Nudi, oggi più di ieri, privati del lavoro

Gennaro Matino * (January 19, 2014)
La mancanza di lavoro non solo provoca il disagio del singolo, ma mina alla base la struttura stessa di una nazione, determinando la crisi del sistema societario indebolito nel suo primo principio


«LA GUERRA non è finita », queste le parole inascoltate di Gennaro Iodice, il protagonista di “Napoli milionaria” di Eduardo. Il reduce, ritornato a casa dopo la seconda guerra mondiale, trova una Napoli imbastardita e senza più onore, venduta per pochi spiccioli ai nuovi occupanti.


Dopo quella tragica esperienza di dolore e morte Gennaro comprende che, dopo ogni guerra, la ricostruzione di un uomo o di una città intera non solo è questione di denaro, ma di cuore, di sentimento, di valori.


«Adda passà a nuttata», è la celebre affermazione del protagonista che tradisce l’ansia profonda non solo per la figlioletta in fin di vita, non solo per la sua famiglia che ora rischia di scomparire sotto il peso della corruzione, ma sulla città intera, sui mille abitanti che la vivono senza orizzonti alti, incapaci di trovare nuovi significati di appartenenza per poter dare inizio a una convivenza nuova.


«La guerra non è finita», già. Anch’io me lo sono sentito dire all’improvviso quando, qualche giorno prima di Natale, quelle stesse parole mi sono state scaricate addosso da Luciano, lo chiamerò così. Cinquant’anni da poco compiuti e un posto di lavoro alle spalle, ormai con poche, nessuna speranza di poter essere reinserito nel mondo del lavoro. Due figli ancora da sistemare e una moglie innamorata che ogni sera lo aspetta con la speranza nel cuore, la speranza di una nuova occupazione, di una risposta positiva di un conoscente.


E invece niente, nessuna prospettiva e per quanto la moglie gli dica di non disperare, Luciano si sente solo, abbandonato da tutti. Solo, con gli occhi del mondo addosso che sembrano impietosamente ribadire: sta in mezzo a una strada. Gli stessi occhi della donna amata, gli ultimi che vorrebbero la sua condanna, e che invece finiscono col dilatare quel tormento interiore, quel senso di colpa senza nessuna colpa, nessuna responsabilità, per aver perso la propria dignità, rubata da una crisi che insieme al capitale ha svenduto l’ideale dello Stato democratico fondato sul lavoro.


Luciano mi ha vomitato addosso tutto il suo dolore e la sua sconfitta, le parole ingenue della moglie che continuava a ripetergli che la guerra è finita, che la crisi è alle spalle. Lo aveva detto la televisione. Ma Luciano sapeva che per i tanti disgraziati come lui non c’era futuro, non c’era speranza. E a nulla sono servite quel giorno le mie parole di conforto. La scorsa settimana ha tentato di farla finita. Ora piange, ripete alla moglie perdonami, ma inconsolabile si sente nudo, perché nudi si resta senza la dignità di un lavoro.


Nudo è chi viene spogliato dei suoi diritti, nudo è un popolo senza libertà, svestito dai tiranni di turno. È nudo chi è impedito nelle proprie capacità e nelle proprie risorse. Sono nudi uomini e donne, soprattutto i più giovani, che vorrebbero realizzare i loro sogni e invece trovano dinanzi a loro corruzione e sopruso. Nudo è un sistema politico che non riesce a vestire d’ingegno, a coprire di futuro e prosperità il suo popolo. E ancor di più è nudo, oggi più di ieri, chi è privato del lavoro, come Luciano, come tanti, troppi, svestiti dell’onore.


La mancanza di lavoro non solo provoca il disagio del singolo, ma mina alla base la struttura stessa di una nazione, determinando la crisi del sistema societario indebolito nel suo primo principio. La disoccupazione che avanza, inarrestabile, crea le condizioni per una disaffezione sociale, rende instabile il dialogo tra le parti, determina disordine, ribellione, violenza. Ma può provocare anche altro, molto spesso ignorato o semplice motivo di compassione: la solitudine, pensieri insopportabili, reazioni estreme. La mancanza di lavoro deprime i mercati, la stabilità sociale, ma soprattutto deprime l’umano e deprime a tal punto da far sentire l’esigenza di “rinegoziare” la propria appartenenza, fino a voler desiderare di essere altrove. Morto.


«La guerra non è finita» e malgrado le rassicuranti parole dei politici di turno, ne sono convinto anch’io, di sicuro ne sono convinti i tanti Luciano che sulla loro pelle sperimentano la rottura di ogni speranza. E bisogna stare attenti perché se all’onta del lavoro perso si aggiungessero false speranze, l’illusione di un lavoro che non c’è, se tutto questo venisse vissuto come l’ulteriore beffa di un sistema di potere falso e lontano dai bisogni della gente, potrebbe accadere che i tanti Luciano si uniscano per rivendicare con maggiore forza i loro diritti e gridare la loro indisponibilità a rassegnarsi.

* Gennaro Matino  è docente di Teologia pastorale. Insegna Storia del cristianesimo. Editorialista di Avvenire e Il Mattino. Parroco della SS Trinità. Il suo più recene libro: Economia della crisi. Il bene dell'uomo contro la dittatura dello spread”


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