Articles by: Chiara Zamin

  • Personaggi: "Faticando" di misura in misura


    Aveva  nove anni Felice Ferrante quando per la prima volta prese in mano ago e filo in compagnia di un grande maestro di sartoria, Salvatore Santorelli, conosciuto a Visciano, il suo paese natale.

    La famiglia, di origini umili, vantava una lunga tradizione nel settore; in primis sua  madre, premiata dalla città di Napoli con una medaglia, un segno di riconoscimento per la sua attività sartoriale, a cui si dedicava con professionalità e passione. "Mia mamma", ci racconta Ferrante, "ha iniziato a fare la sarta senza avere nemmeno i soldi per comprarsi il metro; utilizzava le righe dei giornali, ne ritagliava un pezzo e quello diventava il suo righello". Come si suol dire "fare di necessità virtù".

     

    Ferrante all'epoca, seguì,  inconsciamente, un altro grande proverbio: "impara l'arte e mettila da parte", sebbene il vero fuoco della passione per l'arte del cucire, lui l'aveva incisa nel dna.  Fin da piccolo Felice andava al lavoro come un vero signore, con giacchetta e fazzolettino sul taschino, perchè sentiva che era giusto così: al lavoro si va vestiti bene, pensava tra sè e sè. A Visciano, su 3000 abitanti 1500 erano sarti e proprio in questo terreno fertile Felice potè muovere i primi passi nella professione. Ma a 11 anni aveva già la smania di cambiare città per impratichirsi e con l'aiuto di amici e conoscenti paesani riuscì a convincere un grande sarto di Nola, Mario Ambrosini, a prenderlo a lavorare sebbene fosse troppo giovane. A 11 anni andò a Nola, e dopo un po' di tempo, il suo maestro gli disse: "Ti voglio dare 500 lire alla settimana". "Avevo 13 anni  e per la prima volta nella mia vita ho portato a mia mamma dei soldi, ero così contento!", ci racconta Ferrante. A 18 anni ha aperto la sua prima sartoria, fatta quasi tutta in legno da suo padre falegname. A 20 anni  andò a fare il militare a Bologna e nel tempo libero continuò la sua professione di sarto. Dopo il militare si trasferì nel nord Italia, a Torino. "Lavoravo in una sartoria e non avendo soldi per pagarmi l'affitto, quando alla sera chiudevamo la saracinesca del negozio mi mettevo a dormire sul tavolo".

     

    A 25 anni arriva il momento del grande salto: Ferrante si trasferisce a Brooklyn, New York. Ma la sartoria napoletana non era quella più all'avanguardia del mondo? Gli chiedo, perchè andarsene?"

    "Vedi, io a quei tempi lavoravo, lavoravo ma la gente non pagava. Mi ricordo una volta quando feci un vestito ad un mio compaesano; mi preoccupai addirittura di consegnarglielo a domicilio, ma questo non mi ha mai pagato. Quando lo incontravo mi scocciava chiedergli i soldi. Lavoravo con passione ma avevo tremendamente bisogno di un salario sufficiente per vivere, eravamo nove fratelli. Lasciai l'Italia su consiglio di mia zia americana che mi spronava: "In Italia fai 10.000 lire alla settimana in America le fai in un giorno". Otto mesi dopo arrivato a Brooklyn, aprii la mia prima sartoria americana con mia moglie; anche lei era italiana ma aveva studiato in America. Io non spiccicavo una parola all'inizio, così mia moglie si occupava di interagire con i clienti e io creavo abiti. Una volta, questo all'inizio del mio soggiorno americano, creai una mantellina per mia moglie che era in gravidanza. Avendo il pancione faticava a trovare un cappotto che le andasse bene. La mantellina, era a quadri e all'interno era rivestita di cashmere. Era double fax, con due aperture per le tasche con il collo a camicia. I clienti  iniziarono a chiedermi questa mantellina; piaceva così tanto, e io non immaginavo che potesse avere così tanto successo; è stata la mia fortuna! Ne vendemmo un sacco!" .

     

    Dopo 22 anni Ferrante dovette chiudere la sartoria perchè l'immobile in cui si trovava il negozio era stato venduto. Sul giornale "Il Progresso" Ferrante trovò un annuncio: cercavano un sarto per la società Sulka; fece il colloquio e ottenne il lavoro. Gli affidarano incarichi di responsabilità e iniziò a girare il mondo, aprendo sartorie a Parigi, a Beverly Hills, a Chicago. Da Sulka ebbe modo di vestire personaggi importanti, come Kissinger, che gli commissionò un vestito color occhio di pernice, un colore grigio-bianco elegante. Poi Dustin Hoffman, Michale Douglas a cui prepararò l'abito per il film "Wall Street"; ad Harrison Ford gli realizzò il vestito per il "Il Fuggitivo"; anche George Hamilton si lasciava consigliare da lui e gli commissionava i suoi abiti.

     

    Dopo dieci anni la compagnia Sulka chiuse i battenti e come nelle più belle storie di successo per Felice, ribattezzato ora dal suo ex capo "Philip", la strada era oramai spianata. Viene assunto dal gruppo Saks Fifth Avenue nel ruolo di capo sarto. Questo napoletano genuino ed elegante, dallo spirito allegro decide di portare con sè, nella sua nuova sartoria al sesto piano del negozio Saks Fifth Avenue, di Manhattan (dove attualmente lavora) gran parte dei suoi ex collaboratori: Gaetano, Michele, la sig.ra Bonetti, Giorgio, Joe, Rita, Maria, Teresa, David, Tony, Natalie e un'altra Teresa. Tra loro ci sono molti siciliani, alcuni campani e pugliesi, e poi un greco, una ucraina, un domenicano, un americano. Il suo dipartimento confina con il "Saks Fifth Avenue Club", un luogo esclusivo in cui come spiega la brochure "si può fissare un appuntamento e commissionare un vestito su misura, cucito rigorosamente a mano, curato e ideato dal sarto Philip Ferrante. Prezzo: dai 5000 dollari in sù".

     

    Con l'estrema disinvoltura di un professionista del mestiere, Ferrante ci tiene a mostrarmi la parte interna di una giacca in fase di lavorazione: "Vedi, queste rifiniture sono tutte fatte a mano. "Oggigiorno non trovi più sarti che sanno fare gli occhielli a mano nè sono in grado di ritagliare e fare un vestito partendo da zero". Quanto ci vuole a fare un abito cucito a mano chiedo a Philip; "Da noi ci vogliono 5 giorni". E per stirarlo? Continuo. "Ci vogliono 3 ore per stirare una giacca, per i pantaloni 45 minuti?"  Ma prima che il vestito venga consegnato, mi racconta Ferrante, lui ci tiene ad imprimere il suo marchio, la sua etichetta "Ferrante" cucita sull'abito con un punto croce eseguito a mano sempre e solo da lui.

     

    Gli chiedo qual è stato il vestito più buffo che abbia mai realizzato. "Una volta", racconta, "un giovane manager della American Express mi ha chiesto un abito grigio chiaro con le righe gialle, voleva la giacca in doppiopetto, le tasche sovvrapposte, e gli spacchi della giacca molto alti; i pantaloni a zampa di elefante, la giacca svasata. Quando l'ha provato, lui così biondo e alto faceva un certo effetto, era un po' buffo..., ma sai se il cliente è contento sono contento anch'io!."

     

    "Questo lavoro è un'arte, si porta dietro una grande storia, per me carica di fatica e sofferenze. Ricordo ancora quando mia mamma è venuta per la prima volta a trovarmi qui a New York. Era il 1982 e al mio paese in Italia c'era stato il terremoto. Stette qui 40 giorni, e ricordo che guardava sempre il lampadario in casa per vedere se si muoveva e io gli dissi: ‘Mamma guarda che qui non ci sono i terremoti' e poi ricordo che dopo il suo soggiorno americano mi disse: ‘Questo periodo di vacanza è stato il momento più bello della mia vita!'".

     

    Felice ha gli occhi arrossati per la commozione. Gli chiedo se non è mai tornato al suo paese e se magari ha rivisto quel signore che non ha mai pagato il vestito: "Certo che sì", mi risponde, "l'ho pure incontrato e gliel'ho ricordato ma lui mi ha risposto: ‘Ma cumme te permetti di cercarmi i sordi. Tu stai in America, ma che vai a penza'!".

     

    Pubblicato su Oggi7 del 30 dicembre 2007

  • Life & People

    Personaggi: "Faticando" di misura in misura


    Aveva  nove anni Felice Ferrante quando per la prima volta prese in mano ago e filo in compagnia di un grande maestro di sartoria, Salvatore Santorelli, conosciuto a Visciano, il suo paese natale.

    La famiglia, di origini umili, vantava una lunga tradizione nel settore; in primis sua  madre, premiata dalla città di Napoli con una medaglia, un segno di riconoscimento per la sua attività sartoriale, a cui si dedicava con professionalità e passione. "Mia mamma", ci racconta Ferrante, "ha iniziato a fare la sarta senza avere nemmeno i soldi per comprarsi il metro; utilizzava le righe dei giornali, ne ritagliava un pezzo e quello diventava il suo righello". Come si suol dire "fare di necessità virtù".

     

    Ferrante all'epoca, seguì,  inconsciamente, un altro grande proverbio: "impara l'arte e mettila da parte", sebbene il vero fuoco della passione per l'arte del cucire, lui l'aveva incisa nel dna.  Fin da piccolo Felice andava al lavoro come un vero signore, con giacchetta e fazzolettino sul taschino, perchè sentiva che era giusto così: al lavoro si va vestiti bene, pensava tra sè e sè. A Visciano, su 3000 abitanti 1500 erano sarti e proprio in questo terreno fertile Felice potè muovere i primi passi nella professione. Ma a 11 anni aveva già la smania di cambiare città per impratichirsi e con l'aiuto di amici e conoscenti paesani riuscì a convincere un grande sarto di Nola, Mario Ambrosini, a prenderlo a lavorare sebbene fosse troppo giovane. A 11 anni andò a Nola, e dopo un po' di tempo, il suo maestro gli disse: "Ti voglio dare 500 lire alla settimana". "Avevo 13 anni  e per la prima volta nella mia vita ho portato a mia mamma dei soldi, ero così contento!", ci racconta Ferrante. A 18 anni ha aperto la sua prima sartoria, fatta quasi tutta in legno da suo padre falegname. A 20 anni  andò a fare il militare a Bologna e nel tempo libero continuò la sua professione di sarto. Dopo il militare si trasferì nel nord Italia, a Torino. "Lavoravo in una sartoria e non avendo soldi per pagarmi l'affitto, quando alla sera chiudevamo la saracinesca del negozio mi mettevo a dormire sul tavolo".

     

    A 25 anni arriva il momento del grande salto: Ferrante si trasferisce a Brooklyn, New York. Ma la sartoria napoletana non era quella più all'avanguardia del mondo? Gli chiedo, perchè andarsene?"

    "Vedi, io a quei tempi lavoravo, lavoravo ma la gente non pagava. Mi ricordo una volta quando feci un vestito ad un mio compaesano; mi preoccupai addirittura di consegnarglielo a domicilio, ma questo non mi ha mai pagato. Quando lo incontravo mi scocciava chiedergli i soldi. Lavoravo con passione ma avevo tremendamente bisogno di un salario sufficiente per vivere, eravamo nove fratelli. Lasciai l'Italia su consiglio di mia zia americana che mi spronava: "In Italia fai 10.000 lire alla settimana in America le fai in un giorno". Otto mesi dopo arrivato a Brooklyn, aprii la mia prima sartoria americana con mia moglie; anche lei era italiana ma aveva studiato in America. Io non spiccicavo una parola all'inizio, così mia moglie si occupava di interagire con i clienti e io creavo abiti. Una volta, questo all'inizio del mio soggiorno americano, creai una mantellina per mia moglie che era in gravidanza. Avendo il pancione faticava a trovare un cappotto che le andasse bene. La mantellina, era a quadri e all'interno era rivestita di cashmere. Era double fax, con due aperture per le tasche con il collo a camicia. I clienti  iniziarono a chiedermi questa mantellina; piaceva così tanto, e io non immaginavo che potesse avere così tanto successo; è stata la mia fortuna! Ne vendemmo un sacco!" .

     

    Dopo 22 anni Ferrante dovette chiudere la sartoria perchè l'immobile in cui si trovava il negozio era stato venduto. Sul giornale "Il Progresso" Ferrante trovò un annuncio: cercavano un sarto per la società Sulka; fece il colloquio e ottenne il lavoro. Gli affidarano incarichi di responsabilità e iniziò a girare il mondo, aprendo sartorie a Parigi, a Beverly Hills, a Chicago. Da Sulka ebbe modo di vestire personaggi importanti, come Kissinger, che gli commissionò un vestito color occhio di pernice, un colore grigio-bianco elegante. Poi Dustin Hoffman, Michale Douglas a cui prepararò l'abito per il film "Wall Street"; ad Harrison Ford gli realizzò il vestito per il "Il Fuggitivo"; anche George Hamilton si lasciava consigliare da lui e gli commissionava i suoi abiti.

     

    Dopo dieci anni la compagnia Sulka chiuse i battenti e come nelle più belle storie di successo per Felice, ribattezzato ora dal suo ex capo "Philip", la strada era oramai spianata. Viene assunto dal gruppo Saks Fifth Avenue nel ruolo di capo sarto. Questo napoletano genuino ed elegante, dallo spirito allegro decide di portare con sè, nella sua nuova sartoria al sesto piano del negozio Saks Fifth Avenue, di Manhattan (dove attualmente lavora) gran parte dei suoi ex collaboratori: Gaetano, Michele, la sig.ra Bonetti, Giorgio, Joe, Rita, Maria, Teresa, David, Tony, Natalie e un'altra Teresa. Tra loro ci sono molti siciliani, alcuni campani e pugliesi, e poi un greco, una ucraina, un domenicano, un americano. Il suo dipartimento confina con il "Saks Fifth Avenue Club", un luogo esclusivo in cui come spiega la brochure "si può fissare un appuntamento e commissionare un vestito su misura, cucito rigorosamente a mano, curato e ideato dal sarto Philip Ferrante. Prezzo: dai 5000 dollari in sù".

     

    Con l'estrema disinvoltura di un professionista del mestiere, Ferrante ci tiene a mostrarmi la parte interna di una giacca in fase di lavorazione: "Vedi, queste rifiniture sono tutte fatte a mano. "Oggigiorno non trovi più sarti che sanno fare gli occhielli a mano nè sono in grado di ritagliare e fare un vestito partendo da zero". Quanto ci vuole a fare un abito cucito a mano chiedo a Philip; "Da noi ci vogliono 5 giorni". E per stirarlo? Continuo. "Ci vogliono 3 ore per stirare una giacca, per i pantaloni 45 minuti?"  Ma prima che il vestito venga consegnato, mi racconta Ferrante, lui ci tiene ad imprimere il suo marchio, la sua etichetta "Ferrante" cucita sull'abito con un punto croce eseguito a mano sempre e solo da lui.

     

    Gli chiedo qual è stato il vestito più buffo che abbia mai realizzato. "Una volta", racconta, "un giovane manager della American Express mi ha chiesto un abito grigio chiaro con le righe gialle, voleva la giacca in doppiopetto, le tasche sovvrapposte, e gli spacchi della giacca molto alti; i pantaloni a zampa di elefante, la giacca svasata. Quando l'ha provato, lui così biondo e alto faceva un certo effetto, era un po' buffo..., ma sai se il cliente è contento sono contento anch'io!."

     

    "Questo lavoro è un'arte, si porta dietro una grande storia, per me carica di fatica e sofferenze. Ricordo ancora quando mia mamma è venuta per la prima volta a trovarmi qui a New York. Era il 1982 e al mio paese in Italia c'era stato il terremoto. Stette qui 40 giorni, e ricordo che guardava sempre il lampadario in casa per vedere se si muoveva e io gli dissi: ‘Mamma guarda che qui non ci sono i terremoti' e poi ricordo che dopo il suo soggiorno americano mi disse: ‘Questo periodo di vacanza è stato il momento più bello della mia vita!'".

     

    Felice ha gli occhi arrossati per la commozione. Gli chiedo se non è mai tornato al suo paese e se magari ha rivisto quel signore che non ha mai pagato il vestito: "Certo che sì", mi risponde, "l'ho pure incontrato e gliel'ho ricordato ma lui mi ha risposto: ‘Ma cumme te permetti di cercarmi i sordi. Tu stai in America, ma che vai a penza'!".

     

    Pubblicato su Oggi7 del 30 dicembre 2007

  • Art & Culture

    Alessandro Carrera. On the Edge of the Abyss, with Dylan


    He is a poet, writer, and translator as well as a literary and music critic (in 1993 he was one of the recipients of the Montale Prize for poetry; in 1998 he won the Loria Prize for short fiction; and in 2006 won the Bertolucci Prize for literary criticism). Since 2001 he has been Director of Italian Studies at the University of Houston, Texas, where he is now Chair of the Department of Modern and Classical Language.

    Alessandro Carrera (born in Lodi, Italy) is also a major authority on Bob Dylan. He has translated Dylan’s songs and autobiography into Italian and in 2001 he published a passionate essay called La voce di Bob Dylan (Bob Dylan’s Voice).Some of his more recent Dylan essays are collected in a book that accompanies the Italian DVD release of “I’m Not There,” Todd Haynes’ cinematic analysis of the Bob Dylan phenomenon.

    We met Professor Carrera with the mixture of curiosity and wonderment that must be expected from someone who has heard of him and would like to know more about him. Here is what we found out.

     

    Prof. Carrera, how did you develop such a strong relationship with America?

     

    “To a certain extent, I owe it to Dylan. As a teenager in Milan, at the Liceo classico I was attending the teaching of English did not go beyond tenth grade, so I used to practice my English by memorizing Dylan songs. I could also play and sing them.”

     

    Why were you so fascinated by Dylan’s songs?

     

    “I have been living in the United States since 1987. However, even before I moved here, Dylan to me was the ‘voice’ that embodied the whole country, which I imagined constantly changing, always unpredictable, always so much different from the world I grew in and from what I had learned in school, because my training was not in American studies. In the 80’s I had the opportunity to move here with a teaching position sponsored by Italy’s Foreign Affairs Portfolio. My first assignment was Houston. After that, I went to Toronto and New York, where from 1995 to 2001 I taught at the Italian Department of the New York University and collaborated with the Italian Cultural Institute. Finally, I went back to Houston. In all these changes, Bob Dylan’s ‘voice’ has always followed me”.

     

    How?

     

    “For example, in 1988, in Houston, I was trying to give some poetic notes a coherent form. I stumbled upon an interview in which Dylan told a journalist: “Write only what is important”. As soon as I read that, I understood what I had to do. I reshaped my notes into a ‘family-history poem’ that I published in 1992 with the title La ricerca della maturità (The Quest for Ripeness).

     

    You mean that Bob Dylan has been a sort of inspiration for you…

     

    Yes, but of course he was not the only one. I grew up reading Montale and Ungaretti, Mallarmé and Rimbaud, T.S. Eliot and Dylan Thomas. But to me these poets are one and the same with the books they wrote. Sometimes, however, you need voices, and I mean physical voices guiding you, voices to which you lend, with your pronunciation, with your accent, the words your deepest conscience wants to tell you. Now, there was this voice telling me that when you write poetry you have nothing to lose, that is, you must be ready to lose everything. Dylan did it. He threw away entire periods of his art, he didn’t save anything; he has always been able to start all over again, without paying attention to his myth. Two lines of Pasternak come to my mind: “Being famous is not a good thing; it is not good to be excited about your manuscripts…”

     

    You have translated Dylan’s lyrics into Italian; I suppose it wasn’t easy.

     

    “Not easy indeed. I have translated several writers and poets, English as well as Americans, from Graham Greene to Allen Mandelbaum, but Dylan has been the most challenging of all. That is because, while the formers are writers, Dylan is not. He is an “oral” writer. He may write in metrics and with rhymes, or in prose, but he never strays from the performing nature of his art. Dylan writes the way he sings. His language is full of idioms and common expressions slightly distorted so that they acquire a different meaning, quotations from the Bible or from folkloristic sources, which sometimes are rather obscure. That’s why I had to complete my translation of his songs with a wide range of notes. Not only to illustrate the sources Dylan uses freely, but also to show that frequently the Italian translation cannot convey the multiple meanings of the original. In his prose there is also the aphoristic, surprising tone of many of his sentences, as when he writes that Roy Orbison sang like a crime professional or that Hank Williams’s voice was as wonderful as the ship sirens he could hear from the shores of Lake Superior in the foggy nights”.

     

    In your book, “La voce di Bob Dylan,” you write about a mysterious Italian reference in the fifth stanza of “Tangled Up in Blue” in which Dylan tells about a woman who opens a book of poetry written by an Italian poet from the 13th Century. How does Italian literature influence Dylan’s work?

     

    “There is for sure a Beatrice (more than one) in many of Dylan’s songs. Dylan, however, is a poet of love’s strife more than he is a poet of love’s joy. Dylan’s love, even when true and passionate, is never free from suspicion, the will to dominate, resentment, and violence. The poet he refers to in “Tangled Up in Blue” may be everybody and nobody. Somebody said it was Cavalcanti, somebody else said Dante. Actually, as I found out from one of Dylan’s interviews, it is more likely to be Petrarca. However, Dylan doesn’t really care about precision when it comes to dates and names. I cannot say that Italian literature has really influenced Dylan, because Dylan’s inspiration doesn’t come from literature as much as it comes from English, American, and African-American folk music in every form, from the ballads to country music, from blues to gospel. But I want to point out that in Chronicles Volume One, the first volume of his autobiography I translated into Italian and Feltrinelli published, Dylan mentions Dante, Machiavelli, Leopardi, and Fellini. I would say it is a remarkable choice of names, covering eight centuries of Italian culture.”

     

    The song “I’m Not There” is also the title of the film dedicated to his life. Did you like it?

     

    “I’ve just seen it, and I liked it a lot. It has some weaknesses and some unsuccessful moments, but it is brilliant and courageous. Of course, the more you know about Dylan the more you can appreciate it. A lot of references may be a little obscure to the non-initiated, but Dylan’s multifarious character and his ungraspable personality really manage to come across. The film makes also several references to Fellini and Godard, and it is a sort of meditation on what was like to be an artist in the 60’s, and why we miss that scene now.

     

    Don’t Think Twice, It’s All Right,” as many other Dylan songs, is about the love story between Dylan and Suze Rotolo, the Italian-American young woman he met at the Village, in Manhattan. Can you tell us something about her?

     

    “Suze came from a family very committed to art and politics. Thanks to her, Dylan found out about Brecht and Rimbaud, and he went for the first time to the Moma and the Metropolitan Museum with her. She was well read, culturally independent, and Dylan acknowledged that in the Chronicles pages he dedicated to her. Susan Rotolo has taught at the Parsons School of Design, and she is well known in New York. I had the privilege to meet her some years ago, at the opening of one of her exhibitions of collages and drawings at the Casa Italiana Zerilli Marimò, and I thought she was a beautiful person.

     

    Have you ever met Dylan? How was it?

     

    “I have never met him. If I met him, I would ask him if he still practices I-Ching, the Chinese divination system he once referred to as ‘fantastically true’.”

     

    Dylan said once that it will take us 100 years to understand his work. What did he mean by that? Is he really a genius?

     

    Dylan has composed about 400 songs, and I haven’t included the unfinished or unpublished ones, which are many. If he completes his autobiographic trilogy the way he has started it, he will leave to posterity a piece of very original American prose. Last March I was invited as a keynote speaker at an international conference on Dylan that took place at the University of Minnesota in Minneapolis. It was the largest conference ever organized on Dylan. If I ever thought I was a little crazy myself, after I heard very serious professors from Harvard and Oxford comparing Dylan to the greatest names in literature I realized I was not such a desperate case after all. Maybe this dylanolatry will eventually fade away, which might be a good thing, but we have to understand that in our age genius is rare. A genius is not just a good artist, a serious intellectual who has something to say and knows how to say it. We have many artists like that. A genius is something else. A genius is someone who is able to make us feel we all are walking on the edge of the abyss, one who has outlined the very geography of that abyss, and yet he or she doesn’t know whether at the end of the way we will be safe or if we are going to fall down together with our pied piper. This feeling of shared risk, which in turn creates a community of people who are willing to take risks, is something that very few artists have the power to communicate. You don’t need to be a good singer or a good poet in order to achieve this dimension. You need something more, which Dylan possesses.”

     

     

  • Life & People

    Convegno di studi. Nuove generazioni italoamericane


    Chi sono gli italoamericani di terza generazione? Come si muovono dentro il tessuto sociale e culturale americano? Quanti di loro hanno raggiunto un buon livello culturale  e professionale? Cinque professori universitari  (Donna Chirico, York College CUNY, Vincenzo Milione, Pierre Tribaudi, Joseph Sciorra del John D. Calandra Institute,  Donald Tricarico del Queensborough Community College) hanno presentato i loro studi nel corso di una conferenza organizzata dal Calandra Italian American Institute dal titolo “Contemporary Italian-American Youth” tenutasi recentemente al Queens College.



    Il primo studio presentato, “Trascendent Imagination and the Struggle for Educational Attainment Among Italian-American Women”, della Chirico, parte dal concetto di immaginazione trascendentale, fattore determinante per lo sviluppo di un individuo. Secondo lo studio esistono una serie di impedimenti che ostacolano l’utilizzo di questo tipo di immaginazione. Nel caso delle donne italo americane, Chirico riscontra che in passato si siano trovate di fronte a degli ostacoli, quali ad esempio le immagini convenzionali create dalla comunità etnica di appartenenza e dalla chiesa cattolica che hanno rallentato o addirittura impedito l’utilizzo dell’immaginazione trascendentale. Lo studio riconosce il fatto che le donne abbiano comunque compiuto passi da gigante in questi ultimi decenni, rispetto agli uomini; tuttavia se si paragona il tasso del livello di istruzione con quello degli altri gruppi etnici provenienti dall’Europa  e che emigrarono alla fine del diciottesimo secolo-inizi diciannovesimo secolo, è evidente una netta discrepanza: le donne italoamericane non hanno fatto gli stessi progressi delle donne appartenenti ad  altri gruppi etnici. (secondo i dati della American Community Survey del 2005, la percentuale di italiane che hanno una laurea è di 30,3% rispetto a quelle delle austriache 42%, e le donne inglesi 51%, cinesi 48,6%) .



    Lo studio di Milione, “Italian American Educational Achievements in the 21st Century and the Impact of Negative Stereotypes”, conferma in parte quello sostenuto nella tesi della Chirico cioè che negli ultimi trent’anni gli italoamericani hanno raggiunto notevoli successi in ambito formativo: la percentuale di italoamericani senza un diploma liceale è diminuita drasticamente (circa del 70%) e negli ultimi quindici anni è raddoppiata quella di coloro che detengono una Master degree. Esistono tuttavia, secondo Milione, diversi casi di italoamericani a New York che non riescono a completare gli studi (1 su 10 è a rischio). Senza avere una formazione che li permetta di entrare nel mondo del lavoro e avere successo, questi giovani vengono facilmente influenzati dagli stereotipi propinati molto spesso dai media. I dati del censimento e quelli della NYC Board of Education indicano che nel periodo dal 1999 al 2003, anni in cui è stata trasmessa in Tv la serie “I Soprano”, la percentuale di studenti che hanno abbandonato il liceo è tornata a crescere dopo un decremento avvenuto negli anni novanta. Milione sostiene insomma che esiste una relazione direttamente proporzionale tra la diffusione nei media di stereotipi italoamericani (vedi il film “Il Padrino”, “I Soprano”, I video games con i personaggi della serie, ecc…) e la percentuale di adolescenti che abbandonano presto gli studi.



    Lo studio di Pierre Tribaudi e Nancy Ziehler, “Stress Patterns in Adolescents: a Multicultural Perspective”  è invece un’analisi su quanto incida lo stress e la paura negli adolescenti italoamericani rispetto a quelli di altre nazionalità. Sono stati presi come riferimento gli studenti dei  licei di Bensonhurst e di altri a Brooklyn,  maschi e femmine di diverse etnie e, attraverso dei questionari si è arrivati ad elaborare dei risultati in termini di livelli di stress e ansia. Ne è emerso che gli italo americani, uomini e donne insieme, hanno i punteggi più alti rispetto alle altre etnie. Lo studio considera diverse forme di stress: “Perceived stress”, “Actual stress” e “Symptomatology”. Nella prima categoria  i dati rivelano alte percentuali di stress percepito nel caso degli italoamericani (vengono subito dopo quelle delle donne delle altre etnie), nella terza categoria gli italoamericani raggiungono un 58%, mentre i cinesi americani hanno la percentuale più bassa, un 36%. I fattori che diventano motivo di tensione per gli americani di origini italiane sono legati a questi quesiti: “Avrò successo nella vita?”, “Mi bocceranno, ce la farò a finire il college?”, “Come sarà il mio futuro?”, “Paura contrarre un virus tipo l’Hiv”.



    I dati presentati sono stati accompagnati da un dibattito in cui è potuto intervenire anche il pubblico, tra cui diversi educatori e insegnanti ma purtroppo pochissimi studenti italoamericani. Sebbene sia difficile incasellare in una categoria le nuove generazioni di giovani con origini italiane, rimangono degli aspetti sempre veri come ad esempio il fatto che molti di loro una volta che fanno un’esperienza di studio o lavoro in Italia, si accorgono di quante differenze esistano tra il loro mondo italoamericano e l’attuale società italiana.



    Infine  lo studio di Joseph Sciorra, “The Mediascape of Hip Wop: Translocal Migrations of North American Italian Rap” è una ricerca ancora in una fase preliminare che esamina le canzoni, i video, le immagini digitali, i siti web e le interviste di circa 47 rapper contemporanei americani e canadesi, che si identificano come italiani.  Le loro rappate sono ricche di riferimenti a personaggi italoamericani entrati nella cultura cinematografica (vedi De Niro, o Al Capone, Tony Soprano, Al Pacino) come pure di ricordi legati alle tradizioni famigliari  e al cibo italiano. E cita il rap JoJo Pellegrino, originario di Staten Island che nelle sue canzoni ironizza su tanti stereotipi legati al mondo Mafioso e italoamericano in generale. “Tra il loro ambiente musicale e quello dei rapper italiani”, sostiene Sciorra, “si stanno verificando degli scambi di idee molto interessanti e questo grazie anche  a Internet che permette di comunicare e conoscersi, sebbene ci sia la distanza di mezzo”. “Questi rapper”, continua Sciorra, “riescono ad utilizzare e assorbire tutto quello che riguarda il mondo italoamericano con un approccio completamente nuovo”.



    Pubblicato su Oggi7 del 4 novembre 2007

     

     

  • Art & Culture

    Between Handcuffs and Paint Brushes


         ...has led his city for 20 years, with a developed sensibility for art and everything regarding art, has given free reign to some artists to beautify the old walls of the city with murals.

         Amongst these artists there is an Italian American, father and family man, police officer and painter. His name is Charles Sabba. In all, his goal is to paint 50 murals.

         Kennedy’s project in reality goes way beyond the free expression of street artists: many areas of Rahway are construction sites and open spaces. They are actually designated as “development zones” but in a short time there will be opening new restaurants, a big hotel, stores, and, to the joy of the creative, there will be a site (with 100 artist studios) where around 100 artists can exhibit. Even the names of the streets will change. Hamilton Street will become “The Artist’s Way”, together with Irving St.

         Beneath an angry sky, with continuous, violent rain hitting the windshield of the auto, Charlie starts to introduce me to the ambitious project with the enthusiasm of one who has a strong will to make his city the most avant-garde possible. He desires it to become a new Chelsea. His murals have already caused a commotion amongst some residents, a large part of who are from an elderly generation. On one street is represented an Inca man. “Think…” He told me: “…that an elderly woman one day, passing in a car, stopped one of my police colleagues and let loose her anger, declaring: ‘But what are these murals, I don’t want African art in my city!’”

         She wasn’t the only one that did not appreciate the new look. 10 or 12 residents, after seeing a mural of a large open eye with a dedication to the celebrated painter Magritte, swiftly telephoned the city hall complaining. Charles Sabba knows well how his co-citizens think, but it doesn’t disturb him; he smiles, a little amused, a little disenchanted. He wants them to “open their eyes and look beyond the cowboys and John Wayne.” He recounts in a joking tone that they would rather see their ancestors represented, the heroes of the west. The new artistic pole is not only for them. In fact, there are numerous New Yorkers that are buying apartments in Rahway, a small city that looks to become the most important artistic and cultural center in New Jersey.

         For many years the mayor intended to attract large investors to Rahway for projects of this caliber. And finally arrived Jewish, Portuguese… the list of wealthy investors that Sabba lists isn’t complete, it is important for him that “We will have a place all our own. Liberty of expression, this is what counts, not that we are placed in a box. The artists would never accept that. America is a huge machine and we are the components that make it function, and when we get rusty, they change us. It is like this. I know.”

         His America was even the land of promise for his grandparents who emigrated to the States in at the start of the 20th century. For Charles Sabba, Italy is like a first love he will never forget. “I stayed 2 years in Italy. I was a sailor in Gaeta, I met my future wife there. It was a beautiful period; it was perfect; we wanted to get married but after my service as a sailor, I couldn’t find a secure job (in Italy). So I returned to New Jersey and found a job back then as a prison guard.

         On the low part of a building of Rahway, Charlie painted diverse flags: the U.S. flag, one I didn’t know (maybe it has to be that of Austrian farmers) and the Italian flag. The painted American flag is on a part of the wall that meets the sidewalk and someone commented that it appeared to be touching the ground and this is not accepted by Americans. “It is a mural. It is not a flag, it is a painting of a flag,” smiles Sabba, joking about so much rigidness.  Above the flags are depicted the 7 new wonders of the world. He recounted to me that there are 21 candidates competing for the honor from various nations. The idea is to represent the most beautiful cities of the world. One votes to choose the most attractive wonder. “The Peruvians want to see Machu Picchu, but we Italians want the Colosseum!”

         We arrive at a red light and see in the distance another mural: a distinctive, cultured man, with a derby hat and a cane, in profile. “But who is this guy in the painting? He looks like a Hasidic Jew,” exclaimed a citizen- as recounted to me by the artist-cop Charlie.

         Fortunately there are the children. One of the kids, while looking at the mural that honors Lautrec- stated: “It looks like a Dali’!”

         Charlie is the type that in life all added up, enjoys himself. He has a splendid family with three daughters, works four days a week as a police officer and for four days he immerses himself in what he calls ‘his world’ and paints. He follows the philosophy of Gabriele D’Annunzio that life must be lived as if it were a work of art. He explained to me that at work, on those days that he puts on the police uniform, he doesn’t hide his artistic nature. His hand cuffs are gold-gilded with rhinestones, his bullet proof vest has been personalized by the touch of his paint brush. At times he even gets to use his talent for the public’s good. He explained that a few days prior, a robbery was committed and he was called in by a detective to draw a composite drawing of the criminal, with the help of the victim’s input.

         “This is the part of the job that I love more than anything. It is gratifying to know I can help others by using my artistic passion!”

         This type of job permits him to have a flexible work schedule. He works four consecutive days and on the four days off is in his studio painting.

         He has an art studio in his home where he creates sculpture, paintings on canvas, and portraits. He has already exhibited in galleries. His friends appreciate his art and some have made purchases. He is not an amateur witthout direction, although the opinions of some of his colleagues do not help his cause. In spite of the fact that Charlie never managed to live only on his art, he decided to give his artistic impetus academic preparation. At 19 years of age he was accepted into the DuCret School of Art in Plainfield, N.J., a three year school, where he studied drawing and learned the techniques of academic painting.

         Last year he received a Bachelor Degree in fine art from the School of Visual Arts in the Chelsea section of Manhattan, a completed goal that Charlie is very proud of. “I believe in beauty and in art, this is my faith and even if sometimes it is hard because I do overtime at work, I have the support of my wife who has fully accepted my dual life. Some days I carry a gun and others I use a paint brush. My job is one with tremendous responsibility. We can find ourselves at certain times in very complex situations in which we would have to decide in a split second to shoot or not. For example, in the dark one can’t fully know if a criminal has a weapon in his hands that represents a threat to all of us. Shoot or no? I have a wife and three kids at home…if I shoot and then it is discovered that the criminal didn’t have a weapon I end up in prison.”

         “I have police colleagues who are very supportive and others who think that I am a deluded eccentric. Sometimes they see me as a strange person who doesn’t like American football, but prefers Italian football, who doesn’t like American coffee, but prefers cappuccino, who is interested in art.”

         Between one question and the next we end up in a beautiful French caffe’ and while we enjoy crepe and ice cream with fruit, Charlie recounted to me yet another episode.

        One evening while Charlie worked an extra job, guard duty at a senior citizen building, he brought along a book about Caravaggio. While he was observing a painting of a small cupid with his genitals out, a sergeant arrived and exclaimed, a little perplexed and scandalized: “What are you looking at?” He then went to tell the Lieutenant in the radio room “We gotta do something about the new guy. He is over there looking at naked Picassos!”

         From the Caffe’s picture window we observe pieces of the city in restoration. With this huge artistic-economic project in Rahway, Sabba can safely and bizarrely indulge on his artistic whims, even if he exclaims with a little melancholy in a soft Italian with an American accent: “what a beautiful life it would be if I could pass a little time in many different parts of the world, a little in Naples, a little in New York, and a little in India, like Francesco Clemente; It would be beautiful!”