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Articles by: Gennaro Matino
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Opinioni“IO sto con loro”. Con queste parole ho condiviso sulla mia pagina Facebook il video di Repubblica Tv che racconta di bambini nati nel nostro Paese, che crescono con i nostri figli, con il loro stesso dialetto, con i nostri costumi e la nostra cultura. Bambini che aspettano che sia loro finalmente riconosciuto il diritto sacrosanto dell’appartenenza, quello ius soli che nient’altro resta che solum ius, solo un diritto, soltanto un sacrosanto diritto che nasce dal bisogno di una nazione di aprire orizzonti nuovi di futuro benessere e di pace per se stessa e per le generazioni che l’abiteranno domani.In tempo di calo demografico, mentre il mondo è dilaniato da pestifere ideologie disgregative, “Io sto con loro” è schierarsi e scegliere in quale parte del campo giocare la propria avventura e rendere possibile il sogno di un’umanità che sa accogliere, apprezzare, accettare la diversità come valore straordinario per costruire una società integrata, giusta, orientata alla fraternità e all’armoniosa sintesi tra localismo e universalità. Non è un atto di carità, di misericordia, quasi elemosina da passare a chi è inceppato nella sfortuna di non essere italiano, ad usurpare spazio e capitali, è solo ius, giustizia che dice a chi non ha altro Paese che il nostro che è anche il suo.È solo intelligenza visionaria che politicamente organizza speranza investendo sul capitale umano, sulla risorsa più generosa per dire possibile una nazione più forte economicamente, più coesa, più lungimirante. Io sto con loro e non con il vecchio e il nuovo politichese che nasconde dietro la foglia di fico di altro a cui pensare, di altre emergenze da affrontare, il calcolo opportunistico o peggio il malcelato razzismo, barattando la dignità di figli, perché di nostri figli si tratta, di “fratelli d’Italia” anche loro, con qualche spicciolo di voti in più da pescare nel sottobosco del mai sopito spirito italico di fascista memoria.Quella stessa attitudine di far passare come giusto l’inganno che i diritti siano appannaggio di sangue e non di lavoro, di fatica, di osservanza della legge, di logica dell’appartenenza che superando il sangue rende cittadini chi ama esserlo, chi desidera esserlo, chi lotta per esserlo.L’insano verbo di chi divide, di chi cerca adepti scegliendo di “difendere” la dignità di una nazione proteggendola dall’invasione dei barbari, pur sapendo che gli unici barbari sono quelli che non sanno essere curiosi della diversità, quelli che orientano, formano, partoriscono persone ignoranti e grette come chi in risposta alla mia condivisione così postava: “Non sarebbe più giusto accogliere e aiutare, nei limiti delle risorse disponibili, garantendo diritti in cambio di doveri e in misura mai superiore a quelli dei cittadini?“. Diritti mai superiori ai nostri, meglio sottoposti, forse schiavi. Dovranno pure crescere questi bambini e se vorranno restare, dovranno stare alle nostre dipendenze, ai nostri capricci. Beppe Grillo dice che la legge sullo ius soli in parlamento è un pastrocchio invotabile, basta con il buonismo, ma non dice come dovrebbe essere, non la vota passando la palla complice a Salvini che fa per lui il lavoro sporco, non si nasconde, non c’è bisogno di uno ius soli, non abbiamo bisogno di far crescere come italiani futuri membri di un prossimo partito islamico.È colpa della Chiesa, rincara Calderoli che meglio farebbe a preoccuparsi di disoccupati e poveri, dimenticando che però il compito dovrebbe essere il suo, quello della politica di dare risposte ai cittadini, soprattutto ai più disagiati e che la Chiesa fa la sua parte, anzi se non ci fosse stata la Chiesa a fare da supplenza nella mancanza dello stato sociale causato dalla corruzione e dal disastro politico morale provocato dal ventennio berlusconiano di cui il suo partito era complice e solidale, l’Italia non sarebbe stata risparmiata da più gravi disagi economico sociali. Lo stesso dice più “gentilmente” Di Maio, dimenticando che nel 2013 era lui a proporre lo ius soli: “parliamo di disoccupati”. Mi sentirei offeso da disoccupato se qualcuno barattasse il mio diritto con il diritto di qualcun altro. Ciò che è vero è vero in sé ed è in sé che va ragionato: ma anche i 5 Stelle ormai hanno capito come funziona la politica nel nostro Paese.Non parlo di altri che ormai legano il ciuccio dove vuole il padrone di turno, inqualificabile la sceneggiata che quotidianamente offrono alla mancanza di idee e di visione. Io sto e resto con i prossimi italiani, con la loro giovinezza che come acqua nuova purificherà la stagnante, i nostri figli che faranno grande il nostro e il loro Paese. Io sto con loro, con tutti i giovani italiani per sangue, per nascita o per cultura, perché se fossi altrove avrei perso me stesso e tradito il mio essere davvero italiano.
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Op-Eds
For his disciples, still shut inside their circle of fear, the Redeemer’s word reshapes history and ultimately reveals the true meaning and purpose of life, which can compel men to build a peaceful world. Peace doesn’t mean being blissfully apathetic. It doesn’t mean dodging difficulties. It doesn’t mean closing oneself off in an egotistical bubble to ignore others. Aspiring to peace means, on the contrary, fighting nonviolently, and all of us must become messengers of the kind of peace that the world doesn’t expect, that is far removed from the inner peace of those who sleep easy while the rest of humankind risks extinction.
Peace, that herald of meaning and re-maker of humanity, is a universal struggle to stop injustices that oppress the weak, vulgarity that offends the humble, and arrogance that crushes the different. Peace means fighting for a world where people humbly recognize one another as brothers, charitably reestablish a dialogue, optimistically shape the future, and compassionately suffer for one another in order to rebuild heaven and earth.
There can be no peace when human dignity is offended; the right to life diminished; violence, war, and terrorism promoted; and the weakest among us is trampled upon. If we remain indifferent to those dying of hunger, there can be no peace. As long as we tolerate the unequal distribution of natural resources or the unequal exercise of fundamental human rights between men and women, there can be no peace. If we don’t fight for peaceful ecology, if we do nothing to stop nuclear escalation, there can be no peace.
When the Israeli Prime Minister Yitzhak Rabin was killed in Tel Aviv during an anti-violence rally, he was holding a notecard that he likely would have read from had he ever been able to finish his final remarks. It read, “That the sun rises, that the morning shines. The purest prayers shall not carry us backwards. No one will carry us back to the dark pit of the past. Not the joy of victory nor the songs of triumph. So, sing a song for peace. Do not mutter your prayers. Sing instead a song of peace. Shout it from the top of your lungs!”
Shout for peace so that beauty triumphs. Shout for hope so that people of all races, cultures and religions shall live together in peace. Should someone say it’s impossible to change this disfigured and deformed world, I’d shout back that the world is full of peacemakers who are silently spreading the seeds of peace, certain that at the dawn of a new day the fruits of joy will sprout. Shout for peace. Though our days be filled with laments for the dead, sing songs of peace and harmony.
Courage is no doubt needed to advance a vision for the future in this sick time, in the circumstances we find ourselves living in, in a world still marked by tensions, by an egotistical and individualistic mindset embodied by a diabolical economy that, by trampling on the weak, perpetuates new and violent conflicts. A strong sense of purpose is needed to orient oneself, given all the lives reduced to poverty by political battles that have no scruple, by assurances of salvation that have no truth, by promises that go unkept. Courage and far-sightedness are needed to seek out the path of righteousness, for the peace of one is the enthusiastic, contagious element needed to forge world peace, to reconcile our fellow man so that he may build his life around the sacred principle that we should treat others they way we would have others treat us. That principle is based on the belief that outer peace is derived from inner peace. Thanks to inner peace can we sustain this hardest of struggles. No one can guarantee peace. No one will succeed in building it if she isn’t first at peace with herself, if inner harmony doesn’t pervade her entire existence.
We have to start over from a place of inner peace that has fortified us during tumultuous periods in history. For all of us with a genuine and firm sense of human values, peace means making the effort to talk with those who are different from ourselves and find common ground, however our needs may vary. In this day and age, amid the clamor of false prophets spewing visions of calamity, courage is needed to remind the world that peace is possible as long as the world isn’t divided between those who have it all and those who have nothing at all.
* Gennaro Matino teaches Theology and History of Christianity in Naples. He collaborates extensively with both traditional and new media.
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Opinioni
CHI ha paura di sognare è destinato a morire. Si muore oltre la morte, ultima frontiera del terrore malato di interpreti sciagurati di falsa libertà, si muore per la paura di morire, per quello stato di precarietà di pericolo imminente non necessariamente reale. A Londra i coltelli fanno strage, a Torino le parole fuori posto avrebbero potuto, a Napoli il terrore è quotidiana arte di camorra. Paura della vita, paura della morte, paura di non farcela, paura di restare soli. Un mondo di paure sovrasta la storia, prigioniero l’uomo come un bambino che cerca conforto, piega ginocchia in cerca di aiuto.
È strano che proprio nella nostra epoca dove ognuno sembrerebbe padrone della propria storia, dove a proposito e a sproposito si parla di autodeterminazione, si avverta un senso di disagio, una perdita collettiva di equilibrio. Paura del domani, paura del passato, paura se le risposte non arrivano e mentre la paura avanza la vita si fa dietro. Morire l’ultimo istante è storia che dice tempo, morire per la paura di ogni istante è abortire la vita.
È come se avessimo perso la strada, la meta, di cui percepiamo l’assenza determinante, ne soffriamo, vorremmo scorgere una luce capace di ricondurci a casa, ma non sappiamo come fare. E tutto questo genera disagio, che diventa malattia del vivere uccidendo completamente le aspirazioni, la gioia. Paura. Siamo capaci di conquistare lo spazio, ma siamo impotenti dinanzi alle mille sconvolgenti notizie di cronaca che segnalano quanta violenza, crimine, depravazione, vive nelle nostre stesse strade. Vorremmo tutti essere protagonisti attivi della trasformazione del mondo e delle nostre vite, ma qualcosa ci sussurra nel profondo di non illuderci. Meglio difenderci, nasconderci, auto imprigionarci nei fortini dell’isolamento. Le case, sbarre alle finestre, casseforti per porta. Diogene cercava l’uomo, e nudo si aggirava nella notte con la fioca luce della sua lanterna. Lo cercava per rendere giustizia alla verità, chiedendo a se stesso chi mai fosse questa creatura capace di raggiungere i vertici della ragione, quale aspirazione, quale consistenza avesse.
E tuttora la luce sembra essere insufficiente a chi oggi ancora si chiede chi sia davvero l’uomo, quale il suo ruolo in questo mondo turbato da mille inquietudini, se la paura domina il presente e massacra i sogni, quale il suo destino nella caducità dei giorni, quale possibile felicità in regime di precarietà. La barca della vita segue l’onda della storia, sta ai sognatori restare di vedetta per raccontare terra a chi l’ha persa, a chi giorno dopo giorno viene fatto fuori dalla logica del terrore che non è solo verbo dei lunghi coltelli, ma in tempo di nuove sudditanze perverse e schiavitù striscianti è verbo di oscuri padroni che decidono per tutti e decidono senza mai chiedere il permesso.
La lotta per la libertà non è una lotta persa, se resisteranno i sognatori, se la libertà resterà una parola sconvolgente che non può essere offesa dall’uso nauseante che se ne fa nei salotti perbenisti, nelle chiese decadenti, nei parlamenti parolai, ma parola di speranza per riconquistare i nostri sogni ceduti per pochi spiccioli a farabutti da quattro soldi. La paura può essere dominata ritornando alla vita, comunque, in ogni caso, ringraziandola. “Grazie vita!”, ottima frase per iniziare la giornata, per vincere la paura del giorno. L’ho scritta sul mio cellulare, mi appare sul display ogni volta che l’accendo. Non mi illudo che mi vada sempre tutto bene. I giorni li conosco, mi arrangio a decifrare il bello e il brutto che mi accade intorno. Ma vado avanti e più mi convinco che esserci è meraviglioso. Partecipare al giro vale sempre la pena. La vita è un cantiere aperto di incontri, uno sguardo di conoscenza per scrutare dentro e oltre, un ascolto di sorprese per scoprirsi ogni volta, comunque, irrimediabilmente affascinato.
La vita ti acchiappa, ti porta, ti culla, ti scuote, ti rivolta, ti respira dentro fino a che il vento ti gonfia di senso, fino al giorno in cui quello stesso vento spirerà altrove, oltre. C’è la morte, sì, fa parte del gioco, è sempre vento che passa e tu ti lascerai acchiappare dalla Vita senza resisterle, libero di lasciarla libera di essere Vita. Benedetta vita, comunque e in ogni caso, benedetta avventura, è sogno aperto sulla possibilità futura, è mettersi in gioco. È un’avventura che ringiovanisce,
che provoca, che indirizza.Ce la farai? Il rischio è il fallimento, è previsto. Ma non tentare, far vincere la paura, tenersi per sé quello che si è ricevuto sarebbe un fallimento sicuro. Un nuovo mondo è possibile, sognarlo non è una fuga, anzi è l’arte prodigiosa di quelli che vedono prima degli altri ciò che sarà il domani e lo raccontano. I visionari, in un mare in burrasca, prima di tutti avvistano terra.
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Opinioni
SONO sbarcati in tanti, 1449 tra profughi e migranti, uomini, donne, minori non accompagnati da non contare, o meglio accompagnati dalla speranza di farcela o dall’illusione di potercela fare. Uno striscione all’arrivo: Benvenuti a Napoli.
Anche su questo la rete si divide e il “Benvenuto” diventa uno sfottò, un algoritmo, un pretesto per raccontare altro, per far dire alla politica parole di fumo, quelle che durano il tempo di uno spot, senza visione, senza progetto, quelle che si ripetono senza soluzione di continuità, che navigano a vista sull’emergenza che non è più emergenza, ma struttura di sofferenza voluta e alimentata dalla globalizzazione della povertà: “non si può non accogliere”, “meglio aiutarli a casa loro”, “bene il primo soccorso ma poi vanno rispediti a casa”, “disperati che si aggiungeranno al numero dei nostri”. Parole.
Intanto le telecamere acchiappano sguardi di quelle giovani vite che sognano altrove speranza e per il momento godono l’ebrezza di respirare terra, i piedi finalmente ancorati al suolo. Intanto nuovi sbarchi si preparano, altrove o qui, la processione dei giovanissimi continua e continuerà ancora: un milione di disperati attende di imbarcarsi sulle sponde libiche. Ancora ragazzi tra loro, in tanti acchiapperanno l’onda per respirare aria, forse di libertà, o forse ancora più malata, di nuova schiavitù. Schiavi di ieri, schiavi di oggi: la libertà è arte difficile da conquistare, ancor di più da preservare. Schiavitù che rimanda a tempi passati quando in catene, uomini e donne erano costretti a lasciare ogni sostanza di memoria e di affetto e subire ogni angheria da scellerati senza scrupoli che li trattavano da meno che bestie.
Schiavitù che ancora resiste nel tempo delle moderne democrazie, tempo della certezza del diritto che di sicuro è più certo per chi sa usare carta e penna a danno degli ultimi che, privati della loro dignità, non sono più in grado di dare ragione alla loro stessa umanità. I numeri sono un racconto spietato e leggono quello che le telecamere non passano, che gli striscioni non raccontano: tanti di questi ragazzi si perdono, scompaiono nel nulla. Il loro destino dopo poco non interessa più nessuno né alla patria che li ha espulsi, né alle sponde che li hanno accolti: forse un pensiero in meno.
L’Europol ha lanciato l’allarme: diecimila minori non accompagnati entrati in Europa nel 2015 sono scomparsi dopo il loro arrivo, 6000 solo dall’Italia. Probabilmente sono finiti nelle mani di una rete criminale internazionale per avviarli alla prostituzione o alla schiavitù. Fuggiti dalla fame o dalla vendetta di terre senza libertà molti, arresisi già prima nel deserto che li ha visti spirare, o sopravvissuti all’arsura, al tormentato viaggio, al contratto infame con mercanti senza pietà, hanno visto solo da lontano la terra promessa mentre le onde li avvolgevano e li consegnavano alle profondità del mare. Non fa più notizia la loro tragedia, non è cronaca spendibile dalle prime pagine: è solo routine. Non fa più notizia che giovani vite spariscono nel nulla. Anzi la notizia non passa. Possibile che ci si abitui al disastro di uomini senza speranza se non quella di morire, all’assurdo di un uomo violentato, derubato della sua dignità? Tra le mani mi ritrovo frasi di Nazim Hikmet, il grande poeta turco, uno dei più grandi poeti del ventesimo secolo amico di Pablo Neruda, che dalla sua prigionia canta l’amore nell’ultima lettera al figlio Nefer. “Non vivere su questa terra come un estraneo o un turista della natura. Vivi in questo mondo come nella casa di tuo padre: credi al grano, alla terra, al mare, ma prima di tutto credi all’uomo. Ama le nuvole, le macchine, i libri, ma prima di tutto ama l’uomo. Senti la tristezza del ramo che secca, dell’astro che si spegne, dell’animale ferito che rantola ma prima di tutto senti la tristezza e il dolore dell’uomo. Ti diano gioia tutti i beni della terra: l’ombra e luce ti diano gioia, ma soprattutto a pieni mani ti dia gioia l’uomo”.
Proprio così: ti dia gioia l’uomo! C’è qualcosa che non capisco, qualcosa si è inceppato se vale la pena raccontare con tanta commozione di delfini che si arenano, di balene che perdono la rotta, di falchi che si azzoppano, di cagnolini che non vanno abbandonati e nel frattempo, nello stesso momento in cui la nostra pietà veste le attese di giustizia per i nostri amici animali, tanto da fondare perfino un partito animalista pronto per le prossime elezioni politiche, ci si abitua allo sterminio di popoli in cerca di pane, al morire di uomini e donne innocenti sulle nostre sponde, a ragazzi che chiedevano asilo ma scomparsi nel nulla. Prima di tutto l’uomo, canta Nazim, prima le donne e i bambini si diceva una volta. Schiavi di ieri, schiavi di oggi: non basta un benvenuto per liberarli dalle catene.
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Opinioni
Papa Francesco e Trump faccia a faccia in Vaticano. La salute del pianeta al centro del colloquio. Fonti di stampa rivelano che il Papa avrebbe detto al presidente americano: “Non stracciare l’accordo sul clima”. Francesco è il papa della prima enciclica pontificia sulla difesa del creato e di certo gli argomenti non gli saranno mancati per raccontare proprio a Trump quanto a rischio sia il pianeta. Ma cosa scrive Francesco nella sua enciclica?
“Laudato sii”, sfida i potenti della terra che, avendo eretto altari all’economia diabolica, hanno messo a rischio la nostra casa comune. “Laudato sii”, il perenne cantico delle creature che, da San Francesco a Papa Francesco, sprona gli uomini di buona volontà ad essere custodi della terra. Un testo suggestivo, una visione alta e commovente della storia umana, centonovanta pagine di scrittura creativa, meditativa, emotiva. Un inno alla speranza contro ogni speranza, desiderio di nuova sostanza, di fiducia, di potercela fare insieme, tutti gli uomini, tutta la vita che brulica intorno e dentro al giardino di Dio, mentre previsioni apocalittiche condannano il pianeta ad una fine drammatica.
Il futuro, per quanto compromesso, è rimesso ancora nelle mani dell’uomo. Parola di Papa, ci si può credere. Comunque si deve, in assenza di alternative: “…sappiamo che le cose possono cambiare, il Creatore non ci abbandona, non fa mai marcia indietro nel suo progetto di amore, non si pente di averci creato”. “Viviamo in un giardino affidato alle nostre mani”, ricordarlo è difendere la vita stessa, è rendere grazie al Signore del creato. Un impegno che riguarda ogni uomo e che obbliga il credente a dare ragione della propria fede, amando e custodendo ciò che gli è stato dato in consegna. Custodire piuttosto che salvaguardare, rimando alla pagina biblica dell’origine: l’universo e il mondo, l’uomo e le creature, tutte sono famiglia di Dio. Custode è l’uomo e, nella missione che gli è stata affidata, il suo ruolo non è di padrone.
Coltivare la terra, proteggerla, difenderla (cf. Gn2,15) è dare spazio all’armonia del dialogo con i diversi vissuti, non solo è affondo di aratro e tenuta di briglie ma è dialogo intraumano. E’ permettere all’uomo, difendendo il suo ambiente vitale, di restare tale. “Custodire il creato è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi; è parte del suo progetto; vuol dire far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un giardino… Noi, invece, siamo guidati dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare”.
La lotta per la bellezza, per conservare intatta l’opera di Dio, si è dimostrata titanica: l’uomo deve lottare perfino contro un perfido ingranaggio di autodistruzione messo in moto dagli egoismi più perniciosi. Lotta quotidiana che si aggiunge a quella che deve mettere in atto per la difesa del creato. I cieli e i mari ridotti a immondezzai: piogge acide, inquinamento atmosferico, rifiuti tossici aggrediscono ogni giorno il giardino di Dio. Gli animali della terra, compagni di viaggio dell’uomo, seviziati in ogni modo. La bramosia di potere che ha creato le mille Babele dell’incomprensione ha ridotto il mondo in spazzatura. E come conseguenza di tutto questo i custodi sono diventati gli avidi soppressori delle cose che avrebbero dovuto custodire. E tra di loro si è organizzata un’aspra contesa di chi ha più diritti, di chi deve avere più spazi, di chi deve possederne più parti, di chi deve appropriarsi di più beni. La più bella delle creature, imbastardita dalla bruttezza dell’avidità, rischia di perdere i connotati dell’umanità che rimanda ai tratti del divino
. È fondamentale cercare «soluzioni integrali», sentenzia il papa, «che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura».
Nel pensiero di Bergoglio, «la crescita economica tende a produrre automatismi e ad omogeneizzare, al fine di semplificare i processi e ridurre i costi. Per questo è necessaria un’ecologia economica, capace di indurre a considerare la realtà in maniera più ampia. Infatti, «la protezione dell’ambiente dovrà costituire parte integrante del processo di sviluppo e non potrà considerarsi in maniera isolata». Educare alla custodia del creato è educare alla vita stessa. Percorso faticoso, ma esaltante, che vede insieme diverse generazioni a riscoprire la bellezza del creato nella gratuità come libertà in tempo di odiose schiavitù, la reciprocità che permette di sentirsi parte e disponibili all’incontro in tempo di contrapposizioni violente, riparazione dal male che si oppone a ogni fatalistica rassegnazione che il mondo non possa cambiare. Un bellissimo midrash recita: «Guarda le mie opere, quanto sono belle e degne di lode. Tutto quanto ho creato, l’ho creato per te. Stai attento a non rovinare. E a non distruggere il mio mondo, perché se farai così non ci sarà dopo di te chi possa porre rimedio ai tuoi danni» (Qohelet Rabbah 7,28). Spero che Francesco lo abbia fatto leggere anche a Trump.
*Gennaro Matino, teologo, scrittore, docente di teologia pastorale e parroco a Napoli
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Opinioni
I NUMERI di solito contano, spesso raccontano e nel loro incedere uno dopo uno, non solo assommano ma possono dividere, separare, segnare diversa cifra, produrre calcoli sbagliati. Le mura domestiche dovrebbero conservare affetti, proteggere sentimenti, dare spessore e significato alle parole condivise, casa dice famiglia, conforto di persone pronte a spartirsi vita.
Dovrebbe, ma non sempre succede. Anzi, i numeri che contano raccontano che nel nostro Paese le mura domestiche uccidono più della mafia, più della delinquenza organizzata. E se non uccidono, restano incancellabili i danni “dentro”, “sopra” la pelle dei brutalizzati. Lo scenario è drammatico: dal 2006 al 2016 le donne uccise in Italia sono state 1.740 e di queste 1.251 in famiglia, 846 all’interno della coppia, 224 per mano di un ex compagno, fidanzato o marito. Abbiamo dovuto coniare un termine, femminicidio, per dire l’assurdo e ancora dovremmo inventarcene altri per descrivere il dolore dei sopravvissuti, diversamente reduci, scampati, risparmiati, comunque segnati per sempre, vittime di un assurdo che avranno forse perfino chiamato amore. Aprire gli occhi, troppo tardi, e accorgersi che il possesso malato non passa frontiere di abbandono, non segna percorsi di dono. Violenza disumana perpetrata ai danni di innocenti vittime: donne stuprate, merce di bestiale attacco, madri, spose, amanti, nessuna parentela è risparmiata, nessuna consente la protezione da una violenza gratuita. Quanto dolore muto per vigliacca aggressione che non cede dinanzi al pianto di donne indifese e bambini violati. Bestialità, certo.
E che altro. Un’ondata di violenza che sembrerebbe non trovare analisi appropriata per spiegare il perché ora, perché adesso, perché in tanti sono divenuti carnefici. Insospettabili protagonisti, impensabili un momento prima, che ora trovano brodo di cultura alla malata consistenza delle loro azioni in un tempo che giorno dopo giorno si è svestito di qualsiasi protezione.
Svenduta l’umanità, senza nemmeno accorgersene, si vive come se fosse normale il degrado e la bestialità. Violenza che si aggiunge a violenza, tragedie che si susseguono, l’una più dolorosa dell’altra, più ignobile della precedente, una dopo l’altra, come granuli di un rosario che non si sciolgono, denunciano quanta silenziosa complicità esiste dietro ogni delitto, certo non in tutti i casi, ma in tanti così deve essere, perché nulla nasce senza una sua origine, senza una sua collocazione. L’ignoranza foraggia mostri e lo fa oltre le relazioni che trasforma in campi di battaglia, coniugi in perenne scontro, genitori contro figli, ricambiati a loro volta da odio ingovernabile, parenti serpenti pronti a distruggersi e per non perdersi, per non perdere, perdono tutto.
Negli ultimi 15 anni il numero dei bambini, che hanno perso la madre per colpa del padre o del compagno assassino, è salito fino a quota 1.628. Sono loro, le “vittime secondarie” di cui poco si parla ma sulle quali ricade veramente tutta la violenza di questi uomini “malati”. Ad ogni sopruso che la cronaca rileva, ad ogni scelleratezza raccontata, di sicuro se ne possono aggiungere tanti altri che nessuno riporta, ordinarie barbarie nascoste nelle oscure camere della complicità, del compromesso con il male, del silenzio della porta accanto. E quando l’inevitabile si traduce in un nuovo dramma, son tutti pronti a dichiararsi ipocritamente sorpresi.
Non c’è limite alla corruzione del vero, non c’è possibilità di contrastare la brutalità gratuita se il silenzio dei vigliacchi copre la sevizie del quotidiano crimine. Inascoltato grido quello delle vittime che non possono trovare consolazione in manifestazioni di solidarietà postuma, che è bene che ci sia, ma meglio sarebbe una quotidiana cultura della non violenza che attraversasse il cuore delle nostre città, dei nostri territori, delle scuole per insegnare ai giovani e ai meno giovani che vale la pena superare la bestialità con la verità della parola. Se esiste una correlazione tra violenza e disagio, tra violenza e volgarità, tra violenza e ignoranza, tra violenza e degrado, certamente una città non curata, abbandonata, devastata, sporca e umiliata apre nuove frontiere di violenza. Millenni fa scriveva un certo Giacomo: “Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra!”.
Il femminicidio è la punta dell’iceberg della violenza di ogni giorno, è la fotografia del possesso di cui la nostra società è ammalata, una nuova società è possibile se la verità dell’amore non sarà solo un vezzo per romantici, ma qualità politica di chi spera in un mondo migliore.
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OpinioniLA morte di un figlio non ci si rassegna. Troppo forte il dolore, insopportabile contronatura. Ho rivisto in questi giorni un grande film di Nanni Moretti, “La stanza del figlio”, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes, e devo dire che mi ha commosso di nuovo, profondamente.Sarà perché i conti con la verità del dolore non si saldano mai, sarà perché per “mestiere” i conti li fai spesso, che la visione del film, in questi giorni, ha provocato in me pensieri strani, dolore, speranza, domande di senso su quello che avviene nel quotidiano vivere a Napoli o altrove, su troppi innocenti, giovani e bambini, uccisi da una sorte crudele, incidente, malattia, o da scandalosa ingiustizia, che sia guerra, armi chimiche, fame o traversate criminali. Pensieri contrastanti, rabbia, tanta, rassegnazione, per me, per chi a me si affida, neppure a parlarne, non mi riguarda, non voglio riguardi chi amo, piuttosto lotta e superamento: “Fino a quando esisterà lo spazio e con esso le creature viventi, possa io concorrere a cancellare i dolori del mondo” (Dalai Lama).Aveva ragione lo scrittore argentino Manuel Puig, quando scriveva che accettare il dolore rassegnati, equivale ad accettare la morte da vivi. È ammirevole chi accetta senza reagire, ribellarsi o protestare contro le imposizioni, le gravi rinunce e perdite; chi nel proprio dolore non protesta ma serenamente lo vive. Io vivo il dolore come scandalo e la morte dell’innocente come abuso, per questo consegno la rassegnazione alla lotta per ritrovare equilibrio, per organizzare speranza contro ogni sconfitta.La straordinaria interpretazione dei protagonisti del film, la veridicità della sceneggiatura, la trama raccontata con estrema autenticità mi hanno toccato. Il dramma di una bella e serena famiglia visitata all’improvviso, come da fulmine a ciel sereno, dall’esperienza della morte: il figlio muore in una immersione subacquea. Mi sono ritrovato nelle tante storie dolorose che mi sono state raccontate, esperienza simile a tante esperienze che in prima persona ho vissuto. Ho riascoltato le paure, i sensi di colpa, le difficoltà del vivere, del rapportarsi con le mille parole consolatorie che sembrano più alibi di chi dietro ad esse vuole nascondere le proprie ansie, la fuga dal dolore altrui, le crisi in famiglia dopo la tragedia, tutte cose che mi erano familiari.E ho potuto constatare come anche nella vicinanza a coloro che rimangono, ci sia la volontà, il desiderio di farsi forza perché comunque bisogna andare avanti. E nel film, come nella vita, persiste il non capire che la tragedia vissuta ha ormai cambiato irrimediabilmente la vita di chi sopravvive, che nulla resta uguale e che non si può più essere quello che si era prima. Lo spettacolo dovrà pure continuare ma alcuni attori si accorgono che la parte che sembrava loro essere stata affidata gli è stata con violenza scippata dalle mani. Rassegnazione non è dimenticare, fuggire; non si può essere o fare come se non fosse successo niente.La stessa proposta religiosa è vissuta come scandalosa, inadeguata, se propone una rassegnazione passiva e non una eroica, sofferta, combattuta conquista di pace. Mi sono contrariato quando nel film i protagonisti, come tanti nella realtà, si sono rivolti alla fede perché dalla fede avessero compagnia nella loro vicenda dolorosa e hanno trovato solo parole di circostanza, “Il Signore si porta via i migliori”, “Era troppo buono per vivere in questo tempo volgare”, frasi certamente sentite ma incapaci di ridare speranza ai disperati. Là dove la sofferenza grida il “no” alla vita, là la vita deve trionfare nella partecipazione alla sofferenza e nella testimonianza di chi crede nel Dio cristiano e sa che è un Dio che non ama la morte, non la chiede, non la vuole, in un Dio sofferente in cui trovare la risposta ai suoi dolori. Ma anche se credenti non si è, lottare è comunque la risposta perché la morte non si prenda gioco anche di chi sopravvive all’amato, di chi costretto dalla morte a morire tutti i giorni potrebbe decidere di restituire il suo biglietto di ingresso alla vita. Ne “Il Re Lear”, William Shakespeare scrive: “Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono, l’animo può superare molte sofferenze”.Se la via per superare il dolore è rassegnare le armi e sentirsi completamente sconfitto, schiacciato e annientato, allora io lotto contro tutte le rassegnazioni. Ma se rassegnarsi è rassegnarele dimissioni da un uomo vestito di apparenza per rivestirci della nostra nudità, della nostra vera condizione, per cercare armi diverse e continuare a combattere contro il dolore, insieme, contro la nostra o altrui condizione di limite, allora rassegnarsi è incominciare a sperare contro ogni speranza. Il mondo cambierà quando le parole di circostanza sul dolore cederanno il passo a quelle di compassione, l’unica arte ancora capace di dire umano l’uomo.
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OpinioniSe fossi lupo mi indignerei se degli spregevoli topi di fogna avessero usato la parola “branco” per definire la loro accozzaglia vomitevole, per raccontare scorribande di bestiale e depravata consistenza. “Branco” è parola nobile, lo sanno i lupi, che hanno bisogno di regole legate alla natura in cui i più forti non sono i più vigliacchi che si nascondono nel mucchio, ma sono quelli che fanno scudo ai deboli, guidano il gruppo al naturale sopravvivere e usano le zanne solo per trovare cibo e non per sadico divertimento.Mi fa schifo e orrore chi si nasconde dietro le parole per non raccontare quanta miseria umana, degrado, volgarità contro natura e ignoranza sia generata e offerta da chi si associa per delinquere, per offendere, per seviziare, per torturare chi ha la sola colpa di non far parte del loro sodalizio, di chi per sventura in una società rovesciata vuole essere un bravo ragazzo, di chi diverso non si inchina al potere del nulla associato.Sono stanco di sentire parole come “branco” se servono agli esperti buonisti per sciorinare concetti che vorrebbero il degrado morale di una gioventù violenta e volgare superare la responsabilità individuale di chi commette il crimine in forza dell’attrazione del gruppo, quasi che “branco” fosse condizione attenuante e non aggravante, che insieme si può essere comodamente cattivi per ritornare facilmente buoni da soli.Le notizie terribili che arrivano da ogni parte d’Italia segnalano quanto grave sia ormai la situazione e quanto inadeguate siano le responsabilità dell’inadeguatezza delle parole per descriverla, della scuola per prevederla, della chiesa per convertirla, della politica per superarla, della magistratura e delle forze dell’ordine per correggerla e punirla e soprattutto delle famiglie per farsene davvero carico. L’orrore corre sul filo della comunicazione, soltanto la punta dell’iceberg emerge dall’oceano quotidiano di soprusi perpetrati da nuovi barbari che nulla hanno di umano e che non possono, solo perché minori, essere giustificati, difesi o peggio “condonati”.Capire il degrado non è giustificarlo o peggio banalizzarlo, le vittime innocenti, siano state uccise dalla furia omicida a colpi di spranga o violentate nella carne e nell’anima, hanno diritto al risarcimento, alla giustizia, alla verità che non può, non deve inchinarsi al fallimento degli adulti e alla fuga nel solito refrain “sono cose da ragazzi” perché non lo sono, perché non sono accettabili, perché all’orrore di un’azione disumana si risponde con la severità di una punizione esemplare.Il perdono non c’entra, non può essere rivendicato se prima la giustizia non abbia fatto il suo corso, se prima la pena adeguata non rimarchi pedagogicamente il confine tra il giusto e l’errato. Far parte di un gruppo criminale è reato e lo è anche se la spranga non la si impugna ma si ride sulla vittima o peggio le si sputa addosso, anche se non si è abusato di un malcapitato ma ci si diverte a passarne foto, a raccontarne divertiti il martirio.Una condizione immorale che è molto più radicata della violenza raccontata dai media, che passa al gruppo “di bravi ragazzi” l’obbligo di perdere la propria verginità alle prime ore dell’adolescenza non per scelta ma per non essere additati come secchioni o omosessuali.Dal furto commissionato per puro scherzo in un motel o supermercato, alle scorribande per imbrattare, rovinare, degradare il bene pubblico, tutte “cose da ragazzi” che preparano la strada a quei comportamenti criminali che condanniamo ma che ci vedono complici nel non saperli o peggio nel non volerli correggere.In fondo il “branco” dei ragazzi risponde perfettamente all’idea della società massificata prodotta dagli adulti dove è lecito il “così fan tutti” e dove nascondersi dietro lo schermo del collettivo polverizza le responsabilità individuali. Anzi la doppiezza è carta da giocare nelle relazioni e si può essere comodamente “bravi ragazzi” al mattino e corrotti e corruttori la sera, fedeli il giorno e traditori la notte, maschera usa e getta per ogni occasione per uomini senza qualità di uomini.La coscienza, il sacrario della verità di dentro trasformata in pattumiera dove il riciclaggio più in uso è quello della verità da utilizzare secondo opportunità, da vendere o svendere quando serve.Se i nostri ragazzi amano il delinquere e la violenza, se la praticano nel linguaggio e la venerano nei videogame, se la scelgono come opportunità di esistere, come luogo per farsi riconoscere è perché il mondo degli adulti ha fallito. In settimana su questa pagina si è certificato che nel Napoletano più di mille ragazzi evadono l’obbligo scolastico, se domani saranno “branco” la colpa non può essere solo la loro.
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Credente o meno, per fede o per cultura, chi vive alle nostre latitudini, sa che questa domenica si colora di verde ulivo, primo giorno di una settimana detta santa. Puoi credere o meno ma il tuo destino resta legato ad una terra che respira aria di sacro già di suo, stretta com'è nell'abbraccio di mille cupole e di atavici riti che l'attraversano nel ventre. Perfino i battenti della Madonna dell'Arco, comica e tragica espressione popolare di fede fai da te, al dissacrante procedere tra danze improvvisate e musiche neomelodiche, danno colore ad un'attesa che vede Pasqua come meta e il Calvario inevitabile e scandaloso checkpoint.
Un verde ramoscello per inaugurare un percorso difficile da raccontare perfino al credente che veste di miseria il divino, lo spoglia degli attributi di gloria e di potere per consegnargli la storia umana per intero, senza orpelli, senza maschere, storia di dolore, di tradimento, di caduta, di croce. Storia di storie che il quotidiano raccoglie nel cedere incalzante di vita che si fa morte, di amore che resta tradito, di pace offesa. Ma provocazione di speranza a chi credente o meno vuole dare ragione alla sua vita, trovare un senso anche alla sconfitta, ragionare di nuovo, di bello, di possibile, di vittoria mentre ancora la notte è profonda e la luce del giorno tarda a spuntare.
Molti cercheranno i riti della settimana santa per viverli da spettatori, curiosi e turisti affolleranno basiliche e chiese, racconteranno la sorpresa o l'incanto, la delusione o la propria ignoranza. Sarà sicuro spettacolo, teatralità al culto non manca. Ma quanto sarebbe scandaloso e perdente che il credente, il gregge e il pastore, uguale percorresse il pellegrinaggio santo verso il sepolcro come semplice spettacolo, con stessa movenza, invariata sostanza dello spettatore, senza comprendere appieno il significato fosse solo per passarlo a chi non lo ha compreso ancora. Un ramo di ulivo segna il confine per chi crede o non crede tra l'essere uomo di pace o di discordia, non è obbligo scegliere il Crocifisso per dirsi contro tutte le croci del mondo, bambini stuprati in patria o in Siria, pane rubato ai poveri, giustizia negata agli offesi, barriera da opporre ai violenti in parole ed opere, e poi guerra, tanta guerra dappertutto. Ma oltre il simbolo del verde scambiato per umana alleanza o per cultura, c'è una fede da raccontare, un significato da passare. Perché il dolore del giusto?, perché di questo si tratta, di come la fede risponde.
Questa l'eterna domanda che attanaglia la terra, che insidia anche l'uomo di fede. Perché la morte? Questa la domanda che non trova risposta se non si comprende che in ogni croce del mondo c'è impresso, per chi crede, il Cristo sfigurato, crocifisso per la salvezza degli uomini. La Domenica delle Palme è la più contraddittoria delle celebrazioni liturgiche, ma è anche la più umana perché descrive la realtà di un dramma e racconta il salto dalla fede alla disperazione, dal coraggio alla paura, dall'abbandono in Dio al sentirsi abbandonati da Dio. La festa fa i conti con la croce che segna il confine tra chi cerca un Dio che non trova e chi, accogliendo il grido al cielo dell'unico innocente, riesce a proclamare come il centurione ai piedi della croce: "Questi davvero è il figlio di Dio" (Marco 15,39). La croce è lo spartiacque tra l'illusione e la consapevolezza di una vita intrisa di gioia e dolore, tra un Dio avvertito come traditore o Padre: "Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato" (Is 50,7). La passione del Padre, che consegna la sua risposta il terzo giorno, è celata sul legno della croce ma già da allora presente nel dolore del Figlio, nelle sofferenze dei figli.
In quel legno il corpo martoriato del Cristo lascia impresso, come in un calco, il suo amore e diviene compagnia, conforto, condivisione nella sofferenza che sempre lascia il suo segno. Un atto d'amore, il più grande della storia, si consuma sul Colle del Cranio per rispondere al dolore dell'uomo. Se la terra è schiava dell'odio che genera morte, solo il cielo può aprirla alla vita e su quel colle Dio è posto dinanzi a una scelta fatale: morire d'amore o rassegnarsi a un amore che muore nelle speranze tradite degli uomini. Il Dio cristiano è Amore e se muore l'amore è Dio che muore lentamente nel cuore degli uomini e da relazione, da parola, da vita diventa idolo, feticcio.
Si può morire per amore e Dio ha scelto di scendere nella morte perché l'amore non morisse. Difficile raccontare la fede ma dato che anche il calendario dice santa una sola settimana l'anno, potrebbe risultare interessante saperne il perché anche a chi credente non è. Scambiarsi un ramoscello di ulivo, oggi, vale di sicuro per tutti come speranza di nuova speranza su ogni morte innocente.
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"#sfida". Impazza in rete la nuova moda, postare foto vintage, memorie di passato da consegnare ad "amici" in facebook o su twitter. L'idea nata in Spagna, virale ormai nel mondo, era buona, nobile perfino, per provocare segnali di attenzione su chi di cancro si ammala, di chi muore, per ragionare di ricerca e di possibili cure, per ricordare che dal colore vivace di una vita normale si può piombare all'improvviso nella solitudine del bianco e nero, forzati alla croce da una frontiera nemica, da un male non sempre incurabile ma che non sempre trova compagnia di compassione.
Fine nobile ma che nel frattempo, velocemente, come avviene facile nella combine dell'effimero, si è trasformata nella nuova "catena di sant'Antonio" dell'ovvietà, della ricerca sproporzionata di un passato da riproporre, per accattivare i viandanti della rete, per raccontare di se stessi "sopra le righe" a sconosciuti compagni di viaggio, spesso con la vanità di pensare che l'immagine sbiadita di ieri possa essere più "attraente" di quella di oggi. Nobile lo scopo come peraltro già usato in passato, con diversa sostanza per solidarizzare con il mondo gay e già allora il fenomeno rischiava di trasformarsi in un boomerang e il patetico e il volgare in molti casi presero il sopravvento.
Quanti sono quelli che postando una loro foto di qualche anno fa o di secoli addietro davvero sono disponibili ad accettare la sfida, quella di rompere l'accerchiamento nemico che visita l'ammalato di cancro? Quanti sono disponibili a farsi carico dell'aiuto alla ricerca? Saranno sicuramente in tanti, non lo nego, lo voglio sperare, ma la sensazione è che il "gioco" ormai è sfuggito di mano a chi lo aveva ideato e così si può postare liberamente di tutto sotto il titolo "come eravamo", patacche, offese, caricature, lotta politica e messaggi subliminali di ferventi accattoni e di impenitenti ruffiani.
È la libertà della rete, è ovvio, e di sicuro i suoi apostoli avranno parole appropriate per difenderne ad oltranza la significanza, il valore, l'indiscussa popolarità tanto da farne il più grande business dell'era contemporanea, ma qual è il suo limite, quale deve essere se ce ne è uno, se anche di fronte alla tragedia di una morte, di tante morti atroci, di dolore inaudito prevale la malata volontà dell'ego bisognoso di apparire o di raccontare un sé sbiadito che dovrebbe interessare a qualcuno?
Quanto successo avrebbe avuto in rete invece il racconto di chi il dolore lo vive ogni giorno sulla propria carne? Se dall'effimero potessimo passare alla verità che libera, se le foto le avessero postate gli ammalati di cancro, mostrando il loro calvario nudo, feroce, vero, senza veli, quel "come eravamo" e "come siamo diventati", che adesso riguarda loro e che può riguardare ciascuno di noi? Nessun successo. Ricordo campagne pubblicitarie di sensibilizzazione estrema sul fumo, sugli incidenti stradali, sull'anoressia che provocarono accessi dibattiti sulla loro opportunità.
Ma lì si raccontava la verità, anche se la verità fa male guardarla negli occhi, la verità è comunque una guida, comunque libera. Diversamente dal gioco perverso di chi vuole sensibilizzare con l'unico strumento ormai rimasto nelle mani della comunicazione globale, puntare al culto di sé per raccogliere pochi spiccioli di noi. Peggio quando per raccoglierli si spinge sull'acceleratore della falsità. La Germania, prima tra i paesi del mondo, non senza polemiche e con grande fatica, sta per varare una legge per limitare l'uso spregiudicato della rete, per costringere chi pubblica fake news alle proprie responsabilità, fino a multarli con cinquanta milioni di euro.
È un primo passo e qualcuno potrebbe obiettare che certo il gioco innocente di "accetta la sfida" è altra cosa dalle notizie costruite in rete ad arte per far accrescere il numero degli utenti, per ottenere una maggiore raccolta pubblicitaria, per sconfiggere un avversario politico, ma forse non lo è, forse proprio le "innocenti" pratiche nei social sono alla base della giustificazione dei grandi imbrogli, il brodo di coltura dove cuocere a fuoco lento i catturati nei linguaggi senza contraddittorio, in quegli utenti tenuti al guinzaglio dell'ultima moda da adorare a tutti i costi per non incorrere nel rischio di restare "fuori" dal gruppo, dal salotto, dal branco.
Per chi ancora non lo avesse capito il futuro del mondo libero si gioca nella resistenza alla più estrema e scorretta comunicazione. Trump lo sa bene e sta facendo scuola, difendersi è possibile solo con una nuova civiltà fondata sull'uso corretto e vero delle parole. La libertà tra le parole è la più nobile che mai dice: tutto mi è concesso, il mio limite è non offendere e ledere il diritto dell'altro, non fare agli altri quello che non voglio che sia fatto a me.