Pregare in metropolitana
La linea A scorre lungo i capillari di Manhattan, come sempre. Ancora una volta mi scopro ad aggrovigliare pensieri, seguendo i volti delle persone che salgono e scendono dal mio vagone. E si incontrano occhi stanchi che vogliono dormire, occhi che sorridono, occhi che ascoltano musica, che parlano, che cantano, che sognano.
E’ un giorno come tanti, sembra una corsa di metropolitana qualsiasi. O almeno fino a quando incontro il volto di una giovane donna di cui si vedono poco più che gli occhi. Occhi circondati da stoffa.
Capita di vedere giovani musulmane abbastanza spesso sulla metropolitana a New York, ma questa ragazza entra in scena come in un teatro. Per destare sorpresa, attimo dopo attimo.
E’ insieme ad un uomo. Si viene a sedere accanto a me che dopo poco, immersa nei miei pensieri, quasi la dimentico. Ma una voce maschile abbastanza forte, di cui non capisco neanche la lingua, riattira presto la mia attenzione.
Il suo compagno di viaggio discute con lei. Mentre parla le stringe il velo intorno agli occhi e la fa stare in posizione più dritta. Lo fa con un gesto netto. Un gesto forte, eloquente.
Parlano ancora, e poco dopo lui le sposta le braccia che lei aveva adagiato comodamente sulle gambe. Le muove come se fossero arti di un bambola. Le accosta in una posizione ‘conserta’.
Sotto queste braccia una borsa guardata con attenzione da entrambi. Sotto questa borsa le gambe della donna iniziamente rilassate che lui stringerà con forza. Ancora una volta sposta gli arti di lei, con un gesto netto, padrone. Movimento che ripeterà più volte nel corso del viaggio.
I mei occhi non si incontreranno mai, durante dieci interminabili minuti di storia, con quelli di quest’uomo. Eppure lui seduto affianco a lei, un posto più in la’, sarà il regista inconsapevole del mio racconto.
Dentro di me sentro avanzare d’imperio, quasi incontrollabile, quella naturale insofferenza che provo quando vedo uomini controllare ancora le donne. Quando colgo momenti di sottomissione femminile. Mi colpisce e mi ferisce il modo di quell’uomo di controllare non solo abiti, ma posizione, gestualità, di quella donna che ha vicino.
Mentre io seguo il corso dei miei pensieri “femministi”, intorno a me guardano e si parlano altri sguardi. Loro sono quasi da subito intimoriti, sospetti.
Io mi interrogo sulla mia insofferenza e ci metto un pò di tempo ad accorgermi che invece motivo di attenzione degli altri non è la donna, ma la sua borsa. Oggetto che ingnaro di tutto, rimane appoggiato sulle gambe e apparentemente guardato a vista.
L’uomo, dopo aver per l’ennesima volta corretto la posizione di lei, prende dalla tasca un piccolo vecchio libretto con delle pagine staccate. Comincia a leggerlo. Lei rimane in silenzio. Lui inizia, probabilmente, a pregare.
Legge a voce alta di fronte a tutti. Voce possente. Si distrare solo per sistemare la posizione di lei, per farle stringere ancora una volta le braccia sulla borsa. Per chiuderle - se mai fosse possibile di più - il velo, per avvicinarle le gambe. Molti passeggeri scendono ad una fermata poco importante.
Il treno diventa silenzioso. Nessuno parla. La voce dell’uomo attraversa tutto il vagone, a contrastarlo solo un rumore di ferraglia. La donna, forse, sussurra. Ma non vedo le sue labbra. La tensione sul treno cresce nel momento in cui il vagone si ferma tra uno stop e l’altro e nessuna voce ne annuncia il motivo.
Lui continua a pregare a voce altra, lei stringe la borsa. Lui le stringe braccia e borsa.
Anche dentro di me, piano piano si fa strada un dubbio: e se ci fosse un ordigno dentro quella borsa? Piano piano partecipo alla tensione del vagone. Abbandono il mio impeto femmista. Alla prossima fermata scendo, mi dico.
Il treno riprende la sua corsa, lui continua a pregare ancora per qualche secondo. Lei ha gli occhi bassi, le gambe strette, la borsa coperta dalle sue braccia conserte. Nessuno parla.
Lui smette di leggere. Prende il libretto lo ripone in tasca. Lei lo guarda. Lui sembra distendere i propri muscoli. Le sue mani rigide e tese si lasciano andare. Le fa una carezza, e ancora un’altra. E poi le stringe la mano. Le da un bacio sulla guancia. Parla inglese. Ha finito la sua lettura, forse la sua preghiera.
Il vagone si rianima, tira un sospiro. Le persone riprendono a parlare. Li guardano diversamente.
Se ne vanno mano nella mano lui e lei.
Un altro passeggero mi dice: “Anche tu hai avuto paura?”
Io adesso ho un’altra paura, quella di non saper anch’io riconoscere il diritto ad essere diversi.
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