Valeria Golino è a New York per presentare il suo secondo film da regista, Euforia, che ha per protagonisti due nomi importanti del cinema italiano contemporaneo come Valerio Mastandrea e l'ex compagno Riccardo Scamarcio, e che tratta in maniera delicata di temi difficili quali malattia e morte. Poco prima della nostra chiacchierata ufficiale, incontriamo Valeria su Broadway mentre si fuma una sigaretta al freddo prima di iniziare il round di interviste e la presentazione del film. Le verrà anche assegnato un premio quella sera, il “Wind of Europe International Award”, nell’ambito di Italy On Screen Today, manifestazione ideata da Loredana Commonara.
Eppure, Valeria, attrice con all’attivo circa 90 film e tra le poche italiane ad aver conquistato anche Hollywood, ha più che mai l’aria da anti-diva con il capello riccio sbarazzino e le scarpe basse dovute a una cattiva storta alla caviglia presa il giorno prima. Ma soprattutto ha l’aria tranquilla di chi come attrice ha già dimostrato il suo valore e non deve neanche più giocare alla femme fatale e di chi come regista è appena riuscita a superare con successo lo scoglio della seconda prova perché, dice, “se non va bene la seconda, pensano che alla prima prova sei stata solo fortunata”.
E così la nostra intervista si concentra sulla Valeria regista e su cosa voglia dire mettersi dietro la tele in un momento storico particolare per le donne del cinema ma non solo. Lei risponde con slancio, gentile e mai banale. Da diva vera.
In una recente intervista, Jane Campion, regista che ha avuto successo e ha vinto parecchi premi, ha affermato che, grazie anche al movimento #metoo, stiamo vivendo un momento speciale che ha messo fine a uno dei periodi più patriarcali che ci siano mai stati, cioè gli anni ‘80 e ‘90. Si può dire che la stessa rivoluzione stia avvenendo in Italia?
Certo che è un periodo importante, ci mancherebbe! Quello che è successo ha facilitato il lavoro delle donne, i diritti al lavoro, a uno stipendio equo, ma non parlo solo delle registe, mi riferisco a tutte le donne come cittadine. È inevitabile che succedesse ed è successo. E sono certa che ci saranno altri cambiamenti per quanto riguarda l’abuso di potere e i rapporti maschio-donna su cui c’è ancora tanta confusione su ciò che questo rapporto comporta.
Come donna, ha trovato difficoltà nel trovare produttori, proporre temi o arruolare attori?
Credo di aver incontrato le stesse difficoltà che avrei trovato se fossi stata maschio dal punto di vista esterno. Penso che la difficoltà stava in me, come donna, cioè probabilmente ci ho messo molto a fare quello che avrei voluto fare. Come donna c’è a volte una sorta di autocensura intrinseca che viene da lontano.
E cosa le ha fatto cambiare idea?
Ne avevo voglia da tempo ma penso che siano stati gli altri ad aiutarmi, coloro che mi sono vicini. Mi hanno detto “proviamo a fare questo”, “lo produciamo noi”… Con il mio primo film Miele, ad esempio, ho fatto fatica a trovare chi lo producesse. Non perché sono donna ma per il tema, il suicidio assistito. E non perché fosse scabroso, ma perché entrava difficilmente nel mercato perché ormai la trasgressione e lo scandalo non esistono più. Non sono più i tempi di Ultimo tango a Parigi in cui la scabrosità nel cinema faceva scandalo e diventava evento. Ora preoccupa solo il mercato.
Siamo diventati troppo politicamente corretti?
Indubbiamente lo siamo. Ovvero, negli ultimi 30 anni più la società si è involgarita più ci si preoccupiamo del politically correct. Da una parte c’è l’involgarimento totale dei valori, della femminilità, di ciò a cui aspiriamo, degli status symbol e del consumismo. E dall’altra, per contrasto, c’è tutto quello che vorremmo o che vorremmo essere.
Secondo lei le donne stanno contribuendo a portare nuovi temi nel cinema?
Quelle brave sì. Ci sono registe interessanti, brave, poetiche, che portano uno sguardo nuovo e poi ci sono anche quelle non brave. Uguale come con gli uomini. Solo che noi siamo di meno e così ci si nota di più.
Quali sono le registe che ammiri di più?
Tra le giovani apprezzo Alice Rohrwacher. Abbiamo due modi completamente diversi di raccontare ma ne riconosco la poetica e da spettatrice mi rendo conto che ha un universo vero da proporre. E poi, di recente ho lavorato, da attrice, con una giovane regista veramente interessante, si chiama Céline Sciamma, arrivata alla ribalta con il film Tomboy nel 2011.
Come è cambiato il tuo modo di recitare da quando sei regista e come viene influenzata la regista dall’attrice che c’è in te?
Decisamente il mio essere attrice influenza il mio modo di essere regista, ad esempio nel mio rapporto con gli attori. Penso che sia stato un privilegio essere abituata ad essere guardata, da attrice, perché mi offre un altro modo di guardare. Ho lavorato sia con grandi registi che non amano dirigere gli attori che con registi meno bravi ma che sono bravissimi con gli attori. Per me il rapporto con gli attori è importantissimo perché sono co-autori del film.
E come sei cambiata come attrice?
Come attrice, anche prima di fare la regista, non ho mai dato fastidio ma dentro di me ero diventata intollerante per tutto ciò che succedeva sul set al punto che, dopo aver fatto oltre 80 film, mi ritrovavo a pensare del regista, che magari aveva fatto solo due film, “ma che cavolo sta facendo? Ma perché mette la macchina lì”. Ora ho perso quella smania, mi rimetto completamente nelle mani del regista. Anzi, non vedo l’ora di de-responsabilizzarmi.
È stato difficile dirigere due uomini come Valeria Mastandrea e Riccardo Scamarcio sul set di Euforia?
Appunto, a dirigerli! Nel senso che sono due attori con una forte personalità e una grande esperienza. Bisogna proprio prenderli al lazzo perché pensano sempre che ci sia un loro modo per fare una certa scena.
Pensa che l’avrebbero ascoltata di più se fosse stata un uomo?
No, mi hanno sempre rispettata molto. Nel senso, non una grandissima autorità soprattutto con Riccardo che è stato il mio compagno per tanto tempo e quindi l’autorità l’ho persa da tempo (ride, ndr) però so come prenderlo e so quali sono le sue cose belle, che magari molti altri registi non conoscono. È stato senz’altro un rapporto privilegiato. Il vantaggio con Valerio è che avevo già lavorato con lui come attrice quindi conosco le sue idiosincrasie. E poi lui è un attore stupendo, basta che non si annoi. Se non si annoia, è meraviglioso.
Il prossimo progetto?
Sarò più stanziale a Roma da gennaio con le mie sceneggiatrice e incominceremo a valutare diverse storie.
Chi l’affianca nella scrittura?
Sempre le stesse due sceneggiatrici (Francesca Marciano e Valia Santella, ndr) per il piacere che proviamo nel lavorare insieme. Per Euforia, ha partecipato anche Walter Siti, uno scrittore italiano che amo molto, ma di solito siamo noi tre, le “girls”, come ci chiamiamo tra di noi anche se ormai siamo più delle ladies.
C’è un premio che le piacerebbe vincere più di altri?
Non mi dispiacerebbe vincere la Palma d’Oro come Regista a Cannes.
Finora solo una donna, Jane Campion con “Lezioni di piano”, è riuscita a vincere la Palma d’Oro.
Ah, ma io non intendevo neanche proprio la Palma d’Oro, il massimo riconoscimento. Pensavo al Premio alla Regia. Ecco, lo vedi, la mia mania a farmi piccola, ad autocensurarmi, è sempre presente.
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