Nei passati decenni il “brand” del Made in Italy ha conquistato l’America, dalla moda al cibo. Come valuta la situazione del Made in Italy oggi su questo mercato, in particolare per il settore dell’agroalimentare?
"Partiamo da un assunto: Il Made in Italy è da sempre un grandissimo valore aggiunto per i mercati esteri e questo è un dato di fatto, una fortuna che altri non hanno; sia chiaro non lo abbiamo studiato o creato noi a tavolino, ce lo siamo in qualche modo trovato grazie alla nostra identità che parte dall’incredibile realtà dei comuni che nascono oltre mille anni fa e che vivono ognuno delle proprie tradizioni.
Di questo grandissimo patrimonio siamo stati meno abili di altri a farne buon uso e oggi abbiamo compreso che per poter continuare ad essere attraenti dobbiamo elevare il livello di competitività facendo dell’altro, come investimenti tecnologici sulle strutture ed elevare il livello del personale coinvolto nel processo produttivo, insomma fare di più.
Per continuare ad essere presenti bisogna riuscire a stare al passo con i tempi, interpretare l’evoluzione del consumatore e continuare a proporgli un prodotto arricchito di quei valori che solo la nostra tradizione riesce a dare. Unicamente con il nostro 'Made in' non siamo più in grado di rimanere attraenti."
Secondo la sua esperienza, cosa si aspettano gli americani dai prodotti italiani?
"Il consumatore americano, ma generalmente ogni consumatore evoluto, richiede un prodotto che sia non solo 'fisico' ma anche 'emozionale'. Quando oggi viene acquistato un prodotto italiano si acquista anche una parte di cultura, la nostra cultura, il nostro essere e il nostro vivere, perché tutto questo viene svolto in un ambiente, l’Italia, che ci viene riconosciuto come unico e irripetibile.
Penso alla moda con i nostri grandi interpreti che costantemente propongono opere ad ogni loro collezione o al cibo proveniente dalle diverse zone del nostro incredibile paese: dal parmigiano reggiano alla mozzarella di bufala campana, dal prosciutto crudo alla soppressata calabrese, dallo spaghetto all’orecchietta; prodotti espressione dell’esperta manualità e tradizione delle piccole imprese o dell’alta tecnologia delle grandi industrie. Insomma, l’Italia tra prodotti DOP e IGP ha oltre 200 specialità uniche per la loro bontà ma anche per le tradizioni che rappresentano. Il consumatore, quando compra un prodotto italiano, in definitiva vorrebbe vivere un po’ della nostra tradizione, farla un po’ sua."
Il successo dell’Italia dipende largamente dalla creatività e dall’imprenditorialità delle nostre piccole e medie imprese. Cosa si dovrebbe fare per aiutarle ad entrare sul mercato americano e a gestire la propria presenza qui?
Creatività e imprenditorialità da sole non bastano, ci vorrebbe un sistema integrato che supporti le nostre aziende e permetta alle stesse di presentarsi in modo più “istituzionale” nel mercato. Il mio pensiero va verso la Francia che ha fatto delle sue Ambasciate il primo istituto di promozione delle aziende del suo paese. Noi invece abbiamo una rete con deleghe, funzioni e ruoli non ben chiariti, si pensi ad esempio alle Ambasciate ai presidi dell’ICE oltre alle molteplici difficoltà che il governo con le sue scelte non aiuta a risolvere."
Negli altri paesi le aziende fanno sistema e uniti, si sa, si diventa più grandi e oggi la dimensionalità è un fattore critico di successo per penetrare i mercati.
"Le nostre Filiere dovrebbero organizzarsi meglio e dedicare più risorse alla tutela dei marchi perché, se andiamo ad analizzare i dati sul falso Made in Italy [il cosiddetto “Italian sounding” n.d.r.] vediamo che nel mondo possiamo riprendere valori che potenzialmente si aggirano intorno ai 100 miliardi di dollari. Le false imitazioni 'low cost' sono aumentate negli ultimi 10 anni di quasi un 70% e questo significa che le nostre Filiere insieme alla nostra politica non hanno fatto abbastanza.
Nello specifico mercato americano troviamo mozzarella, parmesan, provolone che vengono prodotti tra Wisconsin, California e lo stesso stato di New York in palese violazione della proprietà dei marchi di origine. Troviamo persino del Pecorino Romano (sempre prodotto in queste aree) che non ha minima traccia di latte di pecora!"
E poi c’è la questione dei dazi e della politica commerciale. Anche qui si dovrebbe intervenire.
"Certo. Nel 2019 la strategia commerciale americana è stata quella di proteggere le produzioni interne a danno di quelle dell’area della Comunità Europea e parliamo dell’introduzione di nuovi dazi su un valore di import verso gli USA pari a 7,5 miliardi di dollari dove il soggetto più penalizzato nell’agroalimentare risulta essere la nostra realtà italiana. Le stime dell’ICE parlano di un aggravio di prezzo di circa 120 milioni di dollari su un paniere di prodotti come i formaggi, liquori, carni, conserve, frutta che vale circa 500 milioni di dollari. Di tutto quanto detto si potrebbe fare una sintesi affermando che c’è una sola verità e cioè che oltre alle aziende produttrici è il consumatore finale ad eseere penalizzato da questi difficili rapporti. I governi centrali dovrebbero promuovere tavoli negoziali con il governo statunitense al fine di trovare una linea condivisa nell’interesse di entrambe le parti."
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January 27th 2020
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