Articles by: Letizia Airos soria

  • Amara Laukhous. Nessuno scontro di civiltà. Gli immigrati musulmani mediatori


    Amara Laukhous ha presentato a New York la traduzione in inglese di "Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio". Si tratta di un monologo a più voci (ogni capitolo è narrato in prima persona da uno dei personaggi) che fornisce al lettore una nuova prospettiva su Roma, una metropoli che ancora tenta di metabolizzare ed adattarsi ad una crescente multirazzialità.

     

    Ci siamo fermati con lui per uno scambio di idee, più che per un'intervista, convinti che il suo romanzo e la sua esperienza personale di immigrato possano scuotere anche la realtà americana. Negli occhi lo sguardo profondo dei suoi conterranei, nei suoi modi una grande grinta ma anche pacatezza. Amara, che vive in Italia da tredici anni, ci dice quasi subito con orgoglio: «Ho la cittadinanza italiana da quattro mesi e mi definisco italo-algerino».



    «E' la prima volta che vengo a New York. E' la più grande città che abbia mai visto. Algeri è un quartiere in confronto. La mia vita a piazza Vittorio, sotto certi aspetti, era simile che a quella che facevo nel mio Paese. Ma lì ho anche trovato quello che io definisco il laboratorio culturale e sociale del mondo del futuro. E si può dire che New York è il futuro del mondo. A New York ci si perde nelle culture, nelle strade, nella storia. Questa posto è un'anticipazione di quello che potrebbe diventare l'Italia tra qualche anno».



    E raccontando le sue passeggiate per Manhattan: «Quando uno come me cammina per le strade italiane si sente in una condizione di minoranza, instabile. C'è un rapporto delicato, difficile e a volte ostile con quello che hai intorno. Qui, almeno in apparenza, non ho provato questa sensazione. Mi sono sentito subito alla pari».



    Ma per lui l'Italia è anche luogo di libertà, luogo che lo ha accolto e salvato: «Io sono scappato, come scappavano gli antifascisti dall'Italia, e ho trovato una grande possibilità di continuare a vivere e fare le cose che mi piacevano. Mi sono iscritto all'università. Ho imparato l'italiano e grazie all'Italia sono riuscito a ricostruire lo strappo con l'Algeria».



    Il rapporto con la lingua italiana per Laukhos è fondamentale. «Si conquista la libertà attraverso una lingua. E' un potere. Vuol dire dotarsi di mezzo potente per sopravviere e vivere meglio e farsi valere come persona. Se vogliamo forzare un detto: dimmi come parli e ti dirò chi sei. Il modo di parlare offre uno status. Non è un mezzo come sono gli occhiali, è un modo di guardare. Pensi la lingua, ci entri in confidenza e così accogli l'anima di un popolo, conquisti una parte dell'identità di una cultura. Poi cambia il rapporto con la tua lingua madre, il modo di parlare, di pensare. E la cosa bella è che anche tu cambi la lingua che acquisisci».



    Parla con grande semplicità della sua storia, del rapporto con il suoi conterranei, si sente in ogni parola, virgola, accento, l'intensità di un vissuto in prima persona che rende impossibile qualsiasi retorica.

    «Oggi nel mondo arabo c'è una crisi profonda, il fondamentalismo è sfociato nel terrorismo. Anche se Paesi come l'Algeria hanno subito per anni attentati e stragi, si è cominciato a parlare di terrorismo a livello globale solo dopo l'11 settembre.

    Ora nei paesi arabi viviamo una contraddizione massacrante, i regimi corrotti fanno fuori le voci che possono dare una vera alternativa con un'opposizione intellettuale.

    Come facciamo a riformare e democratizzare il mondo arabo? Io credo che gli immigrati abbiano una grande opportunità. Quella di vivere la democrazia nella vita quotidiana, di vivere l'Islam come dimensione spirituale e non politica. Di vivere la religione come dimensione privata e produrre un modello.



    Oggi viviamo nella globalizzazione, comunichiamo gratis con i parenti lontani. Via Skype per esempio io parlo con mia madre. I regimi non possono praticare la censura a lungo. Io sono ottimista. L'Europa è poi vicina al mondo arabo, ha rapporti e memorie in comune. Gli immigrati musulmani possono diventare elementi di mediazione e democratizzazione».



    Nel titolo del suo romanzo il riferimento allo scontro di civiltà, teorizzato da Samuel Huntington, è volutamente ironico: «E' una definizione che ha fatto male. Ancora di più perchè amplificata dai media. Huntington ha soprattutto una responsabilità, quella della scelta del titolo. Civiltà che si scontrano? Uno sbaglio. Se vogliamo dire che civiltà è cultura, è poesia, allora io non ho mai sentito parlare di uno scontro tra poeti italiani e libanesi. Gli scontri sono sul petrolio, per il potere... Le civiltà non si scontrano. Nessuna civiltà è nata dal nulla, ha preso da quella precedente e ha dato a quella successiva. La teoria di scontro delle civiltà, dopo l'11 settembre, è diventata davvero una ricetta gastronomica. Nel senso che è semplice. Con ingredienti apparentemente chiari. Si da per scontato l'esistenza di due blocchi definiti, da una parte l'Occidente e da una parte il mondo musulmano. E' un errore, il mondo musulmano non è un blocco unico e l'Occidente non è un blocco unico. Tra Stati Uniti e Europa ci sono delle differenze. Tra Italia e Olanda ci sono differenze. In Spagna ci sono i matrimoni gay, in Olanda l'eutanasia... Lo stesso vale per il mondo musulmano, arabo, ci sono differenze grandissime. Con il mio romanzo ho cercato di far capire che lo "scontro di civiltà" è un pretesto per giustificare scelte politiche ed economiche».



    Dice di aver scelto di non parlare mai direttamente di politica nei suoi romanzi, ma tra le pagine del suo libro è evidente la consapevolezza della forza sociale che può avere la letteratura. Gli ricordiamo la potenza di Gomorra, del romanzo di Saviano, efficace per combattere/impaurire la camorra più di ogni altro mezzo.



    «La letteratura è potente perchè passa dall'astratto al concreto. Il pregio di Saviano è di raccontare storie di persone reali, uno quando legge non può rimanere indifferente, deve prendere posizione. O si identifica in alcuni personaggi o prende le distanze. Cosi leggendo Gomorra un lettore onesto non può non rifiutare il "sistema". Non può che avere ripugnanza, disgusto. La letteratura ha questa forza: non ti lascia indifferente».



    E non si può non parlare con lui del difficile rapporto che gli italiani continuano ad avere con la loro storia di immigrazione...

    «Il rapporto con la memoria è delicato. Perchè quando noi cerchiamo di ricordare il passato, viviamo due difficoltà. Se ciò che abbiamo vissuto è negativo, ricordare vuol dire riviverlo, se è positivo, diventa un rimpianto ed è comunque tristezza.



    E' un grosso problema. Non c‘è una via d'uscita, dobbiamo guardare questa memoria in faccia e assumerci delle responsabilità, mettendo anche in conto di soffrire. Ecco perchè uso la metafora del "giardino della memoria". Un giardino se lo hai, lo devi curare



    Ha bisogno di acqua, di togliere le erbacce. Se noi non curiamo la memoria rischiamo di trovarci con una discarica. Gli italiani sono stati emigrati, hanno prodotto tante cose positive, basti pensare alle rimesse.... Poi hanno fatto studiare i loro figli, sono diventati importanti, si sono aperti al mondo, ma ci sono anche cose negative come la mafia ad esempio, come il ricordo di una grande povertà... Mi ha colpito una signora che ho conosciuto qui: mi ha detto che fino a qualche anno fa non voleva sentirsi attribuire la definizione di italo-americana...».



    Amara Lakhous sta lavorando ad un nuovo romanzo: «Lo sto facendo direttamente in italiano. ‘Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio' l'avevo prima scritto in arabo, per poi riscriverlo in italiano. Anche questa storia è ambientata nell'Italia di oggi, ma fa riferimento all'esperienza di immigrazione italiana all'estero e all'interno dell'Italia...».



    Presto uscirà anche un film tratto dal suo libro: «Non ho partecipato alla sceneggiatura. Non mi hanno coinvolto come avrei voluto. E' diverso dalla storia del mio romanzo, ci sono due personaggi nuovi. Ma il cinema è una cosa, la letteratura un'altra. Il messaggio del mio romanzo passerà anche così».

     

    ****

    Amara Lakhous è nato ad Algeri nel 1970, vive a Roma dal 1995. È laureato in filosofia all’Università di Algeri e in antropologia culturale alla Sapienza di Roma. Attualmente lavora come giornalista professionista all’agenzia di stampa Adnkronos International a Roma. Il suo primo romanzo, Le cimici e il pirata, risale al 1999.

    "Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio" è stato pubblicato in Italia nel 1996.
    Il libro è un monologo a più voci (ogni capitolo è narrato in prima persona da uno dei personaggi) che fornisce al lettore una nuova prospettiva su Roma, una metropoli che ancora tenta di metabolizzare ed adattarsi ad una crescente multirazzialità. Tensioni, miserie, diffidenze reciproche, ma anche tenerezza e solidarietà diventano i colori di questo originale affresco di una realtà in continua evoluzione. Un mix tra giallo, analisi sociale e commedia all'italiana, Scontro che ci regala la preziosa possibilità di guardarci attraverso gli occhi di uno straniero.

    (Articolo pubblicato su Oggi7)

  • Così ricordo Rocco Caporale



    Mi aveva “inviata” America Oggi per vedere e raccontare cosa stava facendo questo professore emerito della St. John’s University. Ero scettica, cosa avrebbe mai potuto fare un sociologo in pensione da anni con quei dati cosi difficili da interpretare e soprattutto da organizzare? Ma dopo il sorriso accogliente, l’altra cosa che ho subito colto nel volto di Rocco fu un’ironia saggia che dava il giusto peso a tutto. Inclusa l’analisi delle statistiche elettorali che voleva raccontarmi. Un lavoro serissimo, ma che andava preso con la dovuta distanza e prudenza. Il rigore del sociologo camminava di pari passo alle esperienze vissute nella sua vita. Ma questo allora ancora non lo sapevo.

     

    E ricordo quando sono entrata nel suo studio con la luce che filtrava dalla finestra e che lasciava intravedere in lontananza, tra i tetti, il fiume Hudson. Ma il fiume in piena era il Professor Caporale, parlava e non sapeva dove andare a fermare le parole. Mi raccontava cercando di darmi tutte le informazioni possibili. Si capiva fin dall’inzio che aveva una dote importante, ma ancora rara per un professore: la capacità di semplificare. E spiegava cercando un dialogo, chiedendo consigli, senza mettersi in cattedra. “Letizia”, impossibile non darsi quasi subito del tu con questo eterno giovane, “cosa ne pensi tu? Come posso rendere evidenti le ipotesi del mio studio? Qui ci vuole il giornalista che affianchi lo studioso!”. Ma il mio stupore crebbe quando lui accese il computer e cominciò a lavorare dentro a database elettronici che per chiunque alla sua età (ma non solo!) sarebbero stati proprio difficili. Da quel momento cominciai ad appassionarmi al progetto di Rocco. Scegliemmo insieme gli strumenti per rendere comprensibili i dati. ... Grafico “a torta”? No? ... Istogramma? Meglio? ...

     

    E’ cominciata così la mia amicizia con Rocco Caporale, parlando di dati elettorali e poi piano piano di tematiche legate all’immigrazione, alla comunità. Devo a lui diversi spunti sugli italiani negli USA e su tante altre cose. Le conoscenze di Rocco su infinite sfaccettature della realtà nel Mezzoggiorno italiano nel corso degli ultimi decenni, ad esempio, erano un vero patrimonio prezioso per me.

     

    Era orgoglioso di essere meridionale ed italiano, ma senza facili patriottismi. Altro elemento raro in persone della sua età, soprattutto qui negli USA. Era in grado di rivelare chiaramente e senza peli sulla lingua tutte le problematiche che spesso altri nascondevano per paura “di far brutta figura”. E non si limitava solo a raccoltarle, faceva proposte concrete.

     

    Per certi versi Rocco è stato un personaggio scomodo. Ne sanno qualcosa in Irpinia. La sua ricerca sulla ricostruzione dopo il terremoto del 1980, condotta attraverso Institute for Italian-American Studies (INIAS) che lui stesso aveva fondato infastidì più di un uomo politico campano. Nel 1990 l’eco dei suoi studi, finanziati da un grant della National Science Foundation e dell'IRI, giunse ad alti liveli istituzionali e il professore fu invitato a tenere una audizione presso la Commissione parlamentare d'inchiesta sulla ricostruzione post-terremoto. I risultati della ricerca contribuirono alla caduta del governo De Mita, raccontava Rocco con un po’ d’orgoglio. E diceva sorridendo che Mastella lo attaccò durante una trasmissione televisiva di Michele Santoro. Caporale era diventato, per alcuni politici della Prima Repubblica, il “professore venuto dall'America” a lavare i loro panni in pubblico.

     

    Torniamo ai miei ricordi. Alla sorprendente dimestichezza di Rocco Caporale con l’informatica. Al quel suo tempestivo rispondere alla email, alle telefonate su Skype, ancora prima che questo strumento si diffondesse. Sempre presente nei momenti iportanti per la comunità, lo ricordo intervenire in diversi dibattiti pubblici, a volte con fare punzecchiante, ma sempre costruttivo.

     

    Ma la mia memoria di Rocco rimane molto legata ad Internet, alle nostre infinite email, e a quella casa nell’Upper East Side. Casa dove ho conosciuto la moglie Taina, nota ballerina finlandese, e dove Rocco si è fatto apprezzare anche come abile cuoco. Non faceva solo un ottimo caffè. Tra un ragù napoletano un giorno, e un’ottima aragosta un altro, piano piano mi ha dato consigli, suggerimenti, momenti di affetto disinteressato. Si divertiva a parlare di politica con mio marito, professore di Scienza Politica. Il vecchio sociologo ed il giovane politologo si confrontavano. Rocco a volte sembrava parlare con leggerezza, ma nei suoi scherzi c’era più verità di quanto si immaginasse.

     

    E sempre ricordando, mi colpisce ora come fosse sicuramente più preoccupato lui della mia salute che io della sua: “Letizia, tu lavori troppo! Ti devi riposare…”

     

    Sereno, saggio, in grado di prendersi in giro, un pò meridionalmente superstizioso, pieno di amici, ma anche senza paura di farsi nemici. Innamoratissimo di sua moglie e della sua famiglia. Questo è il ricordo che ho io di Rocco. Il ricordo, certo, di una persona che lo ha conosciuto negli ultimi anni della sua vita, e che del suo passato conosce solo i suoi racconti filtrati dalla memoria.

     

    C’è una persona che invece lo ha incontrato da tanto, addirittura quando era una sua studentessa all’univeristà, e che lo ha accompagnato anche nei suoi ultimi studi. Parlo di Mary Ann Re, fino a qualte tempo fa Direttore Esecutivo della New Jersey Italian and Italian American Heritage Commission. A lei, ad un nostro recente colloquio, affido un’altra parte di questo mio ricordo.

     

    Mary Ann racconta un aneddoto di cui lei stessa è venuta a conoscenza solo dopo la morte di suo padre, il compianto giudice Re. Una volta il giudice, senza aver mai conosciuto Rocco Caporale, lo chiamò al telefono e gli disse: “Mi ha portato via mia figlia!”. Mary Ann infatti era rimasta così affascinata da una lezione di Rocco, durante la presentazione del semestre di sociologia alla St. John's University, che decise di cambiare il suo percorso di studi per seguirlo.

     

    L’amicizia tra Rocco e la famiglia Re si intesificò negli anni: “Quando stava morendo, l’unica persona non di famiglia che mio padre voleva vedere, e con cui riusciva a sorridere, era Rocco!” mi racconta ancora Mary Ann. E poi ancora: “Era un intellettuale integro, curioso, legato ai dati, era generoso, passionale e odiava pontificare. Lavorava a diversi livelli. Non guardava ai titoli, all’età dei suoi collaboratori, ma a quello che realizzavano. Era in grado di semplificare in tre frasi un intero capitolo.”

     

    E ricorda gli ultimi momenti di lavoro insieme al suo professore lo scorso anno. In Canada per una ricerca sui campani e una conferenza, lo scorso novembre a Boston, sui siciliani nel Tri-State. “Lavorava come camminava. Piccoli passi veloci. Era il più giovane ottantenne che abbia mai conosciuto, un grande compagno di lavoro ed amico. Mi chiamava Mariannedduzza, nessun altro lo farà mai più. Sullo speed dial del mio cellulare, dopo quelli della mia famiglia, c’era il numero di Rocco”.

     

    Due storie a confronto con la vita di Rocco. Quella mia e quella di Mary Ann, vicine e lontane. Entrambe putroppo sappiamo che quel caffè in cucina non ci attende più.

     

    (Pubblicato su Oggi7 il 6 luglio 2008)

     

     

  • Life & People

    The Language of Ugo, Alexander & Sam


    An evening with Alexander Stille and his son Sam can turn into an important and endearing reflection on the relationship between father and son and its infinite nuances. The son of the great and unforgettable journalist Ugo Stille (born Mikhail Kamenetzky), an Italian-American with Russian origins, recounts memories of his relationship with his father and their link to the Italian language.

    Alexander, himself a famous writer, journalist and professor at Columbia University, opens himself up with emotion recalling some specific, and at times difficult memories.



    “Our father never taught us or spoke to us in Italian,” he begins. Aware of the surprise that this statement could provoke, he adds, “I know, it sounds weird. He had a job that was focused on the relationship with Italy, in 50 years he wrote thousands of articles in Italian and no one in his family was able to read them…”



    The air is full of emotion but it is eased by Sam Stille, three and a half yeas old, asking his dad what the carrots he is eating are called, and if they speak Italian or English. The lovely boy will not stop attracting my attention for the entire evening trying to speak in Italian, with a few sentences and some songs that I hadn’t heard in a long time – like “ma che bel castello, marcondino-dirondella… San Martino campanaro, suoni tu … suoni tu”.



    While Alexander speaks, I try and follow the memory and create an imaginary line that unites the three Stilles. Generational passages are the foundations of our lives. His tale unfolds as he tells the story of his father, forced to emigrate first from Russia, due to anti-Semitism, and then from Italy for the same reasons, when the Fascist regime enacted the racial laws in 1938. The past enters the room we are in, amongst the books, magazines, toys, knick-knacks, the Jewish chalice placed in a corner and a backpack full of papers laying on the floor. The past touches the present, the year 2008.

    From the window you can see the north end of Manhattan and Broadway splitting into two. In 1941 the Kamenetzkys headed for the United States and that must have been the year Ugo Stille decided to never look back. But his son was able to change his mind, with his passion for learning a language and a culture.



    “Yes, I studied Italian on my own, in different phases. When I was 17 I was lucky enough to do it in school, and then I went to Italy for a while on vacation. I was in London, a relationship had just ended, and so I called my dad and said: I want to go to Italy, where should I go? I was taken in by an American woman and I found myself in an Italian and Anglo-Saxon environment that I found very beneficial…”

    Alexander Stille’s relationship with Italy continues to grow more intense. After the ‘escape’ he returns to the United States and finishes his studies, but decides to study Italian more in depth thanks in part to an aunt who also spoke the language. He returns to Italy looking for work, willing to do anything to be able to speak Italian in everyday life. From this moment on it is a crescendo thanks to school, work and a professional career.



    “I started reading my father’s articles… I think he was happy. Even if he never actually told me – I had the distinct feeling that he was perplexed but pleased. I started to understand a lot more about his world. But he wanted it to be my decision, he never did anything to facilitate this reconciliation. And my sister doesn’t speak Italian.”

    I try to understand why. Alexander is working on the story of his family and this is in part for him a very delicate reconstruction process

    .

    It was the forties and Ugo Stille, like many other Italians who emigrated to the United States, decided to speak only English, abandoning the Italian language in order to fully integrate himself into American culture:

    “Maybe in his story there are some affinities with the Italian-American Diaspora. But his journey was different. An Italian-American friend of mine told me that when she asked her grandmother: ‘where do we come from?’ She would answer, ‘we come from poverty, forget it.’” For Alexander Stille’s father it was another kind of poverty. The one tied to the absence of humanity. “My father was middle class, deeply tied to Italy, but he had to leave because he wasn’t welcome. He had grown up as an Italian child, but wasn’t considered one.” Ugo Stille had a deep bond with the country, and after the tragedy of having to leave it “he chose to never look back, to marry an American, to never speak Italian with his children.”



    And so, one of the most important figures in Italian journalism acquires Italian citizenship only when he needs to in order to become editor-in-chief of Corriere della Sera. “I think that my efforts to learn Italian helped him make peace with Italy. I tried to enter his world.”

    And Sam? During our adult conversation Sam has promoted me to Italian sister. In a few hours he has told me all the Italian words he knows and has asked me to translate others. “With him I try, as much as possible, to speak Italian sometimes. He listens to Italian CDs for kids, he has some books. I often take him to see people who speak Italian. But I think he also needs a full immersion. This summer we’re going to Italy and I’ll enroll him in an Italian kindergarten. Next year we will stay in Italy for six months. I think it will be important for him. When he comes back he will definitely have a base.”



    And who knows what it will mean for Sam, when he’s older, to read his grandfather’s columns in Italian. His grandfather who would never have imagined that it would be through that language – the one that he didn’t want to pass on to his son Alexander – that he would be able to reach his grandson, his grandson Sam.

    ___

    From Talking Italy. A special 12-pages print issue dedicated to Italy’s culture and language.

  • Life & People

    NOIAW Celebrates Italian Family


    Last Sunday, in honor of its 28th anniversary, the National Organization of Italian American Women (NOIAW) celebrated family with a luncheon for one hundred guests in an incredible setting – Chelsea Pier 60 on the Hudson River.



    Roseanne Colletti of WNBC played master of ceremonies, sharing the stage with many important guests throughout the evening. Some of the illustrious guests included Matilda Raffa Cuomo, Geraldine A. Ferraro, Francesco Maria Talò, Joan Roccasalvo, Joy Behar, Renee Taylor, and Joseph Bologna. Particularly meaningful was the selection of the guests of honor: Rachael Ray and her mother, Elsa Scuderi, while Singers Cristina Fontanelli and Michael Amante provided a pleasant accompaniment to the event.



    The Consul General Talò (Honorary Chair with his wife Ornella) underscored the important role of women in Italian-American history, from Mother Cabrini to Geraldine Ferraro. Family-education-management were the key words for Talò. He spoke of the importance of passing down identity through family, and how important communicating through the language of origin is today. For all these reasons, said the Consul, it is "important to promote the AP Italian program."

    The founder and chairwoman, Aileen Riotto Sirey, surrounded by her granddaughters, and the President, Carol Silvagni MacLeod, summed up the journey of NOIAW and the importance of the role of Italian-American women today. Lots of reflection on the meaning of family took place at the luncheon, from table to table, between the various guests. Starting from those nearest and dearest to us we can work towards the future without forgetting the past. Donna de Matteo (NOIAW Scholarship Committee) presented Michelle Dutton, Susan Simone, Kristine V. Spano, Nicole Vidri, with this year's NOIAW scholarships.



    The proceeds from the Sunday luncheon and a large auction will be used to raise the amount given out to deserving students. Also important is the work towards a cultural exchange with contemporary Italy, one of the organization's more recent objectives. Last year 18 Italian young women spent an intense and unforgettable time with Italian-American families. And this is the first step in a "circular dialogue” that NOIAW wants to keep increasing.



    For almost thirty years NOIAW celebrates men and women of Italian origin and Rachael Ray and her mother Elsa Scuderi, received this important acknowledgment on Sunday.

    Rachael Ray is an Emmy-nominated television star. Her magazine "Every Day", which enjoys a large readership, and her television program "30 minute Meals", are well known by many Americans. Through her Sicilian origins (Gela) she promotes a style of cooking that is inspired by Italian traditions, but simplified and made easier for everyone. Ray bases her recipes on natural ingredients and is known for forgoing the measuring cup.



    Matilda Raffa Cuomo was moved as she remembered her Sicilian roots and her mother's dynamic personality. And "when I look at Rachael," she said " I'm like a notepad ready to take notes".



    Geraldine Ferraro told of her emotional response after listening to the song "Mamma" sung by Michael Amante, and jokingly she said: "Enough of these Sicilians, let's celebrate Neapolitans!"



    Rachael Ray's speech focused on her mother: "My work is her work, everything I do comes from her". She told the audience about how her mother had passed on to her the Italian spirit of a "good life", one not dependent on money. Her mother, she said, "made me understand how great it is to work and to respect all types of jobs." Elsa Scuderi told America Oggi about her first trip to Sicily and that her daughter had been surprised when she returned home with sand she had taken from the beach. Scuderi added, "I'm excited today, also because tomorrow is my husband's birthday!"



    Among the luncheon's noteworthy guests were Mariuccia Zerilli-Marimo, Anthony J. Tamburri, Fred Gardaphe, Peter Carravetta, Marie Garibaldi, Angela Mazzarelli, Saliann Scarpulla, Patricia Lafreniere, Dominic Massaro, Joseph Sciame, Rosemarie Gallina-Santangelo, Christine Meola, and Bea Tusiani.

  • Fred Gardaphe: Reinventando il concetto di identità


    Giovedì scorso si sono aperti a New York i lavori della conferenza internazionale "Italians in the Americas". La tre giorni di studio, che si è svolta presso il John D. Calandra Italian American Institute (Queens College, CUNY) è stata dedicata ad analizzare i diversi aspetti dell'italianità nelle Americhe, con contributi di importanti studiosi dagli Stati Uniti, dall'Italia e dal Sud America.


    Dopo una breve introduzione del Dean del Calandra Anthony J. Tamburri  e un saluto di James Muyskens, President del Queens College, i lavori sono stati aperti da una prolusione di Fred Gardaphe, recentemente nominato Distinguished Professor of Italian Studies del Calandra Institute, intitolata "Beyond the Immigrant Paradigm: identities and the future of Italian American culture".


    L'intervento di Gardaphe si è concentrato sul concetto di identità tra passato e futuro nelle comunità italiane negli Stati Uniti. Partendo dall'ormai famoso "melting pot", Gardaphe ha spiegato che in realtà si tratta solo di un mito.  Attraverso un affascinante excursus storico ha mostrato come il quinto più grande gruppo etnico negli USA abbia dovuto rivisitare costantemente il proprio concetto di identità, ricostruendolo e reinventandolo ad ogni generazione. Gli italiani in America "hanno rinegoziato costantemente il rapporto tra le culture locali e le proprie origini". Il punto è che questa ricostruzione va fatta non solo con grande rispetto del passato, ma anche con grande attenzione alle evoluzioni e ai cambiamenti futuri. Rimangono importantissime le varie "Little Italies", dove cultura e costumi italiani sono stati tramandati per generazioni senza l'ausilio di libri o opere organizzate. Ma le "Little Italies" stanno ormai scomparendo e la conoscenza della cultura e la reinvenzione costante dell'identità italiana in America deve passare anche per la costruzione di costanti e coordinate opere intellettuali.


    Attraverso una serie di aneddoti divertenti, ma allo stesso tempo molto crudi, Gardaphe ha affrontato  il tema dell'assimilazione nella società americana. Sono tante le storie che spiegano come sia stata dura la lotta, prima di tutto interiore, tra una cultura legata alle origini e la cultura dominante del luogo di accoglienza. I nodi sono tanti. Prima di tutto quello linguistico.  Dalla necessità "americanizzare" il cognome italiano fino ad ogni piccolo, ma spesso grandissimo passo per  "rapportarsi" ad una nuova cultura. L'intero ragionamento presentato è teso a mostrare quanto, anche in virtù di questa sua storia, sia "fluida"  l'identità italo-americana, per niente statica o chiusa nel tempo, come può  forse apparire ai non addetti ai lavori. È una realtà in costante metamorfosi e pronta ad un ulteriore passo per riconoscere se stessa. Lo dimostra anche l'aumento esponenziale di persone che, secondo il Census Bureau, scelgono di dichiarare la propria discendenza italiana. Se si legge questo dato alla luce della diminuzione del fenomeno migratorio italiano,  si ha un ulteriore prova di quanto in realtà il controverso concetto di identità sia molto meno rigido di quanto si tende a credere.


    Uno dei punti cruciali  della relazione ha riguardato l'importanza della "definizione" della propria identità. Secondo il relatore definire, individuare ed indagare la propria identità è infatti l'unico modo di uscire fuori dalla gabbia interpretativa costruita da altri intorno alla comunità degli italiani d'America. Questa gabbia è costituita da una serie di stereotipi e luoghi comuni legati soprattutto al mondo della criminalità organizzata, ma anche al cibo, e comunica una serie di interpretazioni spiacevoli, spregiative e semplicistiche della cultura italiana. Iniziare ad auto-definirsi ed auto-analizzarsi è dunque un imperativo culturale di estrema importanza per una comunità che ha bisogno di smettere di farsi "definire dagli altri" per cominciare a creare schemi di interpretazione propri.


    Senza alcun dubbio l'unico modo di rapportarsi a questa questione è inserire il dibattito all'interno di una più ampia discussione legata alla questione della razza. Per Gardaphe l'incontro della cultura italiana con quella americana ha finito per modificare e plasmare il rapporto della comunità con le proprie origini. Questo fenomeno è diventato ancora più forte da quando la "razza" italiana ha iniziato ad essere considerata parte integrante della "razza" bianca. Questo peculiare status ha richiesto infatti a gran parte della comunità l'assimilazione di diversi comportamenti, atteggiamenti mentali e modi di rapportarsi ai gruppi etnici ed alle usanze dominanti. A lungo andare un comportamento di questo tipo non può esimersi di lasciare tracce indelebili sul concetto di identità collettiva.


    In conclusione, secondo il relatore è importante che in un futuro, speriamo prossimo, il tema dell'identità della comunità italo-americana cominci a definirsi all'interno delle istituzioni culturali ed educative. Le idee inizieranno così a circolare e verrà finalmente superata la segregazione di questo tema nello spazio geograficamente limitato e deliminato rappresentato dalle varie "Little Italies".


    La trasmissione della cultura italoamericana è stata basata fin'ora soprattutto sull'oralità e pochissimo sui libri.  È ora necessario per la nostra sopravvivenza culturale riuscire a rinegoziare la propria identità attraverso uno studio attento di se stessi. Gli italoamericani devono sviscerare insomma "both history and story". Se così non sarà, il tema italo americano continuerà ad essere determinato da "altri".

     

    (Originariamente pubblicato su Oggi7)

     

  • Facts & Stories

    Fred Gardaphe: The Importance of Defining “Identity”



    Last Thursday marked the start of “Italians in the Americas,” a three-day conference hosted by the John D. Calandra Italian/American Institute (Queens College, CUNY). The papers and presentations were devoted to analyzing the diverse and varied aspects of “italianità” in the Americas, with significant contributions from scholars from North and South America as well as from Italy.

     

    After a brief introduction by Anthony J. Tamburri, Dean of the Institute, and a welcome by James Muyskens, President of Queens College, Fred Gardaphe, who was recently appointed Distinguished Professor of Italian Studies at the Calandra Institute, delivered the keynote lecture entitled “Beyond the Immigrant Paradigm: Identities and the Future of Italian American Culture.”

     

    Gardaphe’s address focused on the idea of identity within the past and future of Italian communities in the United States. Beginning with the famous concept of a “melting pot,” Gardaphé explained that in reality it refers only to a myth. Through a fascinating historical account, he demonstrated how the fifth largest ethnic group in the U.S. has had to revisit its concept of identity, reconstructing and reinventing it with each new generation. Italians in America “had to constantly renegotiate the relationship between their local culture and their origins.” This reconstruction of identity is carried out not only with great respect for the past, but also with great attention to evolution and future change. The various Little Italies still remain relevant and important places where Italian culture and customs are handed down through generations without the aid of books or organized activities. Little Italies, however, are disappearing and as a result, cultural knowledge and the reinvention of Italian identity in America is a process that must be transformed to include ongoing and coordinated intellectual activity.

     

    Through a series of entertaining but crude anecdotes, Gardaphe tackled the theme of assimilation into American society. Many stories illustrate this struggle, especially the internal struggle to reconcile one’s origins with the dominant culture of the host country. The assimilation process sometimes included the necessity of “Americanizing” one’s Italian surname and frequently included changing minute aspects of one’s everyday life, but it was these seemingly small changes which amounted to significant steps in bridging the gap with the new culture. Gardaphe showed that within the context of history, Italian/American identity is fluid and not at all static or frozen in time, despite how it may appear to those who are not directly involved in this work. Italian/American identity is in constant transformation and it is poised for another step towards self-realization. According to the Census Bureau, there has been an exponential increase in persons who choose to identify themselves as being of Italian decent. If one reads this data in light of the decrease in Italian migration, it is further evidence that the question of identity is much less rigid than one would tend to believe.

     

    One of the crucial points of the lecture is the importance of defining “identity.” According to Gardaphe, the act of defining, individualizing, and investigating one’s own identity is in fact the only way to escape from the “interpretive cage” constructed by those outside of the Italian/American community. This cage has been created from a series of stereotypes and common associations that are connected mostly to the world of organized crime, but also to food, and convey a series of negative interpretations and a pejorative and simplistic view of Italian culture. It is therefore a cultural imperative for the community to examine and define itself rather than continue to be defined by others.

     

    For Gardaphe, the primary way to resolve this question is by introducing it into a larger discussion of race. The meeting of the Italian and American cultures resulted in the community’s transformation and the reshaping of its relationship with its own roots. The process became stronger as the Italian “race” was increasingly considered an integrated part of the white race. This peculiar status required the community to assimilate with respect to different behaviors, mental attitudes, and ways of relating to other ethnic groups as well as the dominant culture. In the long run, undergoing a metamorphosis of this type cannot but leave indelible marks on the concept of a collective identity.

     

    In conclusion, it is important that in the future the subject of the Italian/American community’s identity will be considered by those within cultural and educational institutions. In this way, ideas will begin to circulate and they will eventually go beyond the geographical space limited to and represented by the various “Little Italies.”

     

    The transmission of the Italian/American culture in the past has been based on oral tradition rather than a literary one. It is necessary for our cultural survival that we succeed in renegotiating our own identity through a careful study of ourselves. Italian Americans must therefore examine “both history and story.” If they do not, the subject of Italian/American identity will continue to be determined by “others.”

     

    (Translated by Giulia Prestia)

     

     

     

     

  • Life & People

    Sardinia. Sea, Culture, Traditions, Unique Way of Life


    Sardinia was the topic at the New York offices of the Agenzia Italiana per il Turismo (Italian Tourism Agency). The director, Riccardo Strano, introduced the Minister for tourism, artisan arts, and commerce for Sardinia,  Luisa Anna Depau, who presented the second Mediterranean island.


    Ms. Depau spoke with particular efficacy, to an audience of tourism insiders, about a destination that is still mostly unknown to Americans.


    From her first words she painted a picture of a Sardinia where nature, traditions and even its variegated linguistic heritage remain largely unspoiled. This ancient and rare integrity is definitely an attractive element for the American tourist, ever more attentive to the cultural and historical heritage when visiting a European country.

    The acenstral traditions of Sardinia, the charm of its ancient traditions, the extraordinary beauty of its nature and its monuments, the effortlessness of its cuisine, seem to come to life in a very inviting video. At the end the councillor commented: "the only thing this video is missing is the smells.". Sardinia is in fact a real concerto  of colors, images, sounds, but also of aromas and scents.


    After the screening of the video Ms. Depau again spoke of the rare historical heritage of her region. Phoenicians, Carthaginians, Romans, Arabs, Byzantines and Spaniards all landed on this splendid island. The Sardinian population has known how to enrich their culture with these influxes and create a real cultural treasure.

    Assimilating and revising different influences that weren't hidden or superimposed on one another but were instead integrated. It is an island that holds many secrets, one of which is longevity. For this reason the Sardinians has been the focus of international research.


    In Sardinia we find ourselves on the line  between a sense of eternity and the knowledge of being able to touch in the present the same past, witness to the future. The millenary 'nuraghi' seem to be sentinels between sea rocks, beaches, the woods, churches, museums, archeological trails.



    The Minister for Tourism, Luisa Anna Depau, shared with us in a short interview the promotional activities of Sardinia in the US, without glossing over the difficulties.


    "One of the problems that an American tourist is sure to find when he decides to come to Sardinia, is the absence of a direct flight. We are working on getting that. We are in talks with Eurofly - together with Meridiana which is based in Olbia. It's important that we have already been able to achieve a New York - Rome - Cagliari or Olbia for example, where you only have to go through check-in once, even though there is a connecting flight.

    We are working hard to get direct flights from various European cities. In four years, we have been able to go from five to twenty-six European cities. We are also actively working on improving the infrastructures, especially the rail system".

    Who is the prototypical tourist for a region like Sardinia?

    "The American market is tremendously vast. I think our island first of all, is quality destination, made for high-end travel. And fortunately this is a sector that hasn't felt the repercussions of the falling dollar. Starting from the very famous Costa Smeralda, Sardinia is known as a destination for elite tourism. There are prestigious five-star and many four-star hotels on all of its coasts."

    But Sardinia is also a beatiful island in the interior. How do you introduce that? In Europe, as a tourist destination it is compared to a caribbean island in the Mediterranean. Can its interior, together with its history and culture, be a further element of attraction for Americans who have the Caribbean so close?


    "Yes it's true. We are known first of all for the sea. The tourism economy is based on this. But now we are focusing on promoting the rest of the island as well. The real wealth of Sardinia is its culture, its traditions, its unique way of life. I think we have to aim at having year-round tourism, with well-distributed fluxes."

    What have you done and what will you continue to do present Sardinia to the US?


    "We started this very important operation last years. It had been fourteen years sinc the region had last reached out to this market.

    And in September we were the main sponsor of the New York Film Festival, with a series of events. Next September we will sponsor it again and we will organize 'Sardinia week' with cultural events together with Columbia University.

    In the meantime we are putting our tourism workers in touch with American tour operators. Thanks to ENIT twenty of them will come to Sardinia at the end of April.

    We are looking for specific possibilities, like for example the New York Festival, for promotional events. We are looking for connections to introduce other aspects of our regions, like our books, film, music, folklore, art. Few people know for example two Sardinian artists that were very for US, Costantino Nivola (1911-1988) and Albino Manca (1898-1976)."

    And how important is the presence of the Sardinian community in the US?

    "I am particularly saddened by the passing of the President of the Shardana club, the Sardinina association here. Bruno Orrù was a very special person. It was a huge loss for us. But we are counting a lot on what he was able to build. The Sardinian presence in the US is a huge support for our projects. Last year they helped us a lot."


    Also this week in New York, the Councillor presented in the New York offices of the Istituto Nazionale per il Commercio con l'Estero (National Institute for Foreign Commerce) an event on artisanal worsk that will take place in the month of October in Cagliar
    i. It is a fair with 200 artisanal businesses from the Mediterranean basin.


    "The concept is that Sardinia has a rich artisanal tradition, but a lot of this work is not justly compensated. The idea is that of passing the skills into the industries of design, fashion and other sectors. Using these old techniques for new goals, we are inviting architects, artists, designers, interior decorators."


    The next stop for the Minister in her North American tour to promote Sardinia is Toronto.


        

     

  • "Italians in the Americas”, studiosi a confronto


    Comincia oggi organizzato dal John D. Calandra Italian American Institute (Queens College/Cuny) un simposio di tre giorni che raccoglie, in una cornice  internazionale, interventi che spaziano su diversi argomenti: identità etniche e conflitti culturali, estetica e psicologia, arti visive e letteratura, questione femminile, società e politica.


    Il convegno sarà introdotto da James Muyskens, Presidente del Queens College, da Anthony Julian Tamburri, Dean del Calandra Institute e dall'intervento inaugurale del nuovo arrivato al Calandra, Distinguished Professor of Italian American Studies  Fred L. Gardaphe, su "Beyond the Immigrant Paradigm: Identities and the Future of Italian American Studies".

    Abbiamo posto al Dean Anthony Tamburri, ideatore ed ospite del convegno alcune domande, cominciando naturalmente da quella su come è nata l'idea di "Italians in the Americas"…


    "Il covegno nasce dall'esigenza di creare un discorso 'internazionale'. Infatti fino a ora Stati Uniti, Canada e qualche paese dell'America Latina, hanno portato avanti singolarmente il loro colloquio con l'Italia. Ma non mi risulta che sia mai stato fatto un discorso internazionale che raccolga nel complesso l'emisfero americano, con la sola eccezione di un convegno del 1992. Quindi possiamo usare in questo senso per la la prima volta negli Stati Uniti l'aggettivo ‘Americano’. Ovvero inclusivo non soltanto di un lavoro effettuato in un solo Paese, ma negli Stati Uniti, in Canada, Messico, Argentina, Brasile … e così via.


    Un grande contributo in questa direzione è stato dato dalla rivista della Fondazione Giovanni Agnelli,  che oggi si chiama "Altreitalie". Questa rivista ha rappresentato una componente veramente importante per creare una conversazione nel senso etimologico della parola, una conversazione italiana e americana. Hanno dedicato a questo approccio diversi numeri della loro rivista. Un altro grande contributo in merito lo ha dato, come storico italiano, Emilio Franzina."

    Dunque negli USA è la prima volta, dopo tanto tempo, che si svolge un convegno di questa portata e che fra l'altro, guardando il programma, raccoglie interventi davvero diversi tra loro. Esite un filo conduttore in uno spettro di temi cosi ampio?


    "Si è vero, è abbastanza ampio. Volevamo prima di tutto cercare di radunare un gruppo di intellettuali e studiosi in un unico posto per poter discutere le diverse esperienze degli italiani nelle Americhe. Volevamo un confronto. Abbiamo proposto fin dall'inzio una così vasta serie di temi e mi sembra che la risposta sia stata molto interessante".

    E ci sono anche diversi studiosi che vengono dall'Italia?


    Si. Per esempio i due storici piu attivi in questo momento in Italia per quanto riguada lo studio degli americani italiani: Stefano Luconi e Maddalena Tirabassi, la direttrice del "Centro Altreitalie".

    Cosa si aspetta da questa tre giorni?


    "Prima di tutto per me è importante festeggiare all'apertura del convegno il nostro nuovo professore di chiara fama,  Fred L. Gardaphe. Farà un discorso tutto suo, molto incisivo. Poi mi aspetto una serie di interventi interessanti che possano testimoniare le esperienze “americane italiane”, o in generale degli italiani all'estero, dei loro figli e anche dei loro nipoti.

    Dopo il convegno metteremo insieme un volume. Chiederemo ai vari studiosi di prendere un po' di tempo per lavorare sui loro interventi e farne un saggio. Per la fine dell'anno dovremmo avere un volume, o parte di un volume, pronto per il pubblico.


    Per informazioni http://qcpages.qc.edu/calandra/iaconfpgn.html

    Calandra Institute, 25 West 43rd Street 17th Floor. Tel. 212 642 2094


     

  • Art & Culture

    When Italian American Theater Becomes Universal




    Whoever is expecting to see a regular play about the relationship between a mother and daughter, even according to the gap between cultures and generations, will be amazed. Even from the opening seconds of the monologue, you can tell that the woman standing in the middle of the stage wants to give all of herself to her audience. She is engaged, excited, unpredictable, and even melancholic at times, but she is always full of subtle irony. In this piece, the Italian-American actress and writer, Antoinette LaVecchia, relates the lack of communication between an Italian-American mother and her Americanized daughter while showing their diverse levels of communication.

     

    Mother-daughter relationships are often confusing and commanding, as well as distant yet close thanks to a mysterious chain of conflict and harmony. Every minute of this show, even its most hilarious moments, hides a nagging desire for understanding.

     

    At the beginning of the show, we find Antoinette describing her birth. The psychoanalyst Carl Gustav Jung once said that every woman contains her own mother and her own daughter within her inner self. The irreverent, instinctive, and, at times, profane gestures that the actress uses to simulate her birth question us about the mystery of this blessed event. The audience is not just watching a birth; Antoinette, in her movements and through her voice, allows us to enter the uterus of her mother while she is giving birth. We watch and live the first moments of the newborn who is about to make her initial contact with the outside world and who literally has to detach herself from her mother's umbilical cord. We follow Antoinette until the moment of her "birth". At the same time, we watch the contractions, the pain, and the fear of her mother; we also hear her internal cry of "Go back inside". The act of b! irth is there in front of our eyes in its purest and crudest form.

     


    From this point on, mother and daughter confront their own unique identities by following a path that constantly shifts between moments of attraction and repulsion. The entire monologue is a brilliantly improvised crescendo during which the Italian-American experience transcends ethnic boundaries and assumed universal characteristics.

     

    An instinctive actress: Antoinette LaVecchia tells us about her autobiographical monologue IN SPITE OF MYSELF.

     


    "My mother hasn't seen it yet... Even non Italian-American women will see themselves in it..."

     

    There is irony and anger but also tenderness, distance, and reflection: two women tell their life stories in an unsuspecting show of similarities. The crucial moments of family life are relived across a series of flashbacks and therapeutic self-evaluation where the mother figure is often found to be at fault, "There's a monster under my bed! I can't sleep! Mom, can I sleep with you?" "Pray to the Blessed Virgin... You be fine!" It is easy to set aside this faithfulness lived through superstition and devotion, resignation and defense, and justification of the existence of God to understand this Italian-American working mother who immigrated to the United States from Southern Italy and the rebellion of her daughter. "Figlia mia, do you go to church? No?! If you don't go to church that means you do! n't believe in God. You'll have bad luck. Do you take an image of Padre Pio with you wherever you go?... My daughter is divorced! Good people don't do those kinds of things! Once you get married you're stuck for life. Why do people always need to be so happy?"



    This sense of constant guilt where it seems obligatory to feel condemned to a certain lifestyle clashes with the daughter's determination to control her own destiny. She believes in God but she doesn't go to church. She sells her wedding gown to a second-hand clothing store and she is divorced. She wants to be an actress. Because she is tormented by the constant uninvited phone calls from her mother, she looks for satisfaction not just as a daughter but also as a woman.



    The mother-daughter voices are striking; they look for each other, even if they don't always understand each other. The levels of communication between them are contradictory but they frantically attempt to meet each other at times so they could find a possible compromise. For example, the mother insists on sewing curtains for her daughter but she wants nothing to do with them at first. Eventually the daughter gives in; she will have curtains on her window (a symbol of her mother's skill as a parent "There can't be windows without curtains!"). But, the daughter's curtains will not be decorated with purple lines and polka dots. They will be white...



    We met the writer-actress at the end of her performance. From the second she opened her mouth, it was easy to understand that her involvement in this show is not only professional but also personal.



    "My mother has never seen this show, she might see it sometime next week. I am a little nervous but I think it will do her good to see it. I am very sure that my way of life, especially my divorce, has made her reflect on her own lifestyle and, as a result, she has become more independent as a person. She is now 57 years old and thanks to her interactions with other people, she is getting stronger. It took her 10 years to learn English and she lived an isolated life which she devoted to the needs of her family."

     

    Antoinette, tell us a little bit about yourself and how you were able to write this very personal piece.

     


    "My family is originally from Salerno; we came to America when I was 3 years old. My mother worked but was very much a loner. This show really helped me to understand her as well as to overcome the sense of oppression that II felt because of her constant attempts to control my life. She wanted me to be more like her but she couldn_t communicate with me: we didn't speak the same language. Thanks to this show, I have been able to understand her as well as find her. I rediscovered her story, her origins; I think I have understood why she always wants to control meit is an attempt to communicate..."



    When did you write this monologue?

     

    "I didn't really write it. In Spite Of Myself is a work in progress, much like my relationship with my mother. It is not a scripted piece; it is improvisation."

     

    The story that you portray is found within the Italian-American culture. Do you think the message it contains goes beyond cultural boundaries?

     

    "Certainly. The mother-daughter relationship that I describe has a universal appeal. Many women have seen themselves in what they have seen on stage and they were not Italian-American."

     

    How do you think that women in American cinema and theater are portrayed?

     

    "They are often portrayed badly. The representations are not true to life: the female voice has not yet been heard as it deserves to he."

     

    Let's use a modern example, what do you think of the character of Carmela Soprano?

     

    "I like her strength, there are women out there who are like that. But the character herself is exaggerated: she is too masculine. Also, the representation of the Mafia is overdone and unrealistic. There is too much fiction..."

     

    Do you have any projects for the future?

     

    "I would like to talk more about families and relationships. I enjoy acting; I am an actressbut this experience of being a writer has been amazing."

     

    Is there an actress that influences your work?

     

    "Without a doubt Anna Magani. She has a very instinctive acting style."

     

    It is true, the most striking part of In Spite Of Myself is Antoinette's use of her body and of her voice as well as the added pauses: Antoinette, the woman, is visceral, precise, and motherly. The image of the solitary actress at the middle of the stage that reminds us so much of the middle of a mother's womb will most assuredly remain engraved in your minds after having seen this performance.

  • 'Pane Amaro'. Quella storia che ancora non si conosce

    Il “caso”  degli italo/americani in 105 minuti? Una bella scomessa quella che si è posta il regista-giornalisa Gianfranco Norelli. E la sala dell’Auditorium del Graduate Center della City University of New York era gremita l’altra sera per “Pano Amaro”,  film documentario,  raro omaggio alla storia italoamericana. Prodotto dalla Rai,  e destinato prima di tutto al pubblico televisivo italiano,  il lungometraggio ha  catturato gli sguardi di almeno tre generazioni italo-americane e anche molti italiani presenti.

    Il film rievoca, con grande attenzione documentaria, momenti salienti e spesso drammatici della vicenda italoamericana,  dal 1880 fino alla fine della seconda guerra mondiale. Un arco di storia vastissimo ed intenso è raccolto con cura in quasi due ore di proiezione che presentano rari documenti storici, fotografici e filmati, testimonianze dirette e commenti di esperti e studiosi.

    Norelli, grazie al ‘mestiere’ di attento cronista, intraprende un percorso narrativo asciutto, senza lasciarsi andare a sentimentalismi, inutili retoriche. Il risultato è un contributo denso di spunti di riflessione, di informazioni, vicende.  Si percepisce nel corso della proiezione quasi l’ansia del regista di raccogliere più elementi possibile, consapevole di raccontare tanta storia poco conosciuta. Soprattutto ad un pubblico italiano.

    Certo, non solo. Anche per molti italiani americani, questi 150 di storia risultano spesso oscuri. Ci sono vicende che  non fanno ancora davvero parte del patrimonio culturale e dunque dall’identità di molti italo/americani.  A questo si aggiunge il vero e proprio gap culturale che si è aperto negli anni tra l’esperienza italiana e quella italo/americana. Il risultato è che un complesso alternarsi di amore-odio-indifferenza nei contronti del proprio passato pesa sugli italiani da entrambe le sponde dell’oceano.

    Ma visto da New York il film-documentario di Norelli ci ha fatto sorgere innanzitutto domande che riguardano gli italiani in Italia. Quanti di loro sanno che le vittime del più grande linciaggio degli Stati Uniti, nella New orleans del 1891, erano italiani? Quanti sanno che gli italiani, alla fine dell’ottocento, per così dire rimpiazzarono nelle piantagioni gli schiavi neri emancipatisi? E che venivano definiti “un popolo di mezzo” – insomma né bianchi né neri? Quanti italiani conoscono l’ondata di razzismo anti-italiano che si era diffusa anche tra gli opinionisti americani? Si raccontavano gli italiani come un’incontrollabile orda... Quanti sanno delle vicende degli operai italiani che lavoravano in condizioni durissime, dei loro scioperi e delle loro lotte, della ventata anarchica, e del complesso impegno sindacale – sia tra gli operai che, segnatamente, tra le operaie? E poi, cosa si sa o si studia, degli italiani dichiarati “stranieri nemici” durante la seconda Guerra mondiale, internati e separati dai componenti americani delle loro famiglie?

    Proprio perché pochi sanno, è importante che questo film presenti i commenti di studiosi come Nunzio Pernicone, Fred Gardaphè, Gerald Meyer, Mary Ann Trasciatti, Peter Vellon. I linciaggi, gli attentati anarchici, la tragedia del Triangle Strike in cui morirono 150 operaie, la vicenda di Sacco e Vanzetti, i campi di internamento durante la seconda guerra mondiale, le condizioni di vita, la religiosità, la lingua, l’americanzzazione. E poi le figure di Fiorello La Guardia, Vito Marcantonio, Carlo Tresca, Generoso Pope, Leonard Covello – tra i tanti italiani americani ricordati nel film.
     

    Questi interrogativi sono già importanti in sé, ma lo diventano ancor di più alla luce delle nuove ondate migratorie, sia In America che in Italia. La consapevolezza del fatto che l’esperienza migratoria, direttamente o indirettamente, ha riguadato nel secolo scorso milioni di famiglie italiane è cruciale in un momento in cui flussi migratori si intrecciano su tutta la terra e l’Italia diventa per la prima volta un paese-meta.

    E “Pane Amaro” dà un contributo in questa direzione, andando anche al di là del percorso storico che compie. È un invito a conoscere e riflettere per gli italiani in qualsiasi parte del mondo. Nel pubblico italiano/americano presente abbiamo colto una grande attenzione, commozione in certi momenti. In alcuni loro commenti e riflessioni si avvertiva il caro prezzo che hanno dovuto pagare gli italiani per integrarsi, evidente anche dopo generazioni. Il fatto che molti parlino solo inglese ha in questo caso un valore simbolico. Si ripercorre così la storia in pochi istanti. Prima di tutto la paura di parlare il dialetto dei loro nonni, poi l’ “ordine” di parlare solo inglese per non farsi riconoscere come enemy aliens, poi la perdita del contatto con l’Italia. Infine il ritrovamento e la ricerca sulle proprie radici.

    Molti del pubblico hanno preso in mano il microfono per parlare. Si sono presentati così: Nome Cognome, seconda generazione. Nome Cognome, terza generazione… E sono soprattutto le giovani generazioni che oggi riscoprono la cultura, ed anche la lingua, italiana con grande curiosità.  Ma capita ancora  che, proprio come i loro coetanei italiani, pochi di loro conoscono la storia dell’emigrazione italiana in America. È paradossale, ma è così. Un vero e proprio lavoro di autocoscienza e riconoscimento delle proprie radici è ancora da compiere.

    Trentanni fa lo scrittore Pietro di Donato, l’autore di Christ in Concrete, aveva pronosticato  un “rinascimento” degli scrittori italoamericani. “Il nostro momento è ora. Lo vedo perchè non siete più i figli dei muratori, andate a scuola e siete bambini con dei cervelli”. Sono parole che, insieme alle immagini e ai racconti del film di Norelli, non possono che far riflettere nel 2008.

    Suggerimenti di lettura:

    Jennifer Guglielmo and Salvatore Salerno (ed), Are Italians White?: How Race is Made in America, Routledge, 2003.

    Thomas A. Guglielmo, White on Arrival: Italians, Race, Color, and Power in Chicago, 1890-1945, Oxford University Press, 2003.

    Jerre Mangione and Ben Morrale, La Storia: Five Centuries of the Italian American Experience, Harper Collins, 1992.

Pages