Articles by: Gennaro Matino

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    Halloween, una festa satanica?

    Halloween una festa satanica? Ci risiamo, e la rete impazza. Possibile che senza un nemico da combattere, senza una guerra da dichiarare, la verità in cui si crede si svilisce e si rischia di non trovare proseliti? Ci saranno anche degli scalmanati che non trovano meglio da fare che oppiarsi la vita, sballarsi una volta in più anche alla festa di Ognissanti, scegliendo il genere horror come brodo di cultura.

    Ci sarà anche chi crede di poter trasformare in un sabba un giorno dell’anno e pensare di essere ancora sano di mente, ma chiamare in causa il principe delle tenebre, che se esiste si preoccuperebbe di ben altro e di sicuro darebbe meno nell’occhio che vestendo abiti riconducibili al suo “guardaroba”, è offensivo per l’intelligenza di chi crede e di chi, non credendo, ha rispetto di una fede seria, autentica, che non si improvvisa di volta in volta passando paura a forza di patacche.

    Ancora non abbiamo imparato la lezione che prima o poi l’ignoranza, passata come pratica religiosa, oltre a generare mostri viene presto smascherata. Un tempo era considerato demoniaco mangiare cioccolata, ballare il tango, censurato da bolla papale come peccato mortale, mangiare carne di maiale costringeva all’inferno, e chi era figlio di macellaio non poteva accedere al ministero sacerdotale dato che il padre si era “macchiato di sangue”. Le donne in mestruo non potevano entrare in chiesa, e i medici che praticavano l’autopsia per la ricerca scientifica venivano scomunicati.

    Meglio non continuare su questo triste elenco, non basterebbe una pagina del giornale, ma il fatto costante che si ripete è il peccato originale di chi, non avendo capacità di passare argomenti validi e credibili, cerca di tenere buona la platea plaudente a forza di terrore, lo stesso terrore che dovrebbe riempire chiese e consentire a chi le regge sulla paura di organizzare il consenso. Il peccato, il diavolo e la colpa diventano l’arma da sfoderare ogni qual volta la nostra incapacità di convincere l’uomo circa l’amore liberante di Dio non riesce a portare i frutti desiderati.

    E il senso di colpa che genera mostruosità è il luogo pseudo spirituale dove meglio sembra facilitato un annuncio che a mio modo di vedere, al di là delle buone intenzioni, semmai esistono, non genera comunque la liberazione voluta da Cristo. “Dio ti vede!”, sulla colpa e la paura abbiamo costruito montagne di psicotici religiosi che dicono di credere più per evitare l’inferno che per godere del paradiso. Molti uomini schiacciati da questo peso, quando si accorgono dell’inganno o fuggono, decidendo di vivere malgrado la colpa, o si rassegnano e si lasciano convincere nonostante la colpa.

    Non bisogna dimenticare che il terrorismo spirituale non ha mai pagato, è riuscito solo temporaneamente a irreggimentare uomini che si dichiaravano credenti perché impauriti e sfiduciati. Agitare le fiamme dell’inferno non servirà a restituire la libertà all’uomo: solo la gioia, la sana allegria, sperimentata grazie all’amore che vivo, mi potrà convincere che esiste un Dio liberante, che vale la pena affidarmi a Lui. E questo permetterà anche di rischiare, tentare di fare meglio, sapendo che forse possiamo sbagliare, ma che proprio l’amore che muove il nostro essere diventa giudice della nostra vita.

    La paura paralizza, il senso di colpa pietrifica, l’amore rende coraggiosi, dà sicurezza ai nostri passi malgrado le nostre fragilità. Il senso di colpa ricorda continuamente ciò che è peccato, quello che devi fare e quello che non puoi fare, l’amore invece mostra nella libertà quello che può essere contro o a favore, ma più che dire cosa non si debba fare, sprona a quello che bisogna essere. Per troppo tempo preoccupati di dire agli uomini che non dovevano fare il male, abbiamo dimenticato di ricordare che per essere felici bisogna fare il bene e abbandonarsi alla logica dell’amore, con la consapevolezza che malgrado i nostri limiti, possiamo fiduciosamente contare su un Dio che vuole che nessuno si perda, anche se non la pensa come noi, se vive diversamente dai nostri principi e vuole che Halloween altro non sia che una sera di baldorie.

    Ricordo che da bambino con i miei compagni per la ricorrenza dei morti compravamo dei salvadanai a forma di bare. Giravamo per strada agitandoli tra la gente che alla nostra richiesta “Signurì e muort”, rispondevano con qualche spicciolo. La sera, il ricavato, per comprare torrone. Era la nostra Halloween come per tanti bambini di oggi in cerca di scherzetti e di dolcetti, bambini mascherati da mostri per riderci un po’ sopra insieme a maestri e genitori e per imparare forse a convivere con la paura dell’ignoto, senza l’alibi di attribuire a Satana la responsabilità dei nostri fallimenti.

  • Opinioni

    Per la Chiesa, per le sue Caritas. Occorre prima di tutto autocritica

    La cultura contemporanea è specchio di un mondo dilaniato da nuove emergenze, nuovi conflitti e nuove povertà, dalle contraddizioni del potere economico, dalla logica del possesso che determina la cultura della morte che a volte si manifesta come bullismo, violenza, volgarità, come abbandono degli anziani ed emarginazione dei più deboli.

    L’ultimo dossier della Caritas Italiana: “Povertà plurali, nell’orizzonte della ripresa economica” è una drammatica ma realistica cartina di tornasole del disagio del vivere quotidiano che soprattutto i giovani del Sud provano sulla propria pelle. Non solo disoccupazione, che certo resta il dato più allarmante per una popolazione giovanile descritta senza speranza, ma di una progressiva e inarrestabile perdita di futuro che indebolisce la struttura stessa dello Stato.

    La rassegnazione alla propria condizione di limite porta giovani e non a cercare rifugio in mense e dormitori. Spesso la strada, e solo la strada, resta l’ultima frontiera di chi non ha neppure più un tetto sotto cui vivere. Un lavoro straordinario quelle delle Caritas sparse sul territorio nazionale che, insieme alle mille articolazione del volontariato, fungono da azione di supplenza alla mancanza di un progetto visionario di giustizia sociale dell’Italia e dell’Europa stessa, quasi a dichiarare la rassegnazione di fronte all’inganno dell’economia post capitalistica e finanziaria capace di dividere più che affratellare.

    Tuttavia, proprio il dossier della Caritas, che senza timore analizza lo stato presente della povertà e descrive la divisione malata tra chi ha tanto e chi nulla, manca di una parte importante e decisiva per la credibilità stessa di tutto il testo. Manca, infatti, di una lettura critica delle strutture di assistenza della stessa Caritas che dovrebbe chiedersi se esistano o meno anche sue responsabilità per non essersi data un piano organico di intervento sulla povertà.

    Dovrebbe interrogarsi sul perché non si è escogitato un processo unitario di liberazione degli oppressi, lasciando all’iniziativa di singoli soggetti locali, improvvisati, emotivi, la fatica degli interventi caritativi; perché sono stati permessi, anche con l’uso dell’otto per mille, finanziamenti a pioggia, senza la dovuta verifica successiva e il controllo meticoloso delle spese. Bisognerebbe capire perché siamo pronti a rispondere all’emergenza, quando lo siamo, e non invece a saperla superare, con strategie di inclusione, quantomeno in una campionatura apprezzabile, di quei soggetti svantaggiati che a noi si rivolgono.

    Domande che potrebbero provocare oltre e chiedersi ancora se il volontariato in carico alle Caritas, formato dalla comunità ecclesiale, sia primariamente volontariato puro o se invece, in assenza di lavoro, sia stato trasformato in nuova modalità occupazionale, ricercata da tanti disoccupati con competenza o meno, consentendo a cooperative, o giù di lì, di darsi una ragione sociale solo a scopo di sbarcare il lunario, anzi nate proprio con lo scopo primario di intercettare risorse necessarie alla propria sussistenza, più che per la liberazione degli oppressi.

    Senza parlare di quel sottobosco di faccendieri collaterali ad associazioni, sigle, enti che senza storia pregressa, senza esperienza sul campo, vengono create ad acta quando si tratta di accedere a finanziamenti pubblici, ottenuti più che per la loro competenza e per l’affidabilità dei progetti che dovrebbero essere accompagnati dall’idealità di servizio, per l’antico costume del clientelismo partitico che cerca consensi e benedizioni clericali.

    Per la Chiesa, per le sue Caritas, per chi meglio dovrebbe gestire l’otto per mille a favore degli ultimi, non è solo problema di gestione di mezzi e di rispetto delle procedure, è questione di Vangelo, del suo ruolo nel destino della nostra terra, a Napoli come altrove. Ci sono decine di migliaia di parrocchie sparse sul territorio italiano, in media una parrocchia per ogni mille abitanti, ordini e istituti religiosi, scuole, giornali, televisioni, radio, siti ed editoria, centri culturali e informativi, opere pie e strutture di carità e assistenza, una presenza impressionante di strutture ecclesiastiche nel tessuto territoriale di una nazione che tuttavia sembra non riesca a dare soddisfazione al suo primo scopo: comunicare la fede con la testimonianza della carità, vivere la carità, sempre.

    Di bene se ne fa tanto, ma tanto se ne farebbe ancora di più e meglio se, di fronte all’aggressività di un potere finanziario che spesso contagia e contamina anche il mondo ecclesiale, le Caritas e il volontariato, si avesse il coraggio di resettare strutture, di correggere meccanismi perversi che al capitale umano preferiscono il capitale economico.
     

  • Op-Eds

    Mother Theresa of Calcutta is a Saint. She already Was

    Mother Theresa of Calcutta is a saint. She already was. She always had been even when doubt assailed her thoughts and God’s silence seemed deafening. The saint of the poor, of course, even though it would be better to remember her as the powerful icon of love without limits. Theresa started with the realization that every one of us has the need to give and receive love. Only love can make us fully human and if happiness is possible, it’s love that makes us happy. To love is a gift that is free, it asks of nothing more than to find someone who allows themselves to be loved in return.

     

    I met Mother Theresa in the beginning of the 90’s during my first trip to the city of Calcutta. When I saw her, I immediately felt the sensation of being in the presence of a fragile yet potent woman, physically petite, but a giant when it came to everything she had the strength to do. Not including the extraordinary things she would do to comfort others and the words of the curious people who would seek out saints and pray for miracles. The big blue eyes carved into her wrinkled face still leave a mark in my memory.

    Being in Calcutta is like being in the heart of the same contradictions as those in the subcontinent of India. There are the emotions emanating from your soul mixed with the copious amounts of sweat dripping down your forehead because of the unbearable heat. It’s impossible to tell if you are living a dream or a nightmare. Traveling down the chaotic streets crowded with cars, wagons, bicycles, cows, raccoons, men, women, children, everyone together, everything together, is an overwhelming commotion. 

    Men and women along with children and the elderly work frantically, they look for work, they hope to work, and perhaps to eat as well. There are men who are sitting, laying down, resigned, maybe waiting for death. I often found myself asking as a westerner with strong convictions, what did they expect, what could they get without taking life head on. Important palaces, hotels for wealthy managers and traders of all kinds, modern architecture that would make the west envious alongside emaciated men, children tortured by hunger, the pungent odor of poverty so strong that it blocks both the stomach and the throat. To weakly judge every human reflection, the blatant contradiction between those who have and those who have nothing stuns you and almost forces you to run away, to ignore it, or worse: to adapt to the system that doesn’t ask the ultimate question: Why is there so much injustice?

    These were my thoughts in the March that I met Mother Theresa, in order to be able to begin a project that would help the children of the slums in that area. Before meeting her, I made a stop in the temple of Calì, right in front of the house of suffering she had created to welcome the poorest of the poor, those abandoned from the world. In the temple, delirious men tried to appease the wrath of the goddess with animal sacrifices. A trickle of blood touched my feet. Silence and peace embraced me as soon as I crossed the road, within the plastered walls of the house of the suffering poor people who were ready to die. In just two steps I entered a completely opposite world, but it seemed light years away. I found the eyes of Theresa and they sent me great hope. She asked me: “But why are you here?” and I responded: “So that I too can do something for you and your people.”

    Every word she spoke was weighed and accompanied by a radiance in her eyes. It was then that I sensed the color of holiness in her: to compromise and expose herself in favor of God’s beloved children until her final breath, regardless of their skin color, race, or religion. She said to me: “You already do so much, without your love, mine would be useless!”

    I love thinking about our last embrace and the words she gave me after years of collaboration, almost embarrassed I told her: “Forgive me, I am talking about my small plans to a person who carries out tremendous projects.” “Your project is not a drop” she responded “and even if it was, it’s a drop that makes the ocean, an ocean. So the entire ocean, as big as it is, is just as important as a single drop.”

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  • Opinioni

    Madre Teresa di Calcutta è santa. Lo era già!

    Madre Teresa di Calcutta è santa. Lo era già. Lo è sempre stata anche quando il dubbio assaliva i suoi pensieri e il silenzio di Dio le sembrava assordante. La santa dei poveri, certo, anche se sarebbe meglio ricordarla come l’icona potente dell’amore senza confini. Teresa partiva dalla consapevolezza che ognuno di noi ha bisogno di ricevere e dare amore. 

    Solo l’amore può renderci pienamente uomini e se felicità è possibile, è l’amore che rende felici. Amare come dono, come gratuità che altro non chiede come ricompensa che qualcuno che sia disponibile a farsi amare dal proprio amore. 

    Teresa l’ho conosciuta agli inizi degli anni novanta, nel corso del mio primo viaggio nella città di Calcutta. Quando l’ho incontrata, ho avuto subito la sensazione di trovarmi di fronte ad una donna fragile e potente, minuta fisicamente, un gigante per tutto ciò che aveva avuto la forza di fare, oltre le cose straordinarie da lei inventate per dare conforto agli ultimi, oltre le parole dei curiosi di sacre avventure che cercano santi per impetrare miracoli. I suoi grandi occhi azzurri scavati nella faccia aggrinzita, restano ancora un faro nella mia memoria. 

    Essere a Calcutta è come essere nel cuore stesso delle contraddizioni del sub continente indiano. Un miscuglio di sensazioni attraversa la tua anima mentre il sudore scende copioso dalla fronte per l’afa insopportabile. Ti sembra di vivere un sogno o un incubo. Il caotico percorrere le strade affollate di auto, carri, biciclette, buoi, cani, vacche, procioni e uomini, donne, bambini, tutti insieme, tutto insieme, un fragore da togliere il respiro. Uomini e donne, vecchi e bambini che freneticamente lavorano, cercano lavoro, sperano di lavorare e forse di mangiare e uomini che stanno seduti, sdraiati, rassegnati, in attesa forse di morire. 

    Molte volte mi sono chiesto cosa aspettassero e da ‘buon occidentale’, forte delle mie “alte convinzioni”, cosa potessero ottenere senza prendere di petto la vita. Palazzi importanti, alberghi per ricchi manager e commercianti di ogni genere, architetture moderne che farebbero invidia all’occidente e uomini emaciati, bambini seviziati dalla fame, l’odore acre della povertà che assale fino a bloccare lo stomaco e la gola, a  giudicare debole ogni umana riflessione, stordendoti per la stridente contraddizione tra chi ha e chi non ha nulla e che forse ti costringe a scappare, a ignorare o peggio ad adeguarti al sistema per non porti la suprema domanda: da dove tanta ingiustizia. 

    Questi erano i miei pensieri nel marzo che incontrai Teresa, per poter iniziare proprio in quel posto un progetto a favore dei bambini degli slums. Prima di poter incontrare la madre, mi fermai nel tempio di Calì, proprio di fronte alla sua Casa della sofferenza che aveva destinato all’accoglienza dei più poveri dei poveri, degli abbandonati della terra. Nel tempio, uomini in delirio, cercavano di placare con sacrifici di animali la collera della dea. Un rivolo di sangue lambiva i miei piedi. Silenzio e pace mi abbracciarono appena attraversai la strada, nelle mura intonacate d’amore della casa dei poveri sofferenti pronti a morire. Solo due passi, un mondo contrario all’altro, lontani anni luce. Ho incrociato gli occhi di Teresa, mi passavano una grande speranza. Mi disse: “Ma tu perché sei qua?” ed io le risposi: “Per fare qualcosa anche io per te, per i tuoi poveri!”. 

    Ogni sua parola era pesata e accompagnata dalla solarità dello sguardo. Fu allora che ho percepito in lei i colori della santità: compromettersi ed esporsi fino all’ultimo istante della vita a favore dei prediletti del Maestro, senza badare al colore della pelle, alla razza, alla religione. Mi disse: “Tu fai già tanto, senza il tuo amore, il mio sarebbe vano!”.

    Amo ricordare l’ultimo abbraccio e le parole che mi consegnò quando dopo anni di collaborazione, quasi vergognandomi, le dissi: “Perdonami, sto parlando dei miei piccoli progetti proprio a te che porti avanti opere gigantesche”. “La tua non è una goccia” rispose “e anche se lo fosse è la goccia che rende l’oceano, oceano. Tutto l’oceano per quanto è grande, è importante quanto lo è una sola goccia”.

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     Gennaro Matino: teologo, scrittore, docente di teologia pastorale

  • Op-Eds

    An Agreeable Pope and a Disagreeable Clergy?


    There are those who will certainly say that we have a Pope who speaks clearly, directly and frankly and that this is most certainly a good thing, but it is important to pay attention to the literary style of his speeches and understand if his exhortations are then accordingly accompanied by deliberations.

    I would welcome this prophetic pastoral strategy if the church community were advantaged as a result, even though the puri cation of morals – which the church desires – cannot be achieved simply by a striking sermon. I’m not saying that Francis is wrong and I’m not saying that the Church doesn’t need to reform; in fact I think that a reform of the pastoral structures of governance in the Church is indeed inevitable and entirely necessary for its survival.


    But I question whether a lecturing and an exhortation – albeit provoking – will serve to revolutionize ancient and consolidated practices. The ecclesial world is complex, structured by a thousand joints and well beyond the individual will of single pastoral workers. What further damages the governing structure is the lack of an implemented plan, understood and shared, of its governance.


    The fact that every territory, diocese or parish is placed under the rule of a leader that is both unquestionable and untouchable makes the transparency of acts and the courage for invention di cult. Above all, it is almost impossible to comply with rules when they are entirely devoid of veri cation. Laws that are just, respected and veri ed make structures. Not everything can depend on Canon Law, but those who govern – and this is valid even for the Pope – have the duty to 






    * Gennaro Matino teaches Theology and History of Christianity in Naples. He collaborates extensively with both traditional and new media.


     

  • Opinioni

    Alle radici dell'odio


    LE radici dell'odio cercano significati, inseguono spazi da occupare.



    Dopo gli attentati di Dacca ancora una volta rimaniamo sgomenti di fronte all'ultima inaudita violenza di nuovi interpreti di apocalittiche scritture che giudicano e condannano il mondo. Tutti, ormai, in qualsiasi angolo della terra, ci sentiamo braccati, prigionieri della paura: «Volevamo uccidere gli stranieri dei Paesi crociati a Dacca», un'affermazione che sembrerebbe non lasciare scampo a chi non crede nel Corano, a chi appartiene a una religione, a una cultura e a una civiltà diversa. Un'ulteriore efferata strage che ha riportato in questi giorni all'attenzione le parole di Oriana Fallaci, che nel 2005 spiegava la sua decisione di raccontare il suo diritto all'odio: "Abbiamo paura di non essere sufficientemente allineati, obbedienti, servili, e venire scomunicati attraverso l'esilio morale con cui le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadino. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere rischi, di avere coraggio". 



    Un coraggio che lascia anche all'odio diritto di cittadinanza. E se la Fallaci avesse ragione, se la libertà fosse davvero possibile difenderla solo con la forza dell'odio? La giornalista si sentiva autorizzata a provare avversione mortale per la diversità di un pensiero ritenuto opposto, nemico della libertà. Eppure le radici dell'odio, quel diritto ad odiare il nemico che spingevano la Fallici a vedere nell'Islam un problema da cancellare, sono piantate in un terreno comune trans religioso, trans nazionale, trans storico, purtroppo fecondo, che fa uguali gli uomini a latitudini diverse, radici difficili da estirpare dal cuore di un'umanità che da sempre usa l'odio come arma politica per formare alla "guerra santa" i suoi soldati, i propri martiri. 



    Cosa hanno di diverso questi giovani armati di coltelli o bombe dai guerriglieri di un passato prossimo o dai fanatici estensori della strategia del terrore di casa nostra? È la religione il problema? Forse la vera ragione per cui i jihadisti combattono e che noi facciamo di tutto per ignorare, fasciandoci la testa per non vedere, è la stessa che ha armato in tempi non lontani la mano di alcuni "guerriglieri", terroristi di altrove o liberadores. Forse faremmo bene a ricordare come negli anni sessanta Che Guevara era divenuto un mito dei giovani, non c'era ragazzo che non avesse il suo poster nella propria stanza o il suo volto stampato sulla t shirt. 



    Qualcuno lo paragonò perfino a Cristo per la sua lotta di liberazione dei popoli da un capitalismo che metteva in ginocchio, nella miseria, i suoi fratelli. Le sue parole non erano meno dure di quelle del Califfato: "L'odio come fattore di lotta; l'odio intransigente contro il nemico, che permette all'uomo di superare i suoi limiti naturali e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così: un popolo senza odio non può distruggere un nemico brutale. Bisogna portare la guerra fin dove il nemico la porta: nelle sue case, nei suoi luoghi di divertimento. Renderla totale. Non bisogna lasciargli un minuto di tranquillità farlo sentire come una belva braccata". 



    Parole impressionanti per la loro atroce attualità che inneggiavano all'odio, che alimentavano l'odio, lo giustificavano al punto tale che chi lottava per la propria causa non era ritenuto un terrorista, ma un combattente, un guerrigliero, un riformatore sociale, addirittura un santo che metteva a repentaglio la propria vita in nome della giustizia. Perché non capire che un mito osannato ieri anche se malato può essere perpetrato altrove, con altro linguaggio, con altro nome ma uguale sostanza, da giovani generazioni pronte a sacrificare la propria vita solo se porta in se una valenza rivoluzionaria, un'aspirazione alla giustizia. Non avremmo oggi nessun terrorista se avessimo costruito un mondo più giusto, se avessimo rispettato il diritto dei popoli a costruire la propria storia, a garantire la propria sussistenza, come ieri nel Sud America non ci sarebbe stato nessun "Comandante" senza l'oppressione dei campesinos. 



    Forse se avessimo il coraggio di dire la verità tutta intera capiremmo che le radici dell'odio, ovunque celebrate, infette e generatrici di morte, nascono sovente dal sopruso e dalla violenza subita, capiremmo che non sarà mai possibile aspirare alla pace se non garantendo pace a chi l'ha ormai cancellata dal proprio vocabolario. E forse, anche noi a Napoli, dovremmo cominciare a ragionare in maniera politicamente diversa e capire quanto sia pericoloso usare l'odio per veicolare un'idea. La risposta al terrorismo non può essere odio contro odio, ma la globalizzazione della giustizia, lo spartire pace condividendo lo stesso pane. 

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    Quando la mediocrità è elevata a virtù


    I  tempo di decadenza, la mediocrità è elevata a virtù, i migliori danno fastidio, provocano pensieri, meglio evitarli. "In medio stat virtus", ripetevano gli antichi e così prendendo alla lettera, ma tradendo, il vecchio adagio, la società degli uomini senza qualità eleva a sistema il metodo dell'esclusione dei più capaci, gli scarsi si fanno fuori da soli e i migliori vengono frenati, si demotivano, si espellono per rendere possibile alla "mediocrazia" di assumere il potere ovunque operi. Potere di parole di fumo in realtà che inventano teoremi salvifici senza fondamento, strutture politico istituzionali prese d'assalto da eserciti di incompetenti, perfino il quotidiano vivere è reso opaco da una malata attitudine di accontentarsi di una vita senza sane ambizioni, senza coraggiose visioni. E più la mediocrità avanza, più diventa volgare, più assume forme di integralismo, di gretta chiusura, di intolleranza, di razzismo, di classismo. 




    Più la mediocrità esercita il suo impero e più l'arretratezza culturale si espande, la libertà individuale si restringe, i diritti acquisiti si infrangono, l'economia diabolica si ingrassa, il clero spietato e ignorante tiranneggia. Il moderno populismo, il clericale spiritualismo, il rampantismo raccomandato, il corruttivo economico, l'intellettualismo spocchioso, hanno bisogno della mediocrità per sopravvivere, e i fans del sistema, che li vede protagonisti, altro non chiedono ai loro mentori che iniezioni giornaliere di disistima, di paura della diversità, di preoccupazione per il futuro, di apocalittici scenari di guerra e di distruzione, pur di sentirsi rassicurati nella protetta riserva dei loro falsi convincimenti, dove porre domande di senso è bestemmia, dove la ricerca della verità è puro vaneggiamento. L'attrazione gravitazionale della mediocrità agisce in tutti i campi della vita. Per usare le parole di John Stuart Mill: "La tendenza generale del mondo è quella di fare della mediocrità la potenza dominante dell'umanità". 



    È dei sistemi di potere decadenti originare forme dispotiche di governo, di chiesa, di politica e rafforzarsi nello scegliere come capitale umano, su cui investire, la mediocrità, perché il potere consolidato teme il confronto con l'intelligenza, con la visione, teme di essere battuto sul terreno delle idee. In qualsiasi campo, nel lavoro, in amore, nell'amicizia, nella salute, le soluzioni mediocri hanno sempre la meglio, purché non siano così dannose da distruggere il sistema. Albert Einstein scrive: "I grandi spiriti hanno sempre trovato la violenta opposizione dei mediocri, i quali non sanno capire l'uomo che non accetta i pregiudizi ereditati, ma con onestà e coraggio usa la propria intelligenza". 



    Mediocre può essere perfino una città intera che non vuole uscire dal torpore dei ricordi costruiti ad arte pur accontentarsi di un passato che in verità non è mai stato così glorioso com'è raccontato, mediocre può essere una chiesa che non cerca le vie più adatte per raccontare all'uomo la gioia possibile, il riscatto, la giustizia che le deriva da una verità da condividere, ma che si nasconde dietro merletti sontuosi e colletti sempre più voluminosi, piuttosto che ripensare se stessa, reinventarsi per dire meglio, per fare bene, mediocre può essere una cultura che vende prodotti graditi alla massa piuttosto che elevarsi sopra l'oscenità di pensieri scioccamente popolari, rumorosi, da talk show, senza il coraggio di saper rischiare l'impopolarità pur di conservare la propria autonomia e la vocazione a essere spirito critico di ogni potere. 



    Mediocre la politica del solo consenso che per facile applauso svende la lucida e feconda missione di governare il presente per organizzare futuro, che costringe le intelligenze migliori a scappare altrove, sconfitte dalla banalità aggressiva dei vuoti di mente. Quanto invece sarebbe auspicabile una vera rivoluzione che permettesse anche alla nostra città di uscire dalla tirannia della mediocrità, di rendere onore alla genialità dei migliori, di chiamarli a raccolta come avviene nelle società culturalmente e economicamente più evolute senza altra raccomandazione che il loro genio, la loro esperienza, la loro arte, la loro innata capacità di pensare, di vedere oltre. 



    Il piccolo mondo antico di una città chiusa nelle sue mura dalla presunzione di ciò che non è, dove sempre gli stessi cognomi la fanno da padrone, dove il familismo amorale occupa ogni spazio e soffoca ogni idea di futuro, dove la mediocrità è sistema, sta irrimediabilmente consumandosi, la sua decadenza la pervade giorno dopo giorno. La lotta alla "mediocrazia" qui da noi è fatto etico, politico, religioso che viene prima di ogni altro progetto, è lotta di democrazia, aspirazione di libertà.
     

  • Opinioni

    La Chiesa dica NO a ciò che non è fede e nasconde un non so che di losco e blasfemo


     Tempo d’estate, tempo di sagre, di feste di paese e processioni, il sacro si mischia al profano in quell’antico e sempre attuale bisogno di dare gloria al cielo e un po’ di allegria alla terra non sempre quieta. Processioni, qualcuna un po’ particolare, come quella di qualche giorno fa nei pressi di Nola, abbandonata da preti indignati, o di altre ancora nella stessa settimana, a Corleone, anch’essa con santi a spasso costretti a ballare alle porte dei mafiosi. "È il diavolo che ci mette le corna", si è affretato a dire un vecchio confratello.

    Diavolo, persona o idea, sta per divisore tra giusto e ingiusto, tra verità e menzogna. Divisore, già, ma esisterà il diavolo? Può darsi, la Chiesa ci crede e per questo ci credo anch’io.

    Di sicuro ci credono quelli che con il diavolo ci fanno affari, che da sempre usano le sue corna per intrattenere platee ignoranti, per fregare i poveri fessi che del diavolo hanno paura e sottomettere al proprio potere i loro fanatici adepti. Perfino tra i preti è possibile trovare chi riesce a riempire chiese più con la paura del diavolo e del suo inferno, che con la gioia del paradiso e la verità del vangelo.

    L’esistenza del diavolo, così concepita, conviene al potere corrotto qualsiasi veste indossi, che sia clericale, politico o altro, serve ai catastrofisti di ogni tempo per giustificare il male inevitabile e senza rimedio.

    Serve soprattutto a chi ha bisogno di un escamotage soprannaturale per indebolire le responsabilità personali, per trovare alibi a scelte sbagliate e camuffare la realtà a proprio vantaggio.

    Serve a chi sostiene che esiste il potere del male in lotta con il bene che senza un prodigio, una formula liberatoria è impossibile che vinca.

    È chiaro che la parola liberatoria è nelle mani di santoni, a uso di maghi, fattucchieri, farabutti e furfanti, i quali hanno bisogno del diavolo per il loro ministero o mestiere, per dir si voglia, senza il quale il loro potere è inutile, non vende.

    Esisterà il diavolo? Di sicuro, se esiste, non ha niente a che vedere con questi quattro mediocri mistificatori che trovano facili clienti nei templi dell’ignoranza. Se il diavolo c’è abita altrove.

    Abita nelle responsabilità di chi ha permesso che per troppo tempo, e ora fa fatica a ripristinare il sacro costume, che quelle processioni dei giorni scorsi, e quelle tante ancora che si ripetono senza onore della cronaca, fossero appannaggio di sacrilega marmaglia, più devota al boss della camorra che allo stesso santo che portano a spalle, costretto, suo malgrado, a inchinarsi dinanzi alla cosca e al suo capo.



    Inchino che solo da poco trova contrario qualche ministro di Dio, e solo da poco i vescovi provano a mettervi un freno, ma ancora dura e sacrilegamente nel gesto afferma: “Tutti inchinatevi al santo, anche la chiesa e il santo si inchina al boss, così tutti restate sottomessi alla camorra, anche la chiesa”.

    Il diavolo se esiste non si nasconde solo in quegli “inchini”, ma abita anche nella responsabilità di chi in nome di chi sa quale Dio permette che i defunti in cerca di loculo siano sbranati da fameliche congreghe che, nate per accompagnare alla buona morte e a una degna sepoltura i cristiani, troppo spesso si sono trasformate in associazioni a delinquere, camorra uguale, così che gli estinti diventano cari per il costo esorbitante di tombe, arredi funerari, lumini e luce eterne.

    E come se non bastasse, il caro estinto non è seppellito una volta per sempre ma riesumato e riseppellito “perché è tradizione nostra” a suon di quattrini.

    Il diavolo abita ancora nella falsa spiritualità di chi fa passare per pietà popolare anarchici cortei di questuanti che, in voto alla Madonna, gridano la loro fede, sia pure sincera, riempiendo di colore strade e quartieri, nascondendo più di una volta un non so che di losco e blasfemo. Preghiere poco, affari tanti, brodo di coltura per futuri affiliati di quella stessa camorra.

    Il diavolo abita anche nelle statue di San Pio da Pietralcina messe a mo’ di “palo’ sempre dalla camorra alle porte del rione non per conservare voti ma armi, forse cocaina, e poco importa se uccide altre vite, l’importante è che il santo sia dalla parte giusta a fare il suo dovere. Potrei continuare ma mi fermo per spazio e per decenza. Il diavolo per lo meno in tutti questi casi ha un indirizzo e non sarà difficile dargli un nome.

    Censure, condanne, scomuniche alla camorra non servono,

     

     nulla dicono a chi ha fatto il patto con il diavolo, la Chiesa volti pagina e dica basta a ciò che non è fede, non pensi di voler “purificare” a suo vantaggio anche l’inferno, cancelli definitivamente dal suo vocabolario “superstizione”, “simonia”, “idolatria” e per incanto le “corna del diavolo” non saranno più né un alibi, né un problema.

  • Opinioni

    Perchè Napoli non sia più un'eterna occasione persa.





    FORSE bisogna esagerare, rischiare l’antipatia, ma chi è nato in questa città e l’ha amata teneramente dal primo giorno, e ancora resiste nell’amarla, non può restare che indignato ascoltando parole di fumo che avanzano senza umiltà, senza verità nel descriverla come la più bella, la più umana, la più generosa. Forse lo è stata ma di sicuro non lo è adesso, non dappertutto.



    È un bene che chi si appresta a governarla per i prossimi cinque anni ne faccia nota: la verità rende liberi e solo la libertà di un giudizio vero potrà segnare il confine tra una Napoli rassegnata a perdere, e una città che umilmente, lentamente ma progressivamente, vuole partorire speranza di rinnovamento, combattendo il suo degrado e la sua crescente volgarità.

    Piangerci addosso è diventato lo sport più praticato per sfuggire alla responsabilità e al dovere di far fronte all’impegno personale e pubblico che chiama ciascuno a dare il proprio contributo per la rinascita della città, nel volerla forse meno bella ma di sicuro più normale, pronta a dare spazio nelle sue mura al rispetto delle regole comuni.



    Una città dove ognuno sa e deve con forza riconoscere che la mentalità camorristica delinque oltre la mattanza dei malavitosi nei pensieri e nelle abitudini di sopraffazione quotidiana di tanti, di troppi napoletani.



    Una città che sappia andare oltre il sopruso del patetico e arrogante paternalismo che giustifica ogni illegalità “perché pure bisogna campare”, dove la tolleranza zero contro ogni delitto o malaffare diventi il pane quotidiano di un’amministrazione mai collusa con il “popolo” ma politicamente e coraggiosamente votata a contrastarne la volgarità, a purificarla, forte di una proposta culturale alta, riconosciuta, visionaria.



     
    È ridicolo cercare sempre altrove le responsabilità dei nostri fallimenti, è diventato perfino patetico il tentativo di sfuggire alla lettura e all’interpretazione dell’evidenza dei fatti come disegno di discredito orchestrato da chi sa quale mente gelosa del nostro benessere, delle nostri doti, della nostra grandezza. Gelosi altrove che altro non trovano come piacere di parlare male delle nostre avventure.



    Così capita che se si proietta “Gomorra” ci affrettiamo a dire che Saviano è un criminale e non la camorra che quotidianamente offende il nostro onore, e se in onda arrivano le “Lucky Ladies”, spaccato di una Napoli borghese, che altra volgarità potrebbe partorire, ci nascondiamo dietro parole di circostanza e preferiamo glissare. E potremmo continuare con la processione dell’accanimento dei cattivi contro la napoletanità, citando per esempio i banchetti sponsali del “Boss delle Cerimonie” che certo per poter produrre la fiction ha cercato tutte comparse che hanno recitato una parte ben lontana dai loro costumi.

    Certo Napoli non è solo questa, ci mancherebbe, ma è anche questa. Continuiamo a lamentarci di essere trattati male, ma di sicuro da noi è facile trovare materia “volgare” su cui lavorare e negarlo è da bugiardi.



    Matilde Serao non ha avuto paura di raccontare la Napoli dei lazzari e, benché amasse la sua terra, il “Ventre di Napoli” non fa sconti a una verità di denuncia e a una invocazione di conversione di costumi politici e culturali, la sola capace di permettere a Napoli di poter uscire dalla sua decadenza. Curzio Malaparte nella “Pelle” non ha avuto vergogna di mettere a nudo un popolo che stava perdendo il suo vigore morale prostituendosi agli “alleati” non solo per fame, ma per attitudine al crimine.




    In “Napoli Milionaria”, straordinario affresco di una città segnata dal passaggio dalla dignità alla volgarità, Eduardo punta l’indice contro la corsa a un benessere economico sognato come unico riscatto, ottenuto con qualsiasi mezzo, come forza di ogni rivalsa, responsabile dell’affondamento di tutta la storia di compassione che era la ricchezza di un popolo.

    Senza una rivoluzione culturale indignarsi per le offese è patetico e Napoli continuerà a essere autoreferenziale, ipocritamente vanitosa, ripiegata su stessa, in cerca di colpevoli altrove.

    Napoli ha bisogno di una prassi politica che si innalzi al di sopra delle miserie di comportamenti di basso profilo, ha bisogno di lungimiranza, di ambizione, di un nuovo linguaggio che sia attesa di riscatto e pretenda rispetto.



    Chiunque ne sarà il sindaco si troverà a dover affrontare un’impresa impari che va ben oltre la penuria di mezzi economici, ben oltre la sostanza di una organizzazione della macchina comunale che comunque è indispensabile. Dovrà reinventare l’anima di una città iniziando dalla verità delle sue ferite. E non potrà farlo da solo o con la sua parte.



    Le forze sane ci sono, chi soffre e ama Napoli ancora è rintracciabile. Potrebbe essere l’ultima occasione per non rassegnarci a una Napoli eterna occasione persa.

     

  • Opinioni

    Un Papa simpatico e un clero antipatico?


    Il Papa parla, i giornali riportano a titoli cubitali delle sue frasi forti, a volte decontestualizzandole, e i preti e la Chiesa ogni giorno finiscono sotto processo, con l'effetto di ritrovarsi di fronte all'opinione pubblica un Papa simpatico e un clero antipatico. 




    Qualcuno dirà che finalmente abbiamo un Papa che parla chiaro, diretto e franco ed è certo una cosa buona, ma bisogna stare attenti al genere letterario dei suoi interventi e comprendere se l'esortativo è poi accompagnato successivamente dal deliberativo. 



    Sarà anche questa profetica strategia pastorale e che ben venga se il bene della comunità ecclesiale ne verrà di conseguenza anche se la purificazione dei costumi che si chiede alla Chiesa non potrà essere conseguita da una bella predica. Non dico che Francesco abbia torto e non dico che la Chiesa non abbia bisogno di riforma, anzi, penso che proprio una riforma delle strutture pastorali di governo nella Chiesa siano ineludibili e quanto mai necessarie per la sua sopravvivenza, ma mi chiedo se una ramanzina, una esortazione benché provocatoria servano a rivoluzionare prassi antiche e consolidate.



    Il mondo ecclesiale è complesso, strutturato in mille articolazioni e al di là della volontà individuale dei singoli operatori pastorali ciò che nuoce di più al governo della struttura è la mancanza di un progetto attuativo, compreso e condiviso, del suo governo. Il fatto che ogni territorio, diocesi o parrocchia che sia, è posto sotto il governo di un capo solo insindacabile e intoccabile, rende difficile la trasparenza degli atti e il coraggio dell'invenzione. Soprattutto rende quasi impossibile l'osservanza delle regole quando manca del tutto la loro verifica.



    Sono le leggi giuste, osservate e verificate che fanno le strutture. Non tutto può dipendere dal Diritto Canonico ma chi governa, e vale anche per il Papa, ha il dovere di dare indicazioni attuative, progetti rigorosamente strutturati, percorsi pastorali chiari e definiti. 



    Non sto qui ad elencare tutte le frasi di Francesco passate come volontà rivoluzionaria di cambiare la Chiesa, sul divorzio e il matrimonio, sulla famiglia, sugli omosessuali, sulla politica, sul ruolo delle donne e dei laici nella chiesa, ultimo sulla povertà dei preti e sulla necessità di purificazione della Chiesa dalle ricchezze. A ben vedere i grandi temi trattati dal Papa nelle sue lettere apostoliche certamente hanno scosso il mondo laico e quello ecclesiale, quantomeno nel linguaggio usato. Ma a troppo andare il rischio è che le sole frasi, le buone intenzioni lasciate alla libera attuazione-interpretazione dei vescovi, a cui sarebbe demandata la loro definizione sui territori di loro competenza, senza una costruzione strutturale, senza una definizione giuridica, senza una decretazione ultima finiscano per essere titoli da giornali. Ancor di più quando le leggi già esistono, i decreti attuativi già ci sono e non vengono rispettati.



    Penso a quanto abbia deciso il Concilio Vaticano II rispetto alla immagine di Chiesa, penso ai consigli pastorali diocesani e parrocchiali e a quelli per gli affari economici che avrebbero potuto cambiare il volto delle diocesi e delle parrocchie. Bastava verificare se funzionassero, se esistessero, se avessero bilanci trasparenti delle attività apostoliche e anche amministrative economiche. La legge c'è, ma il Vaticano controlla i bilanci delle diocesi? Controlla le loro spese? E le curie si fanno carico di accompagnare i parroci nella gestione dei beni? E poi chi controlla i controllori? Gran parte dei figli della Chiesa, degli evangelizzatori e operatori pastorali, ancora vive con grande slancio emotivo il carisma dell'invio, della missione, per questo penso sia troppo semplice prendersela con i preti se la Chiesa non funziona, che certo hanno le loro responsabilità, anche se a me pare che se dovessero scomparire i preti e le parrocchie sparse sul territorio nazionale, le mille articolazioni della carità pastorale, il servizio incessante di aiuto agli ultimi, lo stato di assistenza sociale in Italia e ancor di più a Napoli sarebbe al collasso. 



    Tuttavia dobbiamo riconoscere che la necessità di una riforma strutturale, che renda l'istituzione ecclesiastica più libera, così come auspicata dal Concilio Vaticano II, ancora fa fatica a emergere. Ma la responsabilità non è primariamente della base. La Chiesa è per sua natura gerarchica e ha leggi che debbono essere osservate, rispettate e se non le avesse ha il compito e il dovere, per il bene dei fedeli e per fedeltà al Vangelo, di darsele per il miglior funzionamento della sua struttura. Compito di chi governa è consigliare, accompagnare, redarguire, correggere ma poi deve decidere, decretare e verificare che quello che ha decretato vada a buon fine senza poi lasciare alla buona volontà dei singoli il compito e il dovere di decidere da soli e da soli perdersi nel bene e nel male di tutte le responsabilità.

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