Dal Concilio Vaticano II a Ratzinger. Evoluzioni e devoluzioni dei rapporti ebraico-cristiani
In occasione della Giornata della Memoria si terrà a New York una convention intitolata "Forced Conversion in Papal Rome". In quanto Professore di Storia del Cristianesimo, le risulta vero che la Chiesa tentò un’opera di conversione nei confronti delle vittime ebree delle persecuzioni fasciste?
Un tentativo pianificato di conversione degli ebrei perseguitati non ci fu: sappiamo invece che la lunga tradizione dei battesimi forzati e la disciplina del "favor fidei" avevano lasciato strascichi e mentalità che in qualche caso non si esaurirono neppure nella grande tragedia della Shoah. Tant’è che in qualche situazione sappiamo che ci furono bambini ebrei che vennero battezzati, spesso nella convinzione che erano rimasti orfani non solo dei famigliari ma anche della loro appartenenza profonda. Sappiamo anche che in altre situazioni – una è diventata famosa perché ne è stato protagonista don Wojtyla – preti e religiosi si adoperarono perché i bambini salvatisi in case religiose o cattoliche venissero riconsegnati alla comunità di cui erano a volte fra i pochi superstiti.
Sappiamo anche che la situazione suscitò delle discussioni difficili: per la Francia, dove era nunzio una vecchia conosecenza della Jewish Agency di Istanbul come mons. Roncalli, il quale aveva assicurato il suo impegno per la restituzione dei bambini ebrei alle autorità ebraiche, il sant’Ufficio elaborò una istruzione che ribadiva i vecchi principi del regime di cristianità e del potere temporale a sfavore degli ebrei. E che dunque i bambini battezzati anche "invitis parentibus" dovevano essere cresciuti cristiani, come se Israele fosse una sorta di ghetto del mondo, dove gli ebrei battezzati non dovevano rientrare.
In quella vicenda un abile gioco di ritardi e rinvii fra segreteria di Stato, nunziatura ed episcopato riuscì ad evitare che la questione diventasse un disastro internazionale. Ma è rivelatore del fatto che neppure l’azione di soccorso che ci fu e in vari casi fu coraggiosissima, riusciva a modificare una mentalità che giudicava il battesimo la miglior cosa che potesse capitare ad un ebreo.
Verranno presto santificati due Papi, Giovanni Paolo II e Paolo XII, il primo generalmente amato, il secondo una figura controversa per la linea politica adottata durante l’epoca fascista. In una recente intervista apparsa su H2ONews a don Giancarlo Centioni, il sacerdote testimonia sulla rete clandestina creata da Pio XII per aiutare gli ebrei in fuga. Secondo don Centioni centinaia di questi ebrei erano a conoscenza che ad aiutarli era "Pio XII, attraverso noi sacerdoti, attraverso la 'Raphael's Verein', attraverso i Verbiti Società Tedesca a Roma". Una verità poco conosciuta. Servirà a destinare a questo Papa un altro posto nella storia?
Per ora le beatificazioni non ci sono: si dice che ci sarà ad ottobre quella di Giovanni Paolo II, ma per Pio XII una data non c’è. Quel che il papa ha firmato a dicembre è un decreto sull’eroicità delle virtù di Pio XII che potrebbe anche essere tenuto così per un periodo più o meno lungo, a seconda delle valutazioni del papa e della Segreteria di Stato che valuta le contingenze anche politiche di atti che appartengono come tali al giudizio teologico "interno" al cattolicesimo.
Ma in vista di quest’atto c’è stata una grande campagna di mobilitazione che ha teso a dire che la discussione su Pio XII era frutto di una congiura ordita dall’URSS, da Israele, dai cattolici polacchi irritati col papa che la mattina del 1 settembre 1939 non disse la parola Germania e che dopo Yalta lasciò la Polonia fidelis sotto il tallone russo. Alla metà degli anni Sessanta, quando il tema dei silenzi di Pio XII esplose nella opinione pubblica, Paolo VI che della politica di Pacelli era stato un collaboratore strettissimo, decise di pubblicare undici volumi di Atti della santa Sede nella seconda guerra mondiale: non c’era una tesi preconcetta, ma il tentativo di dire che la santa Sede sapeva poco, che temeva reazioni peggiori del bene procurato dalla denunzia, che attraverso la sua rete diplomatica aveva operato non certo in favore dei perpetratori delle Shoah che battono l’Europa dell’est e dell’ovest. Oggi la tendenza s’è rovesciata: è quella di dire che invece vanno fatte risalire all’ordine del papa tutte le azioni di soccorso messe in opera durante la guerra e specialmente a Roma. E che dunque Pio XII va beatificato proprio per questo.
A mio parere c’è in molte di queste posizioni – a volte molto prudenti sul piano storiografico, altre volte sfacciatamente apologetiche – una debolezza fondamentale. La scelta di Pio XII del silenzio fu consapevole, ormai, dopo la pubblicazione dei diari Roncalli, lo sappiamo con certezza: quella scelta lo spinse a non dire mai la parola ebrei dal 1939 al 1945 e a non parlare mai della Shoah dal 1945 al 1958, quando invece il tema si affacciò nel dibattito pubblico e in quello storico e teologico.
E’ evidente che ciò non dipendeva da una sua simpatia per il nazismo che non ci fu mai: discendeva da una convinzione sulla neutralità vaticana, sul pericolo bolscevico e si legava alla convinzione, espressa fino alla fine del 1943, che esistesse un antisemitismo cattivo (quello razziale biologico) e uno buono che doveva guardare in modo diverso agli ebrei battezzati (come tutti sanno p. Tacchi Venturi fu mandato dal Governo Italiano dopo la caduta del fascismo per domandare una abrogazione solo parziale delle leggi razziali); e faceva parte di questo intricato gomitolo di illusioni, mentalità e scelte anche il soccorso agli sventurati che bussavano alle porte delle case religiose. In questo papa Pacelli rappresentava pienamente le contraddizioni della chiesa.
Sulla testimonianza di mons. Cintioni, cappellano della milizia fascista, vicino a mons. Hudal, in grado di andare a colloquio con Kappler (per lamentare la mancanza di frati che assolvessero le povere vittime delle fosse Ardeatine) io mi faccio due domande, che partono dal presupposto che ovviamente questo anzianissimo prelato dica la verità e che i suoi ricordi siano esatti: 1) se davvero questa azione di soccorso era importante e autorizzata da Pio XII in persona perché Paolo VI, che non poteva non esserne a conoscenza, non la face documentare in qualche modo già negli anni Sessanta? 2) se la rete di soccorso che salvò gli ebrei à la prova regina a favore di Pio XII in questo assurda idea che la storia debba "processare" un uomo mezzo secolo, come si deve giudicare la rete, spesso coincidente, dalla quale passarono i nazisti in fuga verso l’America latina e chi ne fu il responsabile ultimo?
Su questo mi sembra ci sia parecchio da lavorare: e questo lavoro non si chiuderà il pomeriggio dopo l’apertura dell’Archivio Segreto Vaticano. Quello che emerge da ogni archivio, specie da uno come questo che contiene milioni e milioni di carte, è sempre un quadro complesso, una serie di significati ed episodi che richiederanno anni per essere inquadrati in modo appropriato. L’idea che un papa come Pio XII abbia bisogno di avvocati frettolosi che vorrebbero trasformare i dubbi in meriti e di accusatori frettolosi che trasformano i fatti in colpe dice che in fondo il problema non è lui: ma ciò che la Shoah ci ha insegnato sulla chiesa, sull’Europa, sull’uomo che vorremmo evadere trovando un paio di colpevoli (o un paio d’eroi) che scorcino le domande.
Con la dichiarazione "Nostra Aetate" del Concilio Vaticano II vi è il primo sforzo della Chiesa Cattolica per l’apertura di un dialogo con le altre confessioni religiose. Molti rappresentanti della religione ebraica al tempo sostenevano che quello fosse un gesto arrivato troppo tardi, che la Chiesa era una delle principali responsabili del silenzio di fronte all’odio antisemita. Ma quali furono le conseguenze effettive del Concilio?
La genesi di Nostra ætate al concilio è significativa: doveva essere un documento sull’ebraismo, quello che Giovanni XXIII aveva promesso a Jules Isaac. Affossato nella fase preparatoria da manovre oscure nel giugno 1962 fu ripresentato per volontà di papa Giovanni e poi "diluito" in un documento sulle religioni per evitare che i cattolici arabi lo vedessero come un riconoscimento dello Stato d’Israele che la chiesa di quel tempo non voleva fare. Anche per questo la diplomazia israeliana e Golda Meier in persona era scettiche sul fatto che quel documento potesse avere un effetto, se non quello di accreditare in Vaticano le dinamiche organizzazioni dell’ebraismo americano che una chiesa molto sprovveduta confondeva con Israele.
E’ stato uno dei grandi meriti dell’ambasciatore Maurice Vischer e del suo numero due Nathan Ben Horin convincere Gerusalemme che senza quel passo e senza quella chiarificazione teologica la chiesa non sarebbe mai uscita dalle sua contraddizioni e incertezze. Ed avevano perfettamente ragione: perché la condanna dell’antisemitismo "quovis tempore et a quibusvis" e la definitva repulsione della catechesi sul deicidio segnò una svolta in cui la chiesa cattolica è stata corifeo e profeta in mezzo alle chiese sorelle. Non solo: ma a mio avviso proprio l’associazione fra giudaismo, col quel quale il cristianesimo ha un rapporto necessitato, e le altre religioni ha dato alla teologia delle religioni un paradigma nuovo e di grande importanza. L’antecedenza e la pura dipendenza della promessa ad Israele dal mistero di Dio ha infatti costituito Israele nel sacramento di tutte le alterità, come si è potuto vedere dopo. Se oggi la chiesa cattolica è in grado di percepire le manifestazioni di antisemitismo con una certa prontezza lo si deve alla svolta conciliare che, con buona pace di tutti i "relativisti del concilio", è una svolta netta come una conversione rispetto ad abitudini e mentalità che offendevano gli ebrei e la fede stessa.
Durante il suo pontificato Giovanni Paolo II ha approfondito molto i rapporti e il dialogo con il popolo ebraico, attraverso iniziative altamente simboliche quali la visita al Muro del Pianto e alla Sinagoga di Roma. Quali ne sono stati i frutti più significativi?
I frutti dei grandi gesti – costituiti quasi come una forma nuova di magistero – di Giovanni Paolo II stanno arrivando lentamente, com’è normale in un grande corpo come la chesa cattolica. A 24 anni dalla sua visita in Sinagoga, Benedetto XVI ha accettato di ripetere quell’incontro e questo doppio precedente, non interrotto, di fatto obbligherà d’ora in poi i papi a continuare questa tradizione che è un segno importante. Il fatto che proprio Ratzinger abbia fatto un gesto che irriterà quei gruppetti lefebvriani che per mesi hanno monopolizzato la sua attenzione e gli hanno creato molte noie, dice che il papa s’è reso conto che il precedente wojtyliano era fondamentale. Che abbia citato in sinagoga la formula del mea culpa del 2000 sull’antisemitismo è un altro frutto del dialogo aperto da Wojtyla nella consapevolezza che si trattava di sbloccare un cammino, non certo di rompere una semplice incrostazione di età intransigente.
In effetti sembra che il papato di Benedetto XVI sembra maggiormente volto a un’apertura verso la chiesa ortodossa piuttosto che con il mondo ebraico. Stiamo facendo passi indietro?
Naturalmente Benedetto XVI non è un antisemita come tanti lefebvriani e non ha nulla a che spartire con una certa cultura del disprezzo che riaffiora in certi settori anche cattolici della società: ha una volontà chiara e precisa i mantenere buoni i rapporti con l’ebraismo e anche con Israele. E le sue parole nelle sinagoghe di Colonia, New York e Roma lo dimostrano. Però il suo sistema teologico si fonda nella convinzione che l’ellenizzazione del cristianesimo costituisca "lo" snodo fondamentale della teologia e in questo egli sente una "indipendenza" della fede e della teologia cristiana rispetto al rapporto con l’ebraismo che sarebbe impossibile sottovalutare.
La visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma ha suscitato reazioni contrastanti, con il presidente dell’assemblea rabbinica italiana, Giuseppe Laras, che non vi ha presenziato. Si aspettava questa reazione?
A me sembra che la visita al Tempio maggiore di Roma abbia segnato un grande successo per il rabbino capo Di Segni. Nell’altra visita Wojtyla si trovava davanti quello che in Vaticano, scherzando ma non troppo, era chiamato il "papa degli ebrei", Toaff. Rav Di Segni appartiene a una generazione più giovane ed ha una autorità più "ordinaria", se posso dir così: e dunque era quello che si assumeva i maggiori rischi. Ha ottenuto molto da Benedetto XVI: lo ha messo in una condizione nella quale il papa ha rinunciato a menzionare Pio XII sulla cui figura erano stati compiuti passi che sembravano fatti non per valutare una normale causa, ma per chiudere una discussione nella quale si cercavano complotti; lo ha portato a fare affermazioni sull’alleanza che un teologo attento come Ratzinger sa che peseranno nel dialogo; e, davanti a un papa che ha rinunziato a ripetere le formule di Nostra aetate contro l’antisemitismo di tutti e di sempre, gli ha ricordato che... il concilio è un punto decisivo e non negoziabile per gli ebrei! Le riserve di chi come Laras ha detto con franchezza che la visita poteva diventare un enodorsment ad attitudini mentali e teologiche negativa nella chiesa mi sembra abbia comunque aiutato Di Segni e abbia giovato perché ha fatto capire che quella poteva finire non con un modesto successo, ma con un grande disastro. E questo ha responsabilizzato tutti.
Come pensa sia cambiato o si sia evoluto il sentimento di anti-semitismo dell’Italia di oggi? Espressioni come "sporco ebreo", "tirchio come un ebreo", non sono scomparse. Volendo escludere un ritorno fascista, quale è il pericolo?
Non sono scomparse quelle espressioni e in più la crisi medio-orientale ha fornito nuove legittimazioni alla creazione di stereotipi collettivi di odio o di risentimento o di disprezzo. Per converso l’ondata islamofobica creata dalle immigrazioni ha motivato un filo-israelianesimo di destra, tutto politico, che conforta quegli stereotipi. E infine nella chiesa l’identitarismo cattolico e nazionalcristiano agitato in alcuni settori considera l’ebraismo qualcosa che si può appiccicare al cristianesimo con un trattino. Il vero problema è la trasmissione da una generazione all’altra di conoscenze sulla profondità di atteggiamenti e mentalità che solo se vengono conosciute possono essere oggettivate e combattute.
Che significato dovrebbe assumere oggi la Giornata della Memoria?
La memoria è una materiale pericoloso: da un lato il calendario si sta riempiendo di obblighi di memoria, di "tu ricorderai" divisi in modo scandalosamente equanime fra vittime del nazifascismo e del comunismo, della mafia e della guerra, col rischio che la somma sia una memoria-zero in cui tutto si mescola. L’idea che la memoria commuova, e la commozione prevenga l’iterazione del male suppone un automatismo che non c’è: a me colpisce che nei viaggi della memoria, che sono utilissimi e necessari naturalmente, i giovani italiani non ebrei si identificano con le vittime (posizione emotivamente più comoda) e non con i carnefici o con gli indifferenti alla cui discendenza oggettivamente appartengono: non è significativo che la legge sulla memoria italiana non contenga la parola "fascismo"?. Anche la memoria dei giusti (anch’essa più che necessaria e santa) serve spesso come forma di assoluzione collettiva a basso prezzo. Ho fatto con Marquard un libriccino su questo: se la memoria non ha un fondamento di conoscenze storiche (peggio ancora se si immagina che la storia serva a ricordare o a giudicare e non a sapere) rischia di vanificarsi e di banalizzarsi.
Non crede sarebbe opportune crearne un’unica riconosciuta in tutti i Paesi del mondo?
Del mondo non so: però so che il fatto che il fatto che l’Europa abbia una misura unica per mille cose e non per questo è significativo di cosa sta accadendo nel passaggio delle generazioni. Scomparsi i testimoni che potevano emozionare con le loro vite, mancano le conoscenze: con alcuni colleghi abbiamo promosso un network europeo per studiare le carte di Pio XI, che il Vaticano ha aperto e che sono quelle nelle quali c’è scritta la genesi della Shoah e il genoma degli atteggiamenti ecclesiastici.
Ci vorrebbero centinaia di giovani studiosi per fare ciò che alla fine alimenterà non il circuito della memoria, ma quello della conoscenza: ma le pare che oggi i governi siano in grado di capire questo e di investire su questo? Tutto sembra rendere di più e la musealizzazione della memoria, che è quanto mai necessaria, sarà sempre elettoralmente più redditizia della ricerca, temo.
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