, riconsiderando l’antico detto secondo cui o ci si salva insieme o si perisce tutti.


    Nessuno può scrollarsi da dosso le proprie responsabilità, chiamarsi fuori dal dovere di fare ammenda per i tanti guasti procurati dalla mancanza comune di senso civico, dalla delega sconfinata di rappresentanza politica senza alcuna verifica, dal pressapochismo morale ed etico.


    D’altronde, il fallimento amministrativo del Municipio, sotto gli occhi di tutti, non arriva a sorpresa, ma è solo l’ultimo di tanti altri default sottaciuti e banalizzati che descrivono la più totale assenza di strategia progettuale, di percorsi organizzativi e gestionali.


    Un deficit organizzativo provocato da inefficienze e mediocrità professionali tali da produrre una crisi così ampia e profonda del governo del territorio, da inanellare nella città, uno dopo l’altro, il fallimento della politica, della cultura, della chiesa, dell’economia a causa di un solo comune denomina-tore: mancanza di promozione della cultura del bene comune a vantaggio dell’etica individualista. Una politica saccente, esperta nell’allontanare i cittadini dalla partecipazione attiva alla cosa pubblica per consentire a una classe dirigenziale di basso profilo di coltivare indisturbata il giardino dei propri privilegi; una cultura dilapidata da beghe di palazzo e dalla spartizione baronale di feudi intellettualistici che passano senza merito da padre in figlio e che spende il suo tempo nell’occupazione sistematica di posti di prestigio, più che nella ricerca scientifica e nella promozione dei suoi uomini migliori; una chiesa di sola immagine e di poca sostanza, che a fronte di promesse visionarie di nuova presenza nel tessuto cittadino e di responsabilità attiva per aggregare diversi nella costruzione del bene comune, sembra piuttosto navigare a vista; infine le diverse anime della vita produttiva ed economica della città che, a fronte di una crisi colossale dei mercati, non hanno saputo darsi una governance tale da rammodernare i percorsi aziendali forti di antiche esperienze produttive e di uscire fuori dalla sudditanza di commesse politicizzate e lottizzate.


    Tuttavia, proprio l’estremo stato di prostrazione in cui vive la città obbliga le diversi componenti, che hanno contribuito per la loro parte al suo decadimento, al confronto.


    È tempo di uscire allo scoperto, ponendo fine allo squallido gioco al rimpiattino, rimandandosi responsabilità più che ripetere a se stessi che solo insieme si può venire fuori dalla notte.

    L’impresa è complessa e suppone il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati: istituzioni rappresentative e autorità di governo locale, operatori economici e finanziari, organizzazioni sindacali e sociali, strutture universitarie e culturali, chiesa e confessioni religiose presenti sul territorio, movimenti e associazioni.


    È tempo di convocare un’assise cittadina, rivoluzionaria e non violenta, per costruire una città nuova, uno spazio di ripensamento visionario, dove diversi che restano tali sappiano produrre un nuovo modello di città pronto a valorizzare le sue innumerevoli risorse e a ridisegnare i suoi futuri percorsi.


    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale. Insegna Storia del cristianesimo. Editorialista di Avvenire e Il Mattino. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread”

  • Opinioni

    Una società che non sta vicino a chi muore


    MORIRE da soli senza conforto, sempre più spesso nessuno accanto.


    La morte ha cambiato il volto della società di massa e sta cambiando velocemente anche quella meridionale. Se la fine della vita fa parte ancora della vita, non si può lasciare un uomo morire da solo.


    Un vivente è tale fino all’ultimo respiro e conserva un diritto naturale al rispetto della sua condizione anche durante l’agonia. La cura non è solo arte del guarire, ma dignità da difendere fino all’ultimo istante.


    La tendenza a considerare i morenti come se facessero parte già del passato ha allargato il numero di chi preferisce farla finita prima che la propria dignità venga compromessa da una morte indecorosa. Abbiamo nascosto la morte e così abbiamo disumanizzato il morire esasperando i guasti che non consentono una fine dignitosa: la miseria di morire in solitudine e la miseria di non avere lo spazio di solitudine necessario per morire. Ma è soprattutto il morire da soli che è diventato un inferno per tanti, per troppi: nessuna protezione, nessun accompagnamento.


    Diverso da un tempo quando nei vicoli e nei condomini della nostra città si viveva il dolore come condizione da spartire. Era facile che nel tuo stesso palazzo qualcuno venisse a mancare, e tu facevi parte dell’avvenimento, non ne eri escluso, né volevi esserlo. Imparavi dalla morte la vita: le lacrime, la disperazione della perdita, la dignità, la ritualità dei gesti. Ma anche la solidarietà, la compagnia che rinsaldava i rapporti, che riallacciava dialoghi interrotti, che poneva ciascuno dinanzi all’avvenimento doloroso senza infingimenti.


    Era qualcosa che era avvenuto in quella determinata casa, era il dolore di quel tale vicino, era morte che non ti apparteneva, ma non potevi non avvertirla come convocazione alla compassione. Ognuno offriva il suo sostegno: chi vestiva il defunto, chi avvisava i familiari e i conoscenti, chi prestava gli abiti necessari per il funerale, forse da poco smessi per il tempo di lutto, e chi preparava, come si diceva tra povera gente, il «cuonsolo », la consolazione del cibo.

    Una liturgia strana, ma fatta di storie che si passavano, incrocio di dolore, di amicizie che nascevano e che si rinsaldavano; era un parlare con la morte e sciogliere il dolore nella partecipazione al dolore degli altri.


    E non di rado in quella notte d’attesa, dinanzi al travaglio di chi trapassava, era facile ricordare la sua avventura umana, le sue peculiarità, le sue stranezze e quel ricordo spontaneo fissava per sempre nella memoria la vita di chi se ne andava, la rendeva presente al di là dello straziante silenzio. Poteva perfino capitare che parlando della vita di chi se ne andava potesse scappare un sorriso tra le lacrime.


    La vita, quando è vita, la si acchiappa per intero! La morte era avvertita come parte della propria storia, senza nasconderla, e non per questo meno dolorosa, ma vera e per questo più vivibile. Non era storia da consumare da soli, ma con tanti compagni, amici da tempo o occasionali, forse propri nati da quel dolore.


    Tempo passato, dirà qualcuno, la società è cambiata, difficile riprodurre modelli divorati dal deserto causato oggi dal riflusso nel privato, impossibile reinventare stili di vita semplici che in assenza di strutture pubbliche adeguate, aiutino il morente e la sua famiglia riempiendo il vuoto angosciante causato dalla morte.


    Tuttavia, una società progredita non può abdicare al suo dovere di essere al servizio dell’uomo fino alla morte e sentirsi giustificata dall’assenza al suo capezzale per il solo fatto che il medico abbia pronunciato la sentenza definitiva che sembra non lasciare margini alla compassione: “Non c’è più niente da fare”.


    Se è vero che arriva il tempo in cui ogni terapia è ritenuta inutile, il tempo dell’accompagnamento alla morte è necessario quanto e più di ogni altra cura.


    La lunga esperienza dei centri di cure palliative in altri paesi come la Gran Bretagna, il Canada, e gli Stati Uniti la dice lunga sulla differenza di civiltà dal nostro paese e di attenzione alla condizione dell’ultimo istante che permette di affermare che le sofferenze fisiche, il dolore, possono essere soppresse o alleviate; che la sofferenza morale dei malati in fin di vita e delle loro famiglie può essere attenuata con l’aiuto di volontari formati a tale scopo; che la realizzazione di progetti personali e sociali, così come l’espressione di desideri, di volontà, di opinioni o ancora della fede religiosa dei pazienti, restano possibili fino alla fine.


    Ma forse questa è una altra storia o forse questa è la drammaticità della nostra: dimmi come sei accompagnato alla morte ed io ti dirò in quale paese vivi, perché fino alla morte, il morente è un vivente.


    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale. Insegna Storia del cristianesimo. Editorialista di Avvenire e Il Mattino. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: “Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread”

  • Opinioni

    I fallimenti dell'Episcopato nelle scelte politiche dei cattolici


    CATTOLICI in politica, un capitale dilapidato da tempo da miopia progettuale, da tradimento di visione, da mancata sintesi tra l’essere credenti nella Chiesa e nel mondo. Meglio forse sarebbe, per onore di verità, avere più coraggio e cercare altri appellativi per descrivere quei pochi credenti o presunti tali che scelgono di partecipare attivamente alla vita politica.

    Meglio ancora se si riconsiderassero i percorsi di certi partiti che dicono di rifarsi al cattolicesimo popolare, sia per la dignità della sua storia politica che per la Chiesa stessa.


    L’ultima scelta dell’onorevole Casini di riposizionarsi nella destra berlusconiana la dice lunga su quanta coerenza esista in certa parte politica, come la dice lunga la miopia ottusa dell’episcopato italiano, che prima si è accomodato sulle poltrone dei privilegi preparate da Berlusconi, tacendo lo stato di degrado etico in cui il paese progressivamente piombava, e poi ha sostenuto, come se fosse stato parte neutra nella vicenda, il tentativo di Scelta Civica.


    Senza pudore ha rivendicato per il nuovo movimento un presunto quanto infondato stato di verginità e il ruolo di nuovo centro politico e futuro ago della bilancia delle scelte del Paese, calando nella mischia nomi di prestigio del laicato cattolico, senza programmi e senza prospettive.


    E quando qualcuno ricordava ai vescovi che senza la chiarezza dei percorsi si sarebbe potuta sprecare l’ultima carta a disposizione della Chiesa per dire la sua al mondo politico e che forse proprio l’accostamento così vistoso della Chiesa cattolica al nuovo partito, cosa mai avvenuta prima neppure ai tempi della Democrazia cristiana, avrebbe fatto male a entrambi, a fronte del fallimento non hanno avuto il coraggio di riconoscere il loro errore e chiedersi quale responsabilità abbia la Chiesa di fronte al paese.


    Perfino in Campania e a Napoli, terra di antica militanza cattolica, le promesse di nuove frontiere politiche per i cattolici sembrano ormai slogan caricaturali come le scenografie a uso massmediale di ogni adunanza clerico-cattolica battezzata euforicamente come discesa in campo dei cattolici. Diciamocela tutta, chiunque oggi si presenta come cattolico in politica, al di là della presunta forza della Chiesa e nonostante la sua storia personale, vive lo smarrimento nella contesa partitica, e la delocalizzazione della sua parola, sentendosi incapace di incidere veramente sulla linea di pensiero e di azione della vita politica del paese.


    Un ruolo irrilevante quello dei cattolici, un’afasia di significato, emarginati a essere gregari rispetto a posizioni culturali lontanissime dal Vangelo e dalla dottrina sociale.


    Ma sarebbe grave scaricare la colpa di tutto questo sui politici cosiddetti cattolici dimenticando che essi non sono altro che la rappresentazione del fallimento della Chiesa italiana, che da tempo ha abdicato alla formazione di un laicato adulto e responsabile, capace di scelte autonome che siano perfino in controtendenza ai desiderata della gerarchia, preferendo a chi ha capacità di pensiero autonomo i servi clericali, pronti a soddisfare la voracità di certo potere ecclesiastico.


    Dove sono oggi i laici nella Chiesa che dovrebbero essere pronti a dare ragione della loro fede anche nell’agone politico? Perché non parlano e quando parlano lo fanno a sproposito? È superfluo ricordare che non tocca ai vescovi o ai cardinali suggerire ai fedeli laici come mediare i valori cristiani nell’attività legislativa?


    È inutile che la Chiesa italiana continui a rivendicare pedissequamente l’irrinunciabilità ai cosiddetti valori non negoziabili ed esigere che le legislazioni li promuovano, se non consente che i cattolici in politica si facciano carico di una ricerca paziente di soluzioni pratiche, mai reazionarie, che tengano conto anche di chi ha concezioni diverse.


    Una mediazione antropologica ed etica che riguarda lo stato laico che deve riguardare ancora di più il credente che serve lo Stato, perché i principi della fede, lungi dall’essere un motivo di conflitto all’interno della convivenza civile, devono poter essere vivibili e appetibili anche per altri che la pensano diversamente.


    Fuori da questa visione non ci sarà mai più un cattolicesimo in politica, ma solo l’uso strumentale del nome di cattolico da parte di politici furbastri.


    Solo ripartendo da un lavoro faticoso e strutturato dalla base, fondato sulla declericalizzazione del laicato e su un rivoluzionario impegno di formazione di laici adulti alla vita del Vangelo, avrà senso immaginare una nuova cittadinanza per il cattolico impegnato in politica che, più che cercare un nuovo partito dei cattolici, deve potersi orientare diversamente, fedele ai suoi convincimenti, nel molteplice mondo della varietà culturale, etica e antropologica.

    * Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale. Insegna Storia del cristianesimo. Editorialista di Avvenire e Il Mattino. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread”

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