Premessa. Non sono mai riuscito ad amare fino in fondo il cinema di Quentin Tarantino, con lunica grande eccezione del suo folgorante film d’esordio, Reservoir Dogs (Le iene), a mio modo di vedere il più straordinario e radicalmente innovativo post-noir degli ultimi vent’anni.
Poi, pur riconoscendo l’importanza capitale di un film come Pulp Fiction per la definizione dell’estetica postmoderna, Tarantino mi ha sempre dato l’impressione della montagna che partorisce il topolino.
Grande, grandissimo talento inquinato da un umorismo ghignante che s’inceppa perché in mezzo a tanta irriverenza Quentin, a mio modo di vedere, ha sempre preso troppo sul serio una sola cosa: se stesso. Il risultato è stato, fino ad ora e per me, un cinema autoreferenziale e vagamente onanistico, chiuso nei limiti di un ipercitazionismo spesso sterile. Così, dopo Pulp Fiction, Jackie Brown mi ha annoiato. Ho detestato Kill Bill. Non mi ha strappato più di un sorriso Grindhouse.
Per questo motivo l’operazione Inglorious Basterds ha raccolto dall’inizio i miei più sinceri preconcetti. Tarantino che parla di storia e di Olocausto di primo acchito non suona molto bene. Tarantino che rifà Quel maledetto treno blindato di un regista come Castellari, che in Italia è pressoché caduto nel dimenticatoio e un motivo ci sarà, suona ancora peggio. I – soliti – commenti entusiastici che hanno fatto seguito alla proiezione a Cannes dello scorso maggio mi hanno semplicemente insospettito.
Così, appena uscito in Italia, sono andato a vedere Inglorious Basterds. Subito. Perché forse, mi sono detto, il mio rapporto con Tarantino è molto più controverso. Non l’ho mai amato, è vero, ma forse mi sarebbe piaciuto e mi piacerebbe farlo. Funziona un po’ come con quegli studenti dotatissimi che, proprio perché dotatissimi, invece di dare il 100 % danno sempre e solo il 50 % e arrivano solo alla sufficienza. Innervosiscono, ma si vorrebbe, un giorno, premiarli pienamente e si spera in un cambio di rotta. Ecco, Inglorious Basterds è quel cambio di rotta. Con una forza dirompente, il nuovo film di Tarantino sbriciola preconcetti e scetticismi di tutti coloro, me compreso, che hanno sempre guardato con diffidenza al regista di Pulp Fiction e risulta, a conti fatti, non solo il suo film migliore ma anche uno straordinario capolavoro, un film che si può definire - col rischio di esagerare - epocale, che segna un “prima” e un “dopo”. Sì, perché il regista di origini italiane ha sempre avuto la caratteristica di guardare e pensare il mondo esclusivamente in termini di “puro cinema”.
Cresciuto in una videoteca, imbevuto nel profondo di film di ogni genere, numero e caso, dai film d’autore alla serie z, Quentin ha scoperto il mondo e la storia così. Da vero cineasta postmoderno, il suo immaginario composito fa sì che i suoi film non rispecchino mai direttamente e semplicemente la realtà, bensì le tracce che di essa si trovano nel cinema di cui si è avidamente nutrito. In Inglorious Basterds questo rapporto simbiotico stratificato nell’anima di Tarantino diventa una sublime celebrazione dell’affabulazione, dell’arte del narrare, del film come luogo “altro” nel quale anche la storia può essere cambiata, dove gli oppressi possono trovare riscatto e vendetta.
Delle due ore e quaranta - che filano come e più del treno di Castellani, di cui grazie al cielo oltre al titolo e a qualche spunto narrativo non è rimasta traccia - rimangono negli occhi e nel cuore molte scene, su tutte, però, la sequenza finale, dentro un cinema di Parigi, si candida in piena legittimità ad entrare tra le più belle della storia del cinema.
Con una forza narrativa devastante, Tarantino riscrive la storia, chiude Hitler, Goebbels e i nazisti in una buia sala cinematografica e li annienta. A distruggerli è il cinema stesso, la potenza incandescente delle immagini, lo schermo che brucia e il fumo che soffoca le alte gerarchie del Terzo Reich. I grandi distruttori di cultura, che a Norimberga bruciarono pile di libri, vengono dilaniati da un rogo di pellicole, mentre le raffiche di mitra dei “Bastardi senza gloria” li falciano impietosamente. Con questa sequenza da pelle d’oca, Tarantino libera il cinema dalla Storia, ne canta la sublime potenza immaginifica e mitopoietica, sancisce un’estetica di cui sarà impossibile non tenere conto negli anni a venire. A ciò si aggiunga che la struttura narrativa che conduce a questo strepitoso finale è quanto di più eccezionalmente fluido il regista di Kill Bill abbia mai concepito. Cinque lunghi capitoli accumulano riferimenti e omaggi ai generi del cinema. La differenza è che stavolta non si ha l’impressione di sterili rimandi più divertiti che divertenti, come in Kill Bill.
La cinefilìa di Quentin è un linguaggio a sè, è un codice espressivo, diventa il suo modo di raccontare la Storia e tutto sembra vivere di una nuova straordinaria originalità. Così se il primo capitolo ha l’andamento elegiaco e struggente di un western di John Ford, successivamente si accumulano rimandi a Lubitsch, al cinema tedesco e francese degli anni dell’occupazione, al gangster movie, al war movie americano classico di Fuller, di tutto e di più. Tutto con una leggerezza di tocco, una coerente varietà di stile, una capacità, insomma, di fare cinema che lasciano stupefatti. Un esempio straordinario dell’abilità di Tarantino è la prima scena.
Nessuno, assolutamente nessuno, oggi, si potrebbe permettere di iniziare un film con un dialogo di venti minuti tra due personaggi seduti ad un tavolino sperando di non annoiare gli spettatori. Quentin lo fa, e, ovviamente, la tensione è alle stelle. Mi piace chiudere con una battuta di Tarantino stesso al David Letterman Show, riportata da molti critici in Italia, che mi pare ben rappresentativa. Al conduttore, che gli faceva notare che la parola Basterds, con la “e”, non fosse scritta “nella lingua di Shakespeare”, il regista risponde: «no, si legge e si scrive nella mia». Non poteva fare battuta più illuminante: in Inglorious Basterds si leggono cinema e Storia scritti nell’irresistibile lingua di Quentin Tarantino.
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