Aveva nove anni Felice Ferrante quando per la prima volta prese in mano ago e filo in compagnia di un grande maestro di sartoria, Salvatore Santorelli, conosciuto a Visciano, il suo paese natale.
La famiglia, di origini umili, vantava una lunga tradizione nel settore; in primis sua madre, premiata dalla città di Napoli con una medaglia, un segno di riconoscimento per la sua attività sartoriale, a cui si dedicava con professionalità e passione. "Mia mamma", ci racconta Ferrante, "ha iniziato a fare la sarta senza avere nemmeno i soldi per comprarsi il metro; utilizzava le righe dei giornali, ne ritagliava un pezzo e quello diventava il suo righello". Come si suol dire "fare di necessità virtù".
Ferrante all'epoca, seguì, inconsciamente, un altro grande proverbio: "impara l'arte e mettila da parte", sebbene il vero fuoco della passione per l'arte del cucire, lui l'aveva incisa nel dna. Fin da piccolo Felice andava al lavoro come un vero signore, con giacchetta e fazzolettino sul taschino, perchè sentiva che era giusto così: al lavoro si va vestiti bene, pensava tra sè e sè. A Visciano, su 3000 abitanti 1500 erano sarti e proprio in questo terreno fertile Felice potè muovere i primi passi nella professione. Ma a 11 anni aveva già la smania di cambiare città per impratichirsi e con l'aiuto di amici e conoscenti paesani riuscì a convincere un grande sarto di Nola, Mario Ambrosini, a prenderlo a lavorare sebbene fosse troppo giovane. A 11 anni andò a Nola, e dopo un po' di tempo, il suo maestro gli disse: "Ti voglio dare 500 lire alla settimana". "Avevo 13 anni e per la prima volta nella mia vita ho portato a mia mamma dei soldi, ero così contento!", ci racconta Ferrante. A 18 anni ha aperto la sua prima sartoria, fatta quasi tutta in legno da suo padre falegname. A 20 anni andò a fare il militare a Bologna e nel tempo libero continuò la sua professione di sarto. Dopo il militare si trasferì nel nord Italia, a Torino. "Lavoravo in una sartoria e non avendo soldi per pagarmi l'affitto, quando alla sera chiudevamo la saracinesca del negozio mi mettevo a dormire sul tavolo".
A 25 anni arriva il momento del grande salto: Ferrante si trasferisce a Brooklyn, New York. Ma la sartoria napoletana non era quella più all'avanguardia del mondo? Gli chiedo, perchè andarsene?"
"Vedi, io a quei tempi lavoravo, lavoravo ma la gente non pagava. Mi ricordo una volta quando feci un vestito ad un mio compaesano; mi preoccupai addirittura di consegnarglielo a domicilio, ma questo non mi ha mai pagato. Quando lo incontravo mi scocciava chiedergli i soldi. Lavoravo con passione ma avevo tremendamente bisogno di un salario sufficiente per vivere, eravamo nove fratelli. Lasciai l'Italia su consiglio di mia zia americana che mi spronava: "In Italia fai 10.000 lire alla settimana in America le fai in un giorno". Otto mesi dopo arrivato a Brooklyn, aprii la mia prima sartoria americana con mia moglie; anche lei era italiana ma aveva studiato in America. Io non spiccicavo una parola all'inizio, così mia moglie si occupava di interagire con i clienti e io creavo abiti. Una volta, questo all'inizio del mio soggiorno americano, creai una mantellina per mia moglie che era in gravidanza. Avendo il pancione faticava a trovare un cappotto che le andasse bene. La mantellina, era a quadri e all'interno era rivestita di cashmere. Era double fax, con due aperture per le tasche con il collo a camicia. I clienti iniziarono a chiedermi questa mantellina; piaceva così tanto, e io non immaginavo che potesse avere così tanto successo; è stata la mia fortuna! Ne vendemmo un sacco!" .
Dopo 22 anni Ferrante dovette chiudere la sartoria perchè l'immobile in cui si trovava il negozio era stato venduto. Sul giornale "Il Progresso" Ferrante trovò un annuncio: cercavano un sarto per la società Sulka; fece il colloquio e ottenne il lavoro. Gli affidarano incarichi di responsabilità e iniziò a girare il mondo, aprendo sartorie a Parigi, a Beverly Hills, a Chicago. Da Sulka ebbe modo di vestire personaggi importanti, come Kissinger, che gli commissionò un vestito color occhio di pernice, un colore grigio-bianco elegante. Poi Dustin Hoffman, Michale Douglas a cui prepararò l'abito per il film "Wall Street"; ad Harrison Ford gli realizzò il vestito per il "Il Fuggitivo"; anche George Hamilton si lasciava consigliare da lui e gli commissionava i suoi abiti.
Dopo dieci anni la compagnia Sulka chiuse i battenti e come nelle più belle storie di successo per Felice, ribattezzato ora dal suo ex capo "Philip", la strada era oramai spianata. Viene assunto dal gruppo Saks Fifth Avenue nel ruolo di capo sarto. Questo napoletano genuino ed elegante, dallo spirito allegro decide di portare con sè, nella sua nuova sartoria al sesto piano del negozio Saks Fifth Avenue, di Manhattan (dove attualmente lavora) gran parte dei suoi ex collaboratori: Gaetano, Michele, la sig.ra Bonetti, Giorgio, Joe, Rita, Maria, Teresa, David, Tony, Natalie e un'altra Teresa. Tra loro ci sono molti siciliani, alcuni campani e pugliesi, e poi un greco, una ucraina, un domenicano, un americano. Il suo dipartimento confina con il "Saks Fifth Avenue Club", un luogo esclusivo in cui come spiega la brochure "si può fissare un appuntamento e commissionare un vestito su misura, cucito rigorosamente a mano, curato e ideato dal sarto Philip Ferrante. Prezzo: dai 5000 dollari in sù".
Con l'estrema disinvoltura di un professionista del mestiere, Ferrante ci tiene a mostrarmi la parte interna di una giacca in fase di lavorazione: "Vedi, queste rifiniture sono tutte fatte a mano. "Oggigiorno non trovi più sarti che sanno fare gli occhielli a mano nè sono in grado di ritagliare e fare un vestito partendo da zero". Quanto ci vuole a fare un abito cucito a mano chiedo a Philip; "Da noi ci vogliono 5 giorni". E per stirarlo? Continuo. "Ci vogliono 3 ore per stirare una giacca, per i pantaloni 45 minuti?" Ma prima che il vestito venga consegnato, mi racconta Ferrante, lui ci tiene ad imprimere il suo marchio, la sua etichetta "Ferrante" cucita sull'abito con un punto croce eseguito a mano sempre e solo da lui.
Gli chiedo qual è stato il vestito più buffo che abbia mai realizzato. "Una volta", racconta, "un giovane manager della American Express mi ha chiesto un abito grigio chiaro con le righe gialle, voleva la giacca in doppiopetto, le tasche sovvrapposte, e gli spacchi della giacca molto alti; i pantaloni a zampa di elefante, la giacca svasata. Quando l'ha provato, lui così biondo e alto faceva un certo effetto, era un po' buffo..., ma sai se il cliente è contento sono contento anch'io!."
"Questo lavoro è un'arte, si porta dietro una grande storia, per me carica di fatica e sofferenze. Ricordo ancora quando mia mamma è venuta per la prima volta a trovarmi qui a New York. Era il 1982 e al mio paese in Italia c'era stato il terremoto. Stette qui 40 giorni, e ricordo che guardava sempre il lampadario in casa per vedere se si muoveva e io gli dissi: ‘Mamma guarda che qui non ci sono i terremoti' e poi ricordo che dopo il suo soggiorno americano mi disse: ‘Questo periodo di vacanza è stato il momento più bello della mia vita!'".
Felice ha gli occhi arrossati per la commozione. Gli chiedo se non è mai tornato al suo paese e se magari ha rivisto quel signore che non ha mai pagato il vestito: "Certo che sì", mi risponde, "l'ho pure incontrato e gliel'ho ricordato ma lui mi ha risposto: ‘Ma cumme te permetti di cercarmi i sordi. Tu stai in America, ma che vai a penza'!".
Pubblicato su Oggi7 del 30 dicembre 2007