Quando tre anni fa il presidente George W. Bush annunciò che sarebbe stato Ronald Spogli a sostituire a Roma l'ambasciatore americano Mel Sembler, si dovette subito ricredere chi pensò alla scelta dettata dalla solita "ricompensa post elettorale" da elargire ad un ricco sostenitore della rielezione. A Villa Taverna non si inviava soltanto un ex compagno di studi di Bush dei tempi di Harvard che, dopo l'MBA, avrebbe avuto tanto successo nel business. Negli ultimi anni Spogli era stato magari pure molto efficace per le campagne elettorali dell'ex collega universitario. Ma la Casa Bianca, nel 2005, all'Italia riusciva a mandare anche il top delle scelte possibili: infatti quello che era stato un ragazzo italoamericano della California (il nonno arrivò da Gubbio) conosciuto da Bush tra i viali di Harvard, prima di studiare business accanto al futuro presidente era stato un diligente e appassionato studioso di storia sociale italiana. Spogli prima di arrivare a Cambridge aveva infatti frequentato la Stanford University, e la sua passione per l'Italia lo aveva portato, alla fine degli anni Sessanta, a vivere e fare ricerche nel Bel Paese allora sconvolto dal '68 e dai primi fuochi degli anni di piombo. Così per Bush Spogli non era solo l'ex compagno d'università tanto bravo a far soldi da meritare la ricompensa con un po' di dolce vita romana, ma era soprattutto anche un raro "italianist" dall'approfondita conoscenza della lingua, della cultura e dei problemi dell'Italia.
Per questo, quando martedì scorso siamo andati ad ascoltare l'ambasciatore Spogli alla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University, sospettavamo che non sarebbe stata la solita "lecture" di un diplomatico ancora in carica, dolci parole sulla "forte amicizia" tra i due paesi con risposte senza mordente per schivare domande troppo dirette. Certo, Spogli nella sua relazione introduttiva non poteva che ribadire come le relazioni tra Italia e Stati Uniti restino "eccellenti". Perché è la verità, soprattutto se messe a confronto con quelle che gli Usa hanno con altri storici alleati. Spogli non ha negato che ci siano stati, anche recentemente, "momenti di frizione" nei tre anni passati a Villa Taverna, ma il fatto che Usa e Italia "siano d'accordo su dove vogliamo arrivare, sugli obiettivi, anche se a volte abbiamo divergenze sulla strada da fare, è alla fine ciò che conta di più".
Così ecco scodellati dall'ambasciatore i punti dove l'azione del governo italiano è stata apprezzata di più: dai Balcani con il riconoscimento del Kosovo, al Libano con l'invio di truppe Onu, all'Iran con l'attento lavoro sulle sanzioni, fino all'Iraq (perché anche se si sapeva che il governo Prodi avrebbe ritirato le truppe italiane come promesso durante le elezione del 2006, ha detto Spogli, "per noi americani il modo con cui è stata condotta l'operazione è stata un modello"). E ancora lodi per gli aiuti umanitari per l'Africa così come per il ruolo giocato nella difficilissima operazione in Afghanistan, anche se su quest'ultimo e delicato campo strategico, l'ambasciatore Spogli non ha nascosto i problemi creatisi all'interno della NATO dove tutti dovrebbero avere gli stessi diritti ma anche condividere gli stessi doveri. Spogli così non si è lasciato sfuggire la battuta, dicendo che troppo spesso certi "multilateral effort" vengano poi interpretati da qualche alleato come se fosse la traduzione di "American effort".
Quando il direttore della Casa Italiana Stefano Albertini ha iniziato con le domande, ha ricordato a Spogli l'ormai celebre articolo del "New York Times" firmato da Ian Fisher e uscito lo scorso ottobre in cui si sosteneva che l'Italia fosse in uno stato di "malessere" sempre più grave e pericoloso. È proprio così o solo esagerazioni di stampa?
Qui l'analisi di Spogli è cominciata a farsi più sofisticata: "Gli italiani sono seriamente preoccupati di non poter passare ai figli lo standard di vita di cui hanno goduto per tanti anni". Dato che il miracolo economico degli anni precedenti è solo un ricordo, "qualcosa deve cambiare per rilanciare l'economia e ridare, specialmente ai giovani, ottimismo sul futuro". È sui giovani che l'Italia si gioca tutto perché, ha ricordato Spogli, quando i giovani sono ottimisti, questa carica si trasferisce sulla società, ma in Italia ciò non succede più. Così Spogli ha citato uno studio in cui si viene a sapere che se il 70% degli studenti universitari americani ritengono che il futuro dipenda da fattori che rientrano nel loro controllo, in Italia la percentuale è esattamente ribaltata, cioè il 70% dei giovani sono convinti del contrario, che il loro futuro non dipenda da loro ma da fattori incontrollabili: "Qualcosa deve cambiare perché ogni crescita economica è legata all'ottimismo dei giovani".
Era scontato che alla domanda sulla campagna elettorale e sulle previsioni di chi governerà a Roma, l'ambasciatore americano non si sbilanciasse ma invece desse l'unica risposta possibile dopo la fine della Guerra Fredda: Washington sa che dopo lunedì, chiunque vinca, le relazioni tra Italia e gli Stati Uniti "resteranno eccellenti". Però poi ha aggiunto che le risposte fornite alla soluzione dei problemi da Berlusconi e da Veltroni praticamente si possono "sovrapporre... ed é un bene che ci sia un terreno comune anche perché ci vuole un terreno comune per fare cambiamenti che non sono facili". Insomma Spogli ha detto una verità che al di là delle scaramucce verbali ha distinto questa campagna elettorale italiana. Ma con chi Spogli tra Berlusconi e Prodi, a livello personale, si è trovato meglio a lavorare? "A livello personale sono tutte persone piacevoli, sia Silvio Berlusconi e l'allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini, sia Romano Prodi e Massimo D'Alema", ha risposto l'ambasciatore, qui diplomatico fino al midollo.
Ma il piatto forte della serata Spogli lo avrebbe riservato per i problemi dell'economia italiana, che non cresce più. Ecco che qui il linguaggio del diplomatico sparisce per far posto a quello diretto dell'uomo d'affari che, caso più unico che raro in America, in questo caso ha anche una conoscenza così profonda della storia italiana. Quando Albertini ha chiesto cosa l'Italia dovrebbe apprendere dagli Usa, ecco la risposta secca di Spogli: "La meritocrazia. In Italia si deve tornare ad un sistema dove le capacità di competere siano premiate. Parlo soprattutto nelle università e non solo per quanto riguarda gli studenti, ma anche i docenti."
Per cercare di spingere la collaborazione delle idee e delle imprese e stimolare l'economia italiana, Spogli ha ricordato il suo programma "Partnership for Growth", in cui ha praticamente investito molto della sua missione diplomatica. A questo punto abbiamo avuto l'occasione di porre la nostra domanda ricordando quello che Spogli aveva detto, in un pranzo a New York con il Gruppo Esponenti Italiani tenuto a pochi mesi dalla sua nomina, che nella sua missione in Italia egli avrebbe cercato di risolvere un problema grave: quello di essere, l'Italia, il paese europeo che attrae meno capitali americani. Quindi abbiamo chiesto: dopo tre anni il problema non è stato risolto, anche il famoso articolo del New Yortk Times lo ha ricordato. Ma quale sarebbe per Spogli il motivo principale che rende l'Italia ancora così poco attraente? Forse una politica troppo sprecona e troppo coinvolta negli affari? Forse la minaccia della criminalità organizzata? Una giustizia così disastrata da essere un fattore di alto rischio per il business? Quale? Ecco la risposta di Spogli diretta al cuore del problema:
"Mi verrebbe di dire tutti questi motivi... Già, dagli Stati Uniti vengono investiti più soldi in qualsiasi paese dell'Europa occidentale che in Italia, Portogallo escluso. Parliamo di investimenti cumulativi di diversi tipi di business. È una grande questione quella della mancanza degli investimenti dall'estero, perché cosa significa in realtà essere in grado di attrarre investimenti stranieri? A cosa serve? Questi investimenti sono importanti perché portano conoscenza, il cosidetto ‘know how'. Una volta ho sentito dire ad un businessman italiano che dopotutto non importava, tanto l'Italia i capitali li ha già. Ma non è così, tutti i paesi hanno bisogno di attrarre capitali stranieri, perché con quel capitale arriva anche la conoscenza. Perché i soldi non viaggiano senza essere accompagnati dall'intelligenza, altrimenti non ci sarebbero tutti questi soldi in giro. Quindi si riceve un beneficio tremendo nell'incoraggiare il capitale ad arrivare al business, ad entrare nel paese. Perché il capitale non arriva in Italia? Se dovessi scegliere di dare una risposta, un solo fattore, allora bisogna prima ricordare che l'economia italiana tra le due guerre fu strutturata all'interno di un capitalismo di stato. Durante il fascismo circa il 70% dell'economia del paese era controllata dallo stato. E fino ad oggi noi stiamo ancora vivendo in Italia una incompleta rivoluzione che avrebbe dovuto allontanare l'Italia da quel sistema in cui lo stato controllava tutti i mezzi di produzione. E a causa di quell'incompleto passaggio, manca ancora in Italia quella fiducia nel mercato che invece abbiamo negli Usa. Noi sappiamo che un mercato in competizione è un toccasana per l'economia, come avviene con le università. Noi negli Usa crediamo fermamente nella nozione della competizione. Questo non avviene così in Italia e per questo paga un prezzo. Così una serie di servizi non sono efficenti come dovrebbero perché non c'é il livello di competizione simile agli altri. Quindi fattori che possono stimolare, meno barriere alla competzione più opportunità per il business di entrare in competizione, e infine avere una più positiva attitudine nei confronti del ‘risk taking' come antidoto di lungo periodo allo sviluppo. Si deve dare l'opportunità di poter prendere dei rischi calcolati e non temere che così il sistema diventi squilibrato e ingiusto. Ed ecco il fattore per il quale il business dei capitali americano non viene attratto dall'Italia, perché in qualche modo ci vede un mercato troppo opaco, dove le regole non sono le stesse per tutti. Questa è la ragione per cui manca un investimento dall'estero maggiore. Altrimenti non ci sarebbe ragione per cui certi capitali che vanno così numerosi in altri paesi non vengano attratti anche dall'Italia. Ma si deve avere un sistema che appaia meno complicato e soprattutto dove le regole siano valide per tutti e allo stesso modo, invece di restare più vantaggiose solo per coloro che sono già dentro quel sistema economico".
Una "rivoluzione" ancora tutta da compiere quindi e, ovviamente, Berlusconi o Veltroni permettendo...
(Published in America Oggi/Oggi7, April 13, 2008)
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