Articles by: Monica Straniero

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    Nudes. Le insidie dietro i social media

    Nudes – adattamento italiano dell’omonimo teen drama norvegese – è una serie antologica che racconta quel momento preciso in cui si cambia nell’intimo, da un giorno all’altro e per sempre. E di quanto sia pericoloso oltrepassarla nel modo sbagliato.  

    C’è qualcosa che accomuna gli adolescenti di ogni epoca e luogo: la linea d’ombra, quel momento preciso in cui si cambia nell’intimo, da un giorno all’altro e per sempre. Nudes è una serie antologica che racconta di questa linea d’ombra e di quanto sia pericoloso oltrepassarla nel modo sbagliato.

    La serie raccoglie le storie di tre teenager che si ritrovano a fare i conti con la divulgazione online delle proprie immagini private, svelando le insidie dei social media. C’è chi pubblica e chi viene pubblicato, vittime e carnefici. Vittorio, Sofia e Ada sono tre facce diverse della stessa medaglia. Tre esistenze travolte dalla nudità finita online, unite da uno stesso dramma che si snoda tra le strade rassicuranti della provincia bolognese.

    Nudes affronta per la prima volta il tema del revenge porn attraverso il punto di vista dei giovani protagonisti con sguardo realistico e moderno, con l’obiettivo di narrare le conseguenze - spesso devastanti - di un gesto fatto con superficialità e senza consapevolezza, come può accadere in un’età acerba come l’adolescenza.

    Prodotta da Riccardo Russo per Bim Produzione in collaborazione Rai Fiction, la serie in dieci puntate, in diretta streaming su RaiPlay dal 20 aprile, è diretta da Laura Luchetti, regista di Fiore Gemello che raccoglie le storie di tre teenager che si ritrovano a fare i conti con la divulgazione online di loro immagini private, svelando le insidie dei social media. C’è chi pubblica e chi viene pubblicato, vittime e carnefici. Vittorio, Sofia e Ada sono tre facce diverse della stessa medaglia.

    Tre esistenze travolte dalla nudità finita online, La serie, “è piena di passioni, di quella purezza di fondo e perdita dell’innocenza», sottolinea Luchetti, ed affronta per la prima volta il tema del revenge porn attraverso il punto di vista dei giovani protagonisti con sguardo realistico e moderno, con l’obiettivo di narrare le conseguenze – spesso devastanti – di un gesto fatto con superficialità e senza consapevolezza, come può accadere in un’età acerba come l’adolescenza.

    Vittorio (Nicolas Maupas) è bello, carismatico, con genitori in vista, vincente. Destinato naturalmente a essere un leader. E la vittoria di un bando indetto tra le scuole della città per la riqualificazione di uno spazio abbandonato, sembra confermarlo. La polizia lo interroga in merito ad un video che gira in rete, la ragazza che appare nelle immagini è minorenne, ci sono conseguenze legali. Il suo nome è Sofia di anni 16, una ragazza che ha sempre sentito il bisogno di mantenere il controllo, di seguire le regole, forse pensando che fosse l’unico modo per non farsi trascinare a fondo. L’arrampicata, una disciplina che da anni condivide con Emilia, è un’ulteriore conferma di questa sua predisposizione. Infine c’è Ada preferisce rendersi invisibile per non fare i conti con una serie di problemi. Quando comincia a scambiarsi foto con un ragazzo più grande tutto immagina, tranne che vadano a finire su un sito porno.

    “Avendo a che fare con tre storie che parlano di un problema profondo e insidioso come il revenge porn, i cui protagonisti sono tre adolescenti, ho voluto cercare di stare il più “vicino possibile” ai ragazzi”. Racconto un’età meravigliosa in cui non si ha la capacità di comprendere le conseguenze delle proprie azioni”, ha raccontato Laura Luchetti. La storia è ambientata nella provincia dell’Emilia-Romagna, continua la regista. perchè il revenge porn non è un lame delle metropoli ma è una piega universale”. 

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    Tratta dall’omonimo teen drama norvegese, la serie Nudes è diretta da Laura Luchetti (Fiore gemello), con Nicolas Maupas (Mare Fuori), Fotinì Peluso (Romanzo Famigliare, La compagnia del cigno, Cosa sarà) e, per la prima volta sullo schermo, Anna Agio.

    Prodotta grazie al sostegno della Regione Emilia-Romagna e girata nei comuni di Casalecchio di Reno, San Giovanni in Persiceto e Bologna.

     

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    Baci rubati!

    Sulle piattafome digitali BACI RUBATI - Amori omosessuali nell'Italia fascista, il film documentario di Fabrizio Laurenti e Gabriella Romano, prodotto e distribuito da Istituto Luce-Cinecittà, già presentato con vivace attenzione al Bellaria Film Festival, e al Florence Queer Festival – dove ha ottenuto una Menzione speciale della giuria. Baci rubati racconta la condizione degli omosessuali durante il fascismo, usando principalmente la voce di chi ha vissuto in quegli anni. Il film offre un mosaico sfaccettato e complesso che mette in evidenza la persecuzione che i gay e le lesbiche italiani hanno subito, ma allo stesso tempo smonta gli stereotipi e ricostruisce la molteplicità delle loro esperienze, gli svaghi, le amicizie, gli affetti, gli amori e le consuetudini. Sull'argomento si sa ancora oggi molto poco poichè il silenzio che ha circondato l'omosessualità si è protratto ben oltre il Ventennio.

    Pur sottolineando la persecuzione e le numerose restrizioni e sanzioni imposte dal regime agli omosessuali, l’intento è quello di riportare in luce per la prima volta alcune storie di chi, nonostante tutto, ha “resistito” ed è riuscito a vivere seguendo le proprie scelte.

     

    "Chiunque (...) compie atti di libidine su persona dello stesso sesso, ovvero si presta a tali atti, è punito, se dal fatto derivi pubblico scandalo, con la reclusione da sei mesi a tre anni."  Così enunciava nel 1927, in prima stesura, l'articolo 528 del nuovo codice penale Rocco riguardo la repressione dell'omosessualità, che veniva in tal modo per la prima volta contemporaneamente riconosciuta e sanzionata. Sul sanzionarla tutti d'accordo, ma sulla necessità di riconoscere che in Italia fosse diffuso il "turpe vizio" - come veniva allora definita una relazione non eterosessuale - mai e poi mai! Sarebbe stata messa in discussione la virilità stessa del maschio italiano.

    Così il film interpella storici che si sono occupati di omosessualità durante il regime di Mussolini.  Ma predilige le voci dei protagonisti che raccontano le proprie vicende, sentimenti ed avventure. Tra il serio ed il faceto, il sentimentale e lo sfacciato, si alternano pagine di diari, lettere, poesie e ricordi di amori proibiti, osteggiati, censurati, ma esistiti, vissuti, cantati e ricordati con orgoglio. 

    Sono così di notevolissimo interesse le parole di scrittori assoluti come Aldo Palazzeschi, de Pisis, Sandro Penna, Radclyffe Hall, posti accanto agli inserti di letteratura 'scientifica' dell’epoca; e più di tutto interessante che il film raccolga voci di estrazioni sociali, mentalità, esperienze differenti. 

    Parole che nel film vivono dell’interpretazione da manuale di Luca Ward, che restituisce con sottigliezza sulfurea la prosa scientifica sul ‘problema’ degli omosessuali, accanto alle voci partecipi e coinvolgenti di interpreti popolari come, Valentina Cervi, Sabrina Impacciatore e Neri Marcorè.

     

    Attraverso le parole dei protagonisti, il film documenta alcuni aspetti della repressione dell’omosessualità come gli arresti, l’internamento in manicomio, le ammonizioni, le indagini dei commissari, le dichiarazioni dei prefetti, le violenze degli squadristi.

     

    Baci Rubati si avvale di materiali di repertorio molto preziosi provenienti da collezioni private, interviste radiofoniche risalenti all’inizio degli Anni Ottanta e brani di diari inediti, a cui fanno da controcanto le immagini ufficiali del regime, quelle dei cinegiornali Luce, che illustrano l’ideale fascista di virilità e femminilità.

    Un montaggio serrato di immagini di repertorio illustra il culto della virilità del regime, il clima delle sue campagne di moralizzazione, la creazione dello stereotipo dell’uomo “effeminato” e della donna “mascolina” ed al contempo racconta il vissuto di omosessuali e lesbiche, testimoniato da fotografie e filmati provenienti da archivi privati. Attraverso questi materiali preziosi e inediti il film celebra il coraggio di chi ha affermato le proprie scelte di vita, nonostante l’azione repressiva della dittatura.

    L’uscita on demand su piattaforma dal 14 febbraio, giorno di San Valentino, è una dedica speciale al coraggio e alla libertà di tutti gli amori.

     

     

     

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    ”Natale in casa Cupiello”, in Tv l’opera teatrale di Eduardo De Filippo

    Edoardo De Angelis, regista di Indivisibili del 2016,  ha deciso di confrontarsi con un monumento della storia del teatro portando su Rai1 il 22 dicembre "Natale in casa Cupiello" di Eduardo De Filippo. Per l'adattamento il regista ha scelto la Napoli del 1950. "Un anno emblematicamente sospeso tra la guerra e il benessere. La città è ancora ferita dalle bombe ma si sentono i primi vagiti di una classe media che si affermerà negli anni successivi. Un anno sospeso tra distruzione e ricostruzione, proprio come il 2020".

    Il film, prodotto da Picomedia in collaborazione con Rai Fiction, racconta le vicende dal sapore agrodolce tratte dal capolavoro di De Filippo attraverso le straordinarie interpretazioni di Sergio Castellitto (Lucariello), Marina Confalone, Concetta, Adriano Pantaleo il figlio Tommasino, Tony Laudadio ha il ruolo dello zio Pasquale. Pina Turco è l’inquieta Ninuccia, Antonio Milo veste i panni del marito Nicola, Alessio Lapice quelli dell’amante Vittorio. Andrea Renzi è il medico.

    Sergio Castellitto nel ruolo di Luca è un fervente amante delle tradizioni natalizie, e non vede l’ora di potersi dedicare maniacalmente alla composizione del Presepe, nonostante le critiche della moglie e del figlio Nennillo, che non lo appoggiano. A un certo punto irrompe in casa la figlia Ninuccia, agitata per l’ennesima lite con suo marito Nicolino. Ninuccia, che non ha mai amato il marito, vuole scappare con il suo amante. La situazione degenera appena il marito viene a conoscere tutta la situazione, tra liti, minacce, sfide a duello. Venuto brutalmente a conoscenza della situazione familiare, Luca, per anni vissuto nell’illusione di aver creato una famiglia felice, ha un ictus, crolla e si ritrova a letto in preda a difficoltà motorie e verbali.

    "Una casa distrutta e una famiglia in frantumi vengono tenute in piedi dall'ostinazione di Luca con queste statuine a mette insieme i pezzi, a rimettere insieme l'amore", precisa De Angelis.  Mentre Castellitto ribadisce con forza di non essersi confrontato con Eduardo, "è  inarrivabile". Il mio Lucariello è un vecchio, il più vecchio di tutti gli altri, però è l’unico a giocare come un bambino, a voler ricucire i conflitti".

    De Angelis dirige un buon cast con grande equilibrio giocando molto sulla sulla centralità di ciascun personaggio e realizzando una messa in scena atemporale dove un susseguirsi di battute umoristiche non prive di un certo umorismo amaro llustrano la natura della famiglia che per Eduardo rappresenta sempre lo speculum della società italiana e addirittura del mondo. Il padre Eduardo Scarpetta, lo ricordiamo, non lo riconobbe; ma la sua figura fu comunque presente nella giovinezza di Eduardo, insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai nonni.

    Un film che in un momento storico senza precedenti segnato da una pandemia globale assume un significato specifico senza mai perdere di vista il nucleo originario della commedia. Sembra proprio che De Angelis abbia trovato una chiave di lettura innovativa e moderna che illuminano per metafore il desiderio di dialogare con la realtà.

     

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    Esiste ancora il sogno americano?

    Gli Stati Uniti sono un simbolo di libertà, il grande esperimento sociale formato da principi di democrazia, uguaglianza e ricerca della felicità, ma questo ideale di prosperità e libertà individuale riflette la vita di tutti i cittadini americani? Il documentario 'My America' racconta, con la viva voce della regista Barbara Cupisti, il malessere sociale che si manifesta in eventi e situazioni drammatiche, ma anche la capacità e la determinazione di cittadini comuni, attivisti di base, che cercano di sfidare e riparare la fibra morale e la sostenibilità del Paese.

    Prodotto da Sandro Bartolozzi, una produzione Clipper Media con Rai Cinema, con il patrocinio del Robert F. Kennedy Human Rights, il film è stato presentato nella sezione Fuori Concorso / Doc, nell'ambito della trentottesima edizione del Torino Film Festival, che si tiene online fino al 28 novembre 2020. 

    La domanda che ha guidato Barbara Cupisti, è se il sogno americano esista ancora. Soprattutto dopo che, dal 2014, da quando cioè la regista vive negli Stati Uniti, ha constatato come quella che viene considerata la più grande democrazia del mondo abbia conflitti interni che producono un numero enorme di vittime, veri e propri numeri da guerra. La Cupisti con questo suo lavoro ha voluto contribuire a un’informazione più esaustiva e reale sull’America dimenticata di oggi, poiché le notizie che arrivano in Europa, e nell’America stessa, tramite i media ufficiali sono parziali e non danno un’idea reale del livello di violenza e povertà che esiste nel paese.

    La Cupisti ha sempre dimostrato interesse nel raccontare storie di uomini e donne, trovando nel documentario il modo ideale di scrivere per immagini. Nel 2017 con Womanity, documentario lungometraggio ambientato tra India, Egitto e USA, narra la “resilienza” delle donne. Con 'My America' dà voce soprattutto a coloro che ogni giorno si battono per la giustizia sociale e per porre fine a violenze e morti che possono essere prevenute.

    Il film ci riporta sul luogo della strage di San Valentino nel liceo di Parkland, dove un ragazzo di diciannove anni nel 2018 uccise 17 persone. Un evento tragico che ha spinto un fiume di giovani a lottare contro la lobby americana delle armi, la National Rifle Association.  Scopriamo la tragedia dei senzatetto in un America che è certamente un grande Paese. Basta non stare in fondo alla scala sociale. E’ il paese delle opportunità, ma non si dà troppo affanno per i cittadini che restano indietro.

    La regista ci mostra senza filtri il ritrovamento dei resti dei migranti morti nel deserto inseguendo il sogno di una vita migliore negli Stati Uniti. Chi arriva dall’altra parte racconta, alle organizzazioni di volontari che assistono i migranti, storie di orrore. Giornate di cammino sotto il sole senza cibo né acqua e di nottate al gelo. Di donne, anziani e bambini abbandonati dagli sciacalli perché troppo deboli per fare un passo in più.

    My America parla anche di eroismo, rivelando il lato positivo dell’umanità ancora capace di aiutare i propri simili.
     
     

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    “Rossellinite” che sindrome speciale!

    La “Rossellinite” è una sindrome speciale che secondo Alessandro ha colpito tutti i membri della famiglia allargata dei Rossellini. The Rossellinis, docu-viaggio del nipote del regista attraverso Svezia, America e Quatar, si trasforma in un percorso curativo per le famiglie Rossellini. Sì perché il regista di capolavori come Roma Città aperta, di Paisà, Roma città aperta, Il generale Della Rovere,h a avuto tre famiglie: nel 1936 sposa la scenografa e costumista Marcella de Marchis dalla quale ha il figlio Renzo, padre di Alessandro. Con Ingrid Bergman arrivano Robin e le gemelle Ingrid e Isabella. Poi, alla fine di un periodo vissuto in India, torna in Italia con Sonali Das Gupta, sceneggiatrice e moglie di un produttore locale, e con il di lei figlio Gil, che adotterà. Con Sonali avrà poi una figlia, Raffaella (oggi Nur perché convertita all’Islam).

    Sei figli e diversi discendenti chiamati a fare i conti con l’eredità familiare di uno dei registi più innovativi del XX Secolo. Acuto indagatore delle pieghe della storia, Rossellini fu tra i primi a intuire l’importanza dei mezzi audiovisivi per la diffusione della conoscenza, in una visione democratica e interclassista in cui il piccolo schermo aveva un ruolo centrale. “Nascere Rossellini significa sentirsi schiacciato dal peso di un nome che ancora oggi è punto di riferimento per generazioni di cineasti – ammette Alessandro -  Significa crescere sentendoti oppresso dalle aspettative che porta avere ha quel cognome, e vale per me ma è valso per mio padre, per le mie zie Ingrid e Isabella, per mio zio Robin. Così ho deciso di impugnare la macchina da presa per soddisfare un’urgenza, liberarsi da un’ombra che incombe su tutto quello che cerchi di fare per sentirti fiero di essere il nipote del genio del neorealismo”

    Alessandro Rossellini non nasconde il suo passato di tossicodipendenza. “Dopo essere uscito , mi sentivo forte nel mio nuovo lavoro di counselor con cui da anni mi dedico a chi ha gli stessi problemi che ho avuto io. E ho pensato che fosse il momento giusto per realizzare un lavoro

    Un ritratto intimo e insolito di Roberto Rossellini che si apre con il funerale a Roma, il 6 giugno 1977, del grande regista." Dietro il feretro – commenta Alessandro Rossellini - ci sono io che ho 13 anni e sono stretto a mia nonna Marcella, poi c'è mio padre Renzo, bravissimo a fare il figlio, e zia Isabella arrivata nella notte dall'America a piangerlo dopo anni di litigi, in disparte fuori dai riflettori come sempre la sorella gemella Ingridina. Poi lo zio adottivo Gil in prima fila per far capire che e' un Rossellini, zio Roberto il bello, zia Raffaella che ora si chiama Nur ed è musulmana. Nulla sarà come prima: mio nonno Roberto ha lasciato al mondo dei capolavori del cinema a noi nemmeno una lira e un enorme patrimonio di conflitti".

    Il documentario, evento speciale alla Settimana internazionale della critica dello scorso Festival del cinema di Venezia e in arrivo sulle piattaforme digitali dal 20 novembre, diventa un pretesto per far parlare i membri della famiglia, riannodare relazioni e crearne di nuove, come nel caso di quello con lo zio Robin, fratello di Isabella e Ingrid, che vive solo su un’isola in Svezia.  

    Costruito con immagini d'epoca, filmini privati, interviste recenti, il film dipinge una realtà familiare tutt’altro che idillica, ma più diffusa di quanto vogliamo ammettere. Come in ogni famiglia, in cui solo chi vi vive conosce le vere dinamiche, i personaggi convivono con una figura idealizzata di Roberto Rossellini, l'anticonformista che scandalizzò la rigida moralità degli anni '50 nel suo lavoro e nella sua vita. “Dalla rossellinite non si guarisce, ma noi siamo gli United Colors of Rossellini e questo, più che un film, è stata una gigantesca seduta psicanalitica”.

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    We Are the Thousand

    Da un'idea originale di Fabio Zaffagnini, realizzata con i fondatori Claudia Spadoni, Martina Pieri, Mariagrazia Canu, “Cisko” Ridolfi e Anita Rivaroli, oggi Rockin’1000 è una società che porta avanti progetti internazionali, riceve inviti, premi e proposte di collaborazione in tutto il mondo.

    Abbiamo intervistato Fabio Zaffagnini e Anita Rivaroli

    Ci raccontate la genesi del progetto

    Fabio: L’idea è nata dal desiderio di fare qualcosa di folle senza particolari finalità se non quella di ottenere un risultato che inizialmente sembrava impossibile. Per convincere i Foo Fighters a suonare in un palazzetto minuscolo della nostra città (Cesena ndr), abbiamo realizzato un video di una performance “unica” che li omaggiasse.  Da una goliardata è nato un progetto che ha cambiato la vita a tantissime persone.

    Anita: Quando Fabio mi ha proposto di occuparmi di tutta la parte audiovisiva dell’operazione, sono rimasta sorpresa ma ho subito avuto la sensazione che quella follia sarebbe comunque stata una grande storia da raccontare. Eravamo un gruppo ristretto di amici e all’inizio avevo solo il mio iPhone con cui documentare. Attraverso una call abbiamo selezionato i mille che hanno realizzato qualcosa di unico e speciale, suonare tutti insieme la cover di “Learn To Fly” dei Foo Fighters. Dopo il lancio del video su Youtube, tnon immaginavo che avrebbe avuto milioni di visualizzazioni. E' stato in quel momento in cui mi sono resa conto che quella storia doveva diventare un film.

    E dopo cosa è successo?

    Anita: E' accaduto qualcosa di straordinatio. La notte stessa del concerto “privato” che i Foo Fighters ci hanno regalato, ho capito che avevamo realizzato un'impresa. L'inizio di un’avventura che avrebbe portato i Rockin’1000, ormai diventati una vera band, a fare concerti in giro per il mondo. Mi ci sono voluti diversi anni per girare “We are the Thousand”, un racconto corale di storie personali di 1000 musicisti, tra cui ragazzi giovanissimi, suonatori di strada, cantanti liriche, punk, metallari, bluesman professionisti, disponibili a viaggiare chilometri per suonare insieme. Il risultato è un inno al potere salvifico e terapeutico della musica che può trasformare un giorno ordinario in qualcosa di magico. Un bene primario nelle nostre esistenze a cui dovremmo imparare a ricoscere il valore che merita.

    Oggi Rockin’1000 è una realtà conosciuta a livello globale, che riceve riconoscimenti, inviti e proposte di collaborazione in tutto il mondo. 
    Fabio: Sì ma dietro c'è stato un grande sforzo produttivo a partire dalla difficolta di mettere insieme un ensamble di 350 chitarristi, 250 batteristi, 250 cantanti e 150 bassisti, selezionati attraverso appelli sui social, cartoon promozionali su Youtube e video-provini girati. Dopo il video, ero soddisfatto, ignorando cosa avevamo creato. L'ho capito solo quando ormai tornato al mio lavoro di ricercatore geologo un giorno mi sono arrivati a raffica una serie di messaggi da parte di amici che mi informavano che il batterista dei Foo Fighters, Dave Grohl, aeva rilasciato su youtube un video di ringraziamento. Siamo rimasti increduli e la situazione è esplosa.

    Anita:  Internet ha permesso al progetto di trasmetterlo al mondo ma è stata poi è stata l’adrenalina ha spingerci a realizzare un progetto che sembrava impossibile. La ricerca (difficile) degli sponsor, il crowdfunding da quarantamila euro, la serata di un anno dopo allo stadio Dino Manuzzi a Cesena che sembrava una Woodstock dei tempi moderno. Il documentario esce al cinema peraltro in un momento in cui abbiamo bisogno di incoraggiamento pensando a quando potremo tornare a godere la musica dal vivo.

     

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    "Another Round". Un altro giro

    "Non bevo mai prima di colazione”. La citazione è di Churchill, che ha contribuito a sconfiggere i tedeschi e vincere la Seconda Guerra Mondiale, sotto l’eccessiva e costante influenza dell’alcol. Altri grandi pensatori, artisti e scrittori, come Čajkovskij e Hemingway, hanno trovato coraggio e ispirazione in questo modo. Dopo i primi sorsi di alcol, sappiamo tutti che i freni inibitori saltano per azione sulla corteccia cerebrale, la stanza si ingrandisce e la capacità di valutazione è fortemente compromessa.

    E’ questa la premessa del film di Thomas Vinterberg, Un altro giro, presentato alla Festa del Cinema di Roma. Un omaggio alla capacità dell’alcol di rendere le persone libere. Il regista racconta infatti di essersi ispirato alle teorie dello psicologo norvegese Finn Skårderud, secondo cui l’uomo nasce con una carenza di alcol di 0,5 nel sangue. In sostanza una piccola ebbrezza sembrerebbe in grado di  aprire le nostre menti al mondo che ci circonda, diminuendo la nostra percezione dei problemi e aumentando la nostra creatività.

    Tanto basta per convincere Martin, il bravissimo Mads Mikkelsen,  e tre suoi amici, tutti annoiati insegnanti delle superiori e con la sensazione di non avere nulla da perdere, a stringere un patto segreto che prevede di mantenere un livello costante di ubriachezza durante tutta la giornata lavorativa. Sia le loro classi che i loro risultati personali continuano a migliorare e il gruppo si sente di nuovo vivo! Ben presto alcuni dei partecipanti vedono ulteriori miglioramenti e altri escono dai binari, lasciando che l’alcol si  impadronisca delle loro vite, anche al di fuori delle ore in cui hanno concordato di assumere alcol.

    Il film è un’esperienza euforica, brulicante di abbondanti eccessi di energia e girato in uno stile corroborante. Il raffinato equilibrio di Vinterberg tra tragedia, umorismo e nausea infusa dall’alcol si rivela un colpo di regia magistrale fin dall’inizio. Il risultato è un inno alcolico alla vita come rivendicazione della saggezza irrazionale che scaccia ogni ansioso buon senso e guarda all’ubriachezza come a un black-out molto divertente.

    Perchè bere può causare alcuni problemi, certo, ma ne rivela anche altri per chi vive in un mondo che, in misura crescente, è definito esteriormente dalla retorica puritana. Un po’ come dire che se c’è da recuperare la propria esistenza è meglio farlo da sobri.
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    Soul. Il dono della vita

    Il protagonista di Soul è Joe Gardner, un insegnante di musica di scuola media che ha l’occasione di suonare nel migliore locale jazz della città. Un piccolo passo falso lo proietterà dalle strade di New York fino a un luogo fantastico in cui le nuove anime ricevono personalità, peculiarità e interessi prima di andare sulla Terra. Determinato a ritornare alla propria vita, Joe si allea con 22, un’anima ancora in formazione che non capisce il fascino dell’esperienza umana. Mentre Joe cerca disperatamente di mostrare a 22 cosa renda la vita così speciale, troverà le risposte alle questioni più rilevanti della nostra esistenza.

    In questo Soul ce n’è per tutti i gusti. Ci si interroga per esempio da dove provengano le passioni che ci animano nella vita, da dove arrivano i nostri sogni, i nostri interessi e anche, perchè no, la nostra apatia per la vita.

    Se c'è un senso alla nostra vita, un punto interrogativo che che perseguita chiunque si ponga quesiti esistenziali. Ed è su questo punto che Docter ci mette dell’altro, andando a toccare le anime appunto, quelle del titolo del film. Cosa fanno le anime senza i corpi, dove stanno, come si muovono, che regole hanno. Perchè scelgono un’incarnazione piuttosto che un’altra, chi decide quando è ora di finire l’esperienza terrena e tornare in quel Great Beyond, quel grande aldilà che è l’ultraterreno,
    Docter ci rende partecipi anche della sua visione del corpo/materia rispetto all’infinità dell’anima. Le teorie della reincarnazione di cui siamo ormai saturi, hanno il pregio di risultare perfettamente credibili.

    La storia di Soul ci ricorda una volta di più che il dono della vita è estremamente prezioso attraverso l’esperienza terrena di Joe Gardner e usa la musica jazz come il suo veicolo principale. Joe è un insegnante di musica in una scuola media che ha finalmente l’occasione della vita, suonare in uno dei club più famosi di New York insieme alla famosissima Dorothea Williama e dare un senso più pieno alla sua esistenza. Ma. Nell’euforia di aver superato il provino ed aver toccato quella dimensione insondabile che solo la musica ti fa provare, mette un piede in fallo e si trova catapultato in uno spazio/tempo sospeso dove incontrerà 22, un’anima che rifiuta di incarnarsi per mancanza di interesse per l’esperienza umana. Joe ne diventerà il tutore per provare a ridare entusiasmo a 22 e, soprattutto, per poter tornare sulla Terra a vivere quella serata così lungamente attesa. Ma troverà poi davvero tutto quello che cercava lì dentro?

    Il film ospita alcune composizioni jazz firmate dal celebre pianista Jon Batiste mentre ai vincitori dell’Oscar Trent Reznor e Atticus Ross (The Social Network) dei Nine Inch Nails è affidata la colonna sonora originale. Le voci originali sono di Jamie Foxx, Tina Fey e Angela Bassett,
    Se dunque Inside Out si interrogava sulle emozioni, qui è la spiritualità, il grande gioco dell’anima ad essere il vero protagonista. E non c’è una vera risposta se non che la vita è meravigliosa per citare Frank Capra e che ogni istante può non solo essere l’ultimo ma anche il primo per cambiare vita, direzione, possibilità e diventare un’anima consapevole e piena,

    Riguardo alla polemica apertasi in Italia sul fatto che il film non passerà in sala ma sarà solo distribuito sulla piattaforma Disney+  a partire da Natale, facendo infuriare gli esercenti delle sale italiane, possiamo solo dire una cosa. Se uno il film se lo produce e se lo distribuisce non è certo colpa di nessuno, ma di un sistema che tollera che esistano al contempo  produttori e distributori nelle mani della stessa persona, Mi pare che anche Netflix faccia lo stesso e nessuno abbia nulla da ridire, anzi.
     

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    Ammonite: Tra scienza e amore

    Nella desolata e ventosa città costiera inglese di Lyme Regis, sulla costa del Canale della Manica, vive Mary Anning (Kate Winslet), una paleontologa che cerca sulle spiagge fangose ​​fossili di creature preistoriche che danno il nome ad Ammonite, il film di Francis Lee presentato alla Festa del Cinema di Roma. Il British Museum di Londra conserva il teschio di un ittiosauro scoperto da Mary in giovane età. Una fama non riconosciuta dalle autorità ma che le consente di pagare affitti e mantenere un piccolo negozio turistico che vende piccole pietre a coloro che vogliono assaporare un barlume di meraviglia.

    Lontani ormai i bei tempi, la donna cerca di sopravvivere e di trovare qualcosa di altrettanto spettacolare per dare una scintilla alle sue giornate sempre più cupe. Quando un collega, Roderick Murchison, arriva nella sua casa per comprare qualche, la scienziata non si aspetta che l'uomo le affidi a pagamento, la giovane moglie Charlotte (Saoirse Ronan) che si sta riprendendo da una tragedia personale.

    La sceneggiatura di Francis Lee imposta il racconto in modo deciso e deliberato. Ciò che lega le persone può essere difficile da afferrare, ma Lee e le sue stelle occasionalmente si illuminano. La trama scorre attraverso una narrazione derivativa e prevedibile. Man mano che la passione tra le due donne cresce in modo lento e inevitabile, sembra di assistere ad una sorta di romantica peregrinazione, un dolce viaggio simile alle passeggiate lungo la spiaggia. Il risultato a volte oscilla tra il commovente e il frustrante, poiché diluisce qualunque connessione tra questi due personaggi che si ritrovano a condividere il peso dell’austera narrazione. Allo stesso modo, quando le scintille finalmente volano,tutto sembra una forzatura, come se alla fine legati da una nebulosa combinazione di eventi casuali, e forse noia, Mary e Charlotte cedono all'amore.

    La performance distaccata di Kate Winslet è perfettamente in linea con il tono del film, disseminato di cliché e banalità. Dalla scena, "oh, abbiamo solo un letto",  citazione da romanzo rosa, al fornire dettagli di vita attraverso febbrili discorsi pronunciati nel sonno fino a sguardi timidi e sfuggenti.

    La cinematografia di Stéphane Fontaine, intrisa di ombre scure e panorami nebbiosi dell'oceano, riecheggia il gelo del rapporto tra le due donne. Il punto è chiaro fin dall'inizio - le relazioni tra donne a quei tempi erano inopportune - ma al di là dell'ovvio c'è poco di coinvolgente.

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    Ziggy Stardust alla Festa del Cinema di Roma

    Illuminato da due performance stellari, quelle di Johnny Flynn (Emma, Lovesick) e Marc Maron (Glow), STARDUST offre uno sguardo intimo sui momenti che hanno ispirato la creazione del primo e più memorabile alter ego di Bowie.
     
    La leggenda di Bowie vorrebbe farci credere che Ziggy Stardust sia un alieno pansessuale dai vestiti sgargianti, il cui make up è ispirato al teatro Kabuki Lo sceneggiatore e regista Gabriel Range ci riporta alla realtà per raccontarci che il mito di David Bowie ha origini  molto più terrene.

    Johnny Flynn – cantante e star emergente del piccolo schermo con Emma , Les Miserables e Lovesick–  interpreta un Bowie del ’71 smarrito, impacciato (straziante quando Flynn si aggiusta il cappello e spera che nessuno se ne accorga) e abbattuto, convinto di essere una promessa mancata. Arrivato in America, la patria del rock n ‘roll e della libertà di espressione che sicuramente riconosceranno il suo marchio di produrre magia, si mette in contatto con l’unico fan di ‘The Man Who Sold To The World’ presso la sua etichetta discografica, il pubblicista Ron Oberman (Marc Maron), e si imbarca in un vorticoso coast-to -coast tour di concerti. Ovviamente si trova nel peggior paese possibile per discutere della sua arte e della sua filosofia, per non parlare di DJ radiofonici bacchettoni e un trio di giornalisti rock arroganti che non sembrano impressionati dalle musiche di Bowie. 

    L’elefante nella sala di proiezione è la mancanza di canzoni reali di Bowie. Il figlio di Bowie, Duncan Jones, ha precisato che la famiglia non ha approvato il film e non sono stati autorizzati  diritti del catalogo musicale dell’era Ziggy. Fatta eccezione per alcune cover di canzoni di Bowie che Flynn ha magistralmente interpetato. The Yardbirds “I Wish You Will” e “My Death” del cantautore belga Jacques Brel – rivelano che il brillante talento di Bowie è stato criminalmente ignorato. Successi che la maggior parte del mondo della musica aveva liquidato come un disco di novità.

    Il film funziona molto meglio, quindi, come un viaggio rivelatore che David Bowie potrebbe aver intrapreso per
    diventare quell’artista. La sceneggiatura di Grange e Bell prende tempo per indagare il motivo per cui  Bowie sembra così reticente a spargere la sua polvere di magia. Flynn offre un Bowie incredibilmente turbato, afflitto da flashback sul suo schizofrenico fratello Terry e in preda alla paura che possa anche lui soccombere al codice genetico della malattia mentale. 

    Un racconto che si tiene a distanza dal biopic celebrativo e dove la scintilla di ispirazione per la nascita del suo iconico, celestiale alter ego Ziggy Stardust non viene mai del tutto individuata. Eppure c’è un momento che risveglia il sospetto che Bowie sia in effetti una divinità aliena camaleontica. Dopo aver trascorso una serata ad  adorare il nuovo cantante dei Velvet Underground con la convinzione che fosse Lou Reed, in realtà è Doug YuleBowie,  rivolgendosi ad Oberman, esclama: “è una rock star o qualcuno che si spaccia per una rock star, ma qual è la differenza?” Da quel momento in poi, è  Ziggy a suonare la chitarra, il culmine della lotta di David per vivere la follia in modo sicuro.

     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     

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