Per la Chiesa, per le sue Caritas. Occorre prima di tutto autocritica
La cultura contemporanea è specchio di un mondo dilaniato da nuove emergenze, nuovi conflitti e nuove povertà, dalle contraddizioni del potere economico, dalla logica del possesso che determina la cultura della morte che a volte si manifesta come bullismo, violenza, volgarità, come abbandono degli anziani ed emarginazione dei più deboli.
L’ultimo dossier della Caritas Italiana: “Povertà plurali, nell’orizzonte della ripresa economica” è una drammatica ma realistica cartina di tornasole del disagio del vivere quotidiano che soprattutto i giovani del Sud provano sulla propria pelle. Non solo disoccupazione, che certo resta il dato più allarmante per una popolazione giovanile descritta senza speranza, ma di una progressiva e inarrestabile perdita di futuro che indebolisce la struttura stessa dello Stato.
La rassegnazione alla propria condizione di limite porta giovani e non a cercare rifugio in mense e dormitori. Spesso la strada, e solo la strada, resta l’ultima frontiera di chi non ha neppure più un tetto sotto cui vivere. Un lavoro straordinario quelle delle Caritas sparse sul territorio nazionale che, insieme alle mille articolazione del volontariato, fungono da azione di supplenza alla mancanza di un progetto visionario di giustizia sociale dell’Italia e dell’Europa stessa, quasi a dichiarare la rassegnazione di fronte all’inganno dell’economia post capitalistica e finanziaria capace di dividere più che affratellare.
Tuttavia, proprio il dossier della Caritas, che senza timore analizza lo stato presente della povertà e descrive la divisione malata tra chi ha tanto e chi nulla, manca di una parte importante e decisiva per la credibilità stessa di tutto il testo. Manca, infatti, di una lettura critica delle strutture di assistenza della stessa Caritas che dovrebbe chiedersi se esistano o meno anche sue responsabilità per non essersi data un piano organico di intervento sulla povertà.
Dovrebbe interrogarsi sul perché non si è escogitato un processo unitario di liberazione degli oppressi, lasciando all’iniziativa di singoli soggetti locali, improvvisati, emotivi, la fatica degli interventi caritativi; perché sono stati permessi, anche con l’uso dell’otto per mille, finanziamenti a pioggia, senza la dovuta verifica successiva e il controllo meticoloso delle spese. Bisognerebbe capire perché siamo pronti a rispondere all’emergenza, quando lo siamo, e non invece a saperla superare, con strategie di inclusione, quantomeno in una campionatura apprezzabile, di quei soggetti svantaggiati che a noi si rivolgono.
Domande che potrebbero provocare oltre e chiedersi ancora se il volontariato in carico alle Caritas, formato dalla comunità ecclesiale, sia primariamente volontariato puro o se invece, in assenza di lavoro, sia stato trasformato in nuova modalità occupazionale, ricercata da tanti disoccupati con competenza o meno, consentendo a cooperative, o giù di lì, di darsi una ragione sociale solo a scopo di sbarcare il lunario, anzi nate proprio con lo scopo primario di intercettare risorse necessarie alla propria sussistenza, più che per la liberazione degli oppressi.
Senza parlare di quel sottobosco di faccendieri collaterali ad associazioni, sigle, enti che senza storia pregressa, senza esperienza sul campo, vengono create ad acta quando si tratta di accedere a finanziamenti pubblici, ottenuti più che per la loro competenza e per l’affidabilità dei progetti che dovrebbero essere accompagnati dall’idealità di servizio, per l’antico costume del clientelismo partitico che cerca consensi e benedizioni clericali.
Per la Chiesa, per le sue Caritas, per chi meglio dovrebbe gestire l’otto per mille a favore degli ultimi, non è solo problema di gestione di mezzi e di rispetto delle procedure, è questione di Vangelo, del suo ruolo nel destino della nostra terra, a Napoli come altrove. Ci sono decine di migliaia di parrocchie sparse sul territorio italiano, in media una parrocchia per ogni mille abitanti, ordini e istituti religiosi, scuole, giornali, televisioni, radio, siti ed editoria, centri culturali e informativi, opere pie e strutture di carità e assistenza, una presenza impressionante di strutture ecclesiastiche nel tessuto territoriale di una nazione che tuttavia sembra non riesca a dare soddisfazione al suo primo scopo: comunicare la fede con la testimonianza della carità, vivere la carità, sempre.
Di bene se ne fa tanto, ma tanto se ne farebbe ancora di più e meglio se, di fronte all’aggressività di un potere finanziario che spesso contagia e contamina anche il mondo ecclesiale, le Caritas e il volontariato, si avesse il coraggio di resettare strutture, di correggere meccanismi perversi che al capitale umano preferiscono il capitale economico.
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