“No Name”: La cantante siciliana Francesca Incudine rievoca l’incendio della fabbrica del Triangle
Ho sentito per la prima volta la canzone di Francesca Incudine circa un anno fa mentre facevo ricerche sulle rappresentazioni letterarie ed artistiche dell'incendio della fabbrica del Triangle per un corso che insegno su quell'argomento alla New Jersey City University e per il libro completato recentemente insieme a Mary Anne Trasciatti, un’antologia di saggi intimi e politici sull’incendio della fabbrica del Triangle, Talking to the Girls. Nel mio corso, spingo gli studenti a cercare connessioni personali con l'incendio del 1911. Io e Mary Anne abbiamo chiesto ai diciannove autori che hanno scritto saggi per il libro di raccontarci le loro storie collegate all'incendio. Abbiamo chiesto loro di intrecciare l'intimo e il politico e di esplorare cosa ha generato e sostenuto il loro interesse per l’incendio, gli eventi che lo hanno preceduto—soprattutto il grande sciopero del 1909 delle 20.000 operaie delle fabbriche di camicette—e che lo hanno seguito—i tanti cambiamenti legali e sociali che hanno riconosciuto la sicurezza nel posto di lavoro come un diritto umano. La prima volta che ho ascoltato la canzone di Francesca, ho sentito la presenza di un coinvolgimento personale nel testo lirico ed inquietante della canzone, nella voce che in maniera viscerale intreccia la poesia spezzata del siciliano e dell'italiano, nelle parole che si incontrano e si mescolano—un ibrido linguistico così familiare per me. Ho sentito la forza evocativa del video musicale con immagini dell'incendio che appaiono come una tela su cui la cantante, che indossa una camicetta bianca, si sovrappone. Ho sentito il bisogno di conoscere Francesca Incudine, un'altra siciliana che ha a sua volta sentito la necessità di cantare per le donne della fabbrica del Triangle.
Come hai saputo della storia dell'incendio della Triangle Waist Company e come e quando hai avuto l'idea di scrivere una canzone sull’incendio?
Francesca Incudine. Io sono stata sempre attratta dall'idea di raccontare storie. Sono una cantautrice, quindi oltre a cantare devo raccontare. Mi piace molto fare passeggiate ed entrare in libreria e perdermi tra i libri. Il libro di Ester [Rizzo Licata] era uscito da poco e si trovava su una colonnina di passaggio. Quel libro mi ha chiamato. Sapevo un po’ della vicenda, in realtà molto confusa, con la data attribuita all’8 marzo, la giornata mondiale della donna, mentre in realtà l'incendio è successo il 25 marzo. Ho preso questo libro. Mi è piaciuta subito la copertina. L'ho letto tutto d'un fiato, la stessa notte. E dopo ho cominciato a sognare tutte queste donne. Ho provato ad immaginare le loro voci. Per una settimana intera questi volti senza nomi, queste storie, mi chiamavano. Avevano bisogno di essere raccontate. Per cui dopo una settimana di suggestioni, di pensare ai loro trascorsi, ai loro sogni volati in cenere, è nata questa canzone--che si ispira al lavoro di Ester. Appena ho scritto la canzone ho sentito l'esigenza di mettermi in connessione con questa donna che aveva fatto questo lavoro su altre donne perché volevo sentirmi parte di questa sorellanza di nomi e di memorie che Ester sta portando avanti da tanto tempo. E’ stato un connubio perfetto tra realtà, musica, e racconto. Io sono molto grata per questi incontri che non credo siano casuali—come il nostro. Queste donne avevano l'esigenza di essere cantate. Io mi sono messa al loro servizio per dare loro voce attraverso questo brano.
La tua canzone ha un qualcosa di sacrale. Puoi parlare del processo di scrittura di questa canzone?
A me piace molto legare la parola al suono e all'immagine. In questo senso io mi sento, lo dico spesso, un po baudelairiana, con questi suoni che si fanno immagini e si fanno poesia. Ho cercato di mettere insieme le immagini che sono contenute nel libro e quei miei sogni ricorrenti durante la settimana dopo la lettura, e ho cercato di ricavare un testo che parlasse per immagini. E’ nato prima il testo. Dopodiché è nata la musica insieme ai miei collaboratori, i miei musicisti. Anche in quel caso il suono si doveva fare parola. Per cui nel brano tu senti un sound che ricorda questo sferruzzare, queste macchine da cucire, questo caos, questi suoni ferrosi, di contrasto alla poeticità del testo, soprattutto quando cambio dall'italiano al siciliano—perché è chiaro che sono stata colpita dalla storia di queste donne siciliane. Molte di loro lo erano—una in particolare, Giuseppina Cammarata, era della provincia di Enna, la città da cui provengo. L'idea di andare a ricercare in immagini e in suono una mia conterranea, una mia mia vicina di casa, mi ha scossa. Ho cercato di trasferire tutto questo nella composizione, nella parola, e nella musica. E’ nato poi il testo che è stato limato, rivisto, e ovviamente la materia grezza e diventato l'abito che hai ascoltato.
Puoi parlare dell'uso del siciliano nelle tue canzoni e della mescolanza di siciliano e italiano?
Io da quando ho iniziato a cantare ho sentito l'esigenza di farlo nella mia lingua madre, anche se col tempo ho aggiunto l'italiano per dare chiavi di lettura [per quel pubblico che non conosce il siciliano], senza però snaturarsi perché il siciliano è una lingua così musicale con tante parole intraducibili, come del resto è vero per altri dialetti e lingue. Io dico sempre che è importante che nella lingua in cui si canta, qualunque essa sia, ci sia un messaggio di verità. E’ importante per l'artista esprimersi nella lingua in cui si riconosce. Ed è importante che chi ascolta sia pronto a superare il pregiudizio, la paura di ciò che non conosce.
Ho sentito fortemente l'esigenza di fare parlare quelle donne in siciliano, soprattutto in quei momenti di racconto, e di partenza dalla loro terra. Infatti il passaggio dall'italiano al siciliano nella canzone è proprio in quel momento del flashback, del ricordo della traversata. Mi sembrava un giusto omaggio a questa terra che per loro era tanto amara e tanto bella e che hanno dovuto lasciare per rincorrere un sogno che è andato perso in cenere.
Perché hai scelto il titolo “No Name”?
La cosa che più mi aveva colpito era proprio questa, [l'immagine di] questi corpi con questi orli di gonne, queste scarpe senza tacco, questi volti senza un nome. Il nome identifica. Abbiamo bisogno di essere chiamati per nome per sentirci riconosciuti. Ho sentito il dovere di riconoscere queste donne assenti dalla storia per dar loro memoria e persino, attraverso la musica, dignità. Non erano solo donne che lavoravano in fabbrica: erano Giuseppina, Maria, avevano la loro storia, i loro sogni, avevano una madre, un padre, un fidanzato. Il nome racchiude una storia.
Il testo di “No Name” è molto preciso storicamente. Per esempio, tu usi il nome originale della fabbrica, Triangle Waist Company, invece del nome che è comunemente usato, Triangle Shirtwaist Factory; dai il nome della palazzina, Asch; menzioni il famigerato nono piano, che tra i tre piani della fabbrica era quello in cui c’è stato il maggior numero di vittime; canti delle le porte sbarrate. Perché è stato così importante per te stare attenta ai dettagli storici?
Credo fosse necessario contestualizzare e parlare di dati storici come fa un cronista. Mi sono messa nei panni non solo di una cantautrice ma di un cronista perché la cronaca ha quel taglio lucido, a volte pietrificante che ti mette in una posizione di ascolto. “In 146 bruciammo a marzo.” Ti raggela e ti riporta dalla poesia alla realtà in un attimo. E’ importante dire che queste cose sono successe in un tempo, in un luogo, soprattutto quando la musica raggiunge le nuove generazioni. Ci sono un sacco di ragazze e ragazzi che ascoltano la mia musica e che si sono innamorati di “No Name.” Attraverso “No Name” hanno conosciuto questa storia. Era importante che la storia fosse precisa—e in questo ovviamente mi ha aiutato il lavoro certosino di Ester. Io poi ho ampliato il mio bagaglio. Sono andata a cercare le immagini, immagini che ho ricomposto in maniera frammentata nel video, dove immagini [d’archivio] si sovrappongono a me, il passato si sovrappone al presente, e si sovrappone anche al futuro--per evitare che determinate cose succedano di nuovo.
Il video è straordinario, molto evocativo, con quell’immagine di te che indossi la camicetta bianca, il mare che ha tanti strati di significato. Che ruolo hai avuto nella scelta delle immagini del video?
L'idea è stata pensata insieme al videomaker Emanuele Torre, che ha condiviso a pieno quest’idea della stratificazione dell'immagine, cosicché anch'io divento racconto, e ha anche condiviso l'idea del potere evocativo del mare. Io che vengo da un paese dove il mare non esiste, il mare lo evoco sempre nelle mie canzoni. Sento questa esigenza di vastità, di far navigare i pensieri. Credo che nel video l‘immagine del mare sia fondamentale perché è stato il mezzo che ha portato con sé questa storia che continua a parlarci oggi.
Si parla spesso del fatto che l'incendio sia successo di sabato, un fatto importante perché tante delle operaie erano ebree e lavoravano sebbene fosse il sacro Sabbath. Ma non si parla tanto, o affatto, del fatto che era la giortnata dell’Annunciazione. Perché hai voluto inserire questo dettaglio nella tua canzone?
Sono contenta che hai notato questo dettaglio. L'Annunciazione è un dettaglio significativo che ho voluto aggiungere alla data del 25 marzo. Ovviamente l'Annunciazione ha un suo significato religioso. Ma è anche un presagio, in questo caso non di vita ma di morte. Quindi [creare] il contrasto tra la vita che viene annunciata e la morte che da lì a poco le ragazze avrebbero trovato è stata una scelta consapevole.
Negli anni Settanta, una canzone del Movimento Femminista Romano, “8 marzo,” parlava di operaie morte in una fabbrica. Si sapeva che la canzone parlava di un incendio di una fabbrica newyorkese, ma non si sapevano i dettagli, e che tante delle operaie morte nell'incendio erano italiane, soprattutto siciliane. Con la tua canzone tu hai creato tutti questi collegamenti ma anche colmato vuoti storici. Credi che la storia dell'incendio che esiste da decenni nella coscienza femminista italiana, anche se in maniera vaga, adesso in Italia si conosca meglio grazie alla tua canzone, il musical di Marco Savatteri, il libro di Ester Rizzo e la bellissima iniziativa di Toponomastica Femminile? O pensi che sia tutt'ora una storia poco conosciuta o non-riconosciuta come un capitolo chiave della storia dell'emigrazione italiana?
Io credo che la sovrapposizione esista ancora, che ci sia ancora questo falso storico di cui tu parli e soprattutto esiste il falso culturale della festa delle donne—si chiama festa delle donne ma c'è poco da festeggiare. C'è tanto da ricordare. C’è ancora uno sfasamento culturale. Siamo noi stesse donne che stiamo parlando di noi stesse e dobbiamo riappropriarci di alcuni tasselli che ci mancano. Per me è stato fondamentale chiarire, mettere ordine nella storia, nella mia arte, nella mia storia, nella mia maniera di comunicare. Dobbiamo recuperare una cosapevlezza storica e culturale per poter comunicare e tramandare. La musica non può essere solo fine a se stessa. Almeno come la vivo io, a 360 gradi. Ci deve essere uno stretto legame tra ciò che vivo, ciò che canto e ciò in cui credo.
Hai in programma altre canzoni che affrontino storie dimenticate, come quella della fabbrica del Triangle?
Sto lavorando a un progetto che si chiama Voci fuori dal muro e raccoglie una serie di canzoni legate tra di loro dal simbolo del muro che si erge a barriera ma si fa trasparente. La seconda canzone, che uscirà ad aprile, racconta la storia di Sabeen Mahmud, un’attivista Pakistana che è stata uccisa a colpi di pistola perché difendeva i diritti umani. Ho conosciuto questa storia grazie alla console italiana che mi ha invitato in Pakistan. Anche questa canzone è venuta sotto forma di sogno, dopo che ho letto un suo libro e testimonianze, e dopo che ho visto dei video.
Iettavuci è una specie di manifesto della tua arte. “No Name” è una forma di “iettari vuci”?
Esatto. Iettavuci è stato il primo lavoro. Tutti miei lavori successivi sono accomunati da quell’esigenza, che allora era un'esigenza personale, di esprimersi, di farsi sentire, ma anche dare voce a chi voce non ha più, o la voce ce l'ha spezzata, ce l'ha debole, o ha paura di dire quello che pensa--e [bisogna] trovare chi ascolta. Abbiamo bisogno di dialogo, di confronto. Senza dialogo e senza confronti siamo, come diceva Bufalino, delle isole nelle isole che non si incontreranno mai con nessuno.
Comments
1
1
1
1