L'umanità intera sconfitta nella nostre stazioni

Gennaro Matino (March 01, 2016)
Le stazioni non sono solo il regno di bambini sfortunati in cerca di improbabile sopravvivenza, sono la masseria dello sfarzo arrogante e malato di una società che finge, si nasconde, giudica, condanna, mentre all'esterno si veste di moralismo nelle sue viscere si gonfia di corruzione. Le stazioni sono le città di sotto, il mondo sottosopra, dove il degrado di sfortunati interpreti di malata sostanza, protagonisti spesso inconsapevoli di un mondo falsamente diviso tra verità e maschera, tra realtà e finzione, tra carnefici e vittime, rimane nascosto, lontano, separato, indifferente alla fretta del viaggiatore, ai tempi di una vita in corsa



VITA da stazione, pellegrinaggi underground di umanità sottoterra. "A metà degli anni Novanta facevamo anche cento arresti al mese. Scippi, rapine, risse". La "Repubblica" in settimana racconta di un terzo di reati in meno a Roma Termini, la minaccia di attentati ha costretto le forze dell'ordine a raddoppiare la propria presenza. Lo stesso a Napoli. "L'Espresso" pubblica invece un dossier sui giovani dello zoo di Roma, triste apologo di quello di Berlino degli anni '70.

Decine di immigrati minorenni, senza famiglia, costretti a vivere tra i binari, negli anfratti incustoditi, nei cessi maleodoranti, e a prostituirsi per mangiare. Accade in quella stessa stazione "liberata" di Roma, dove ragazzi venuti dal nulla e scomparsi dal vocabolario della cittadinanza civile sono preda di pedofili. Anche a Napoli. 




Le stazioni non sono solo il regno di bambini sfortunati in cerca di improbabile sopravvivenza, sono la masseria dello sfarzo arrogante e malato di una società che finge, si nasconde, giudica, condanna, mentre all'esterno si veste di moralismo nelle sue viscere si gonfia di corruzione. Le stazioni sono le città di sotto, il mondo sottosopra, dove il degrado di sfortunati interpreti di malata sostanza, protagonisti spesso inconsapevoli di un mondo falsamente diviso tra verità e maschera, tra realtà e finzione, tra carnefici e vittime, rimane nascosto, lontano, separato, indifferente alla fretta del viaggiatore, ai tempi di una vita in corsa. Ghetto di perduti, pura invenzione del mondo "perbene" che ha bisogno dei bassifondi per scoprirsi vincente, che paga prostituzione per sciogliere le giaculatorie della propria depravazione. Ghetto di vinti in combattimento tra luce e tenebra, contrario ma non opposto alla civiltà di sopra, specchio di città, di società, ipocritamente imbellettate fuori e corrotte dentro, malate sostanze, difficili da sanare con semplici maquillage di facciata. Nelle stazioni le storie underground raccontano il naufragio della dignità umana calpestata per gioco dal massacro di chi ha fatto dell'etica un optional, di chi smercia l'inferno per paradiso. 




David Maria Turoldo così scriverebbe pensando al male nella storia che riemerge puntualmente quando l'uomo smarrisce la sua vocazione, quando risale la scala mobile del suo sotterraneo mondo: "Uomini, dentro, Non avete che morte, Morte che vi circola nel sangue, morte nel cuore, negli occhi nelle mani… Polvere di morte le parole… anche i bambini hanno la morte in faccia". Città malate, contaminate dai loro stessi bassifondi che, solo se curati nel profondo, possono riportare luce a civiltà in declino, città malate da epidemie di verità taciute, costrette a dirsi oneste fuori mentre restano marce dentro.




Non ci sarebbero spacciatori senza drogati, non ci sarebbe prostituzione senza clienti, non ci sarebbe corruzione senza avidità, non ci sarebbe demagogia senza falsa politica, aborto di libertà, e non ci sarebbero stazioni degradate senza viaggiatori troppo distratti o collusi con chi nella stessa stazione di tanto in tanto cerca albergo per sfogare le sue turpi passioni. Viaggiatori politici, ecclesiastici, istituzionali, gente comune a cui potrebbe perfino far comodo il disordine, a cui potrebbe servire un capostazione che garantisca il sovvertimento etico di una parte di società per continuare a esercitare il proprio potere indisturbati, ad accumulare quattrini, a dividere le folle più che a unificarle. Potrebbe convenire un disordine etico, spirituale, della gente, anzi perfino provocarlo, per poi offrire a pagamento soluzioni provvisorie, miracolistiche, emozioni momentanee, rinviando con strategia consumata le scelte più radicali. E mentre il disordine impera, gli ideali più alti svaniscono, le fedi si consumano e si accresce il sottobosco di storie di vite frantumate tra di loro incomunicabili.



 

La folla distratta dai falsi modelli, costruiti ad arte dall'economia diabolica, diventa sempre più solitaria, anonima, ridotta a merce incapace perfino di meravigliarsi, apatica al punto di non provare più dolore o compassione per bambini sedotti e seviziati nei suoi bassifondi. In fin dei conti ci si può convincere che è possibile, dietro la facciata di standards comuni, vivere in qualsiasi modo, realizzarsi in qualsiasi modo, magari scegliendo la morte degli altri e anche per sé, semplicemente rimanendo indifferenti. 




Intanto a Napoli i candidati si preparano alla sfida elettorale, il mondo di sopra riorganizza i suoi cerimoniali per scegliere la sua guida. La città di sotto, quella che si nasconde tra le pieghe dei salotti buoni o delle stazioni degradate, nelle periferie del dolore o nelle strade rinomate, nel frattempo continua a scrivere la sua dolorosa storia, mentre i viaggiatori di sopra continuano ipocritamente la loro quotidiana corsa fingendo di non accorgersi di nulla. 

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