«Peppino Amato, mio nonno, è stato il primo a capire che La Dolce Vita sarebbe stato un capolavoro», racconta Giuseppe Pedersoli, figlio dell’attore Bud Spencer e nipote di Giuseppe Amato (produttore de “La Dolce Vita” ). Alla 77° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il regista e produttore, presenta La verità su La dolce vita, in sala dal 15 settembre distribuito da Istituto Luce - Cinecittà. In un viaggio a ritroso nel tempo, tra le atmosfere di un’epoca d’oro del cinema, scopriamo tutti retroscena di una delle pellicole più amate nel mondo.
Trasportati dalle note circensi di Nino Rota, emergono documenti inediti e originali, gelosamente custoditi dalle tre figlie di Amato: le lettere infuocate tra Rizzoli, Fellini e Amato, i preventivi non rispettavi, tesori d’archivio e le interviste ai protagonisti di allora. Tanti incredibili ricordi di famiglia per un docu-film che «omaggia l’intuito, la caparbietà e il coraggio di un solo uomo», come sottolinea il suo più grande sostenitore.
Nel 1958 Fellini mostra a suo nonno, la sceneggiatura de La dolce vita, ferma in un cassetto da tempo, cosa succede?
“C’era l’incantesimo dell’essere umano” disse mio nonno fin dalla prima lettura del soggetto. Amato capisce che quel film è un capolavoro, ed è determinato ad arrivare fin in fondo: realizzare il film.
Da uomo molto religioso arrivò a chiedere il sostegno di Padre Pio prima di iniziare la sua personale “via crucis”?
Si, in piena notte si recò in macchina fin a San Giovanni Rotondo per chiedere la benedizione di Padre Pio. Una volta ottenuta, iniziò a lavorare su “La Dolce Vita”.
A quel punto bisogna convincere De Laurentiis, già produttore dei due film premi Oscar “La Strada” e “Le Notti di Cabiria”, che aveva in esclusiva per quattro anni Fellini.
Mio nonno va da De Laurentiis, che non era convinto de La dolce vita perché troppo complicato e costoso, e prova a convincerlo a cedergli la pellicola in cambio de La grande guerra. E ci riesce.
Persuade poi il socio Angelo Rizzoli a co-finanziare l’opera, che arriverà a costare il doppio di quanto preventivato e concordato con il regista. Una realizzazione che diventava sempre più complicata. Nel lungo carteggio tra Fellini regista e Amato produttore, cosa l’ha colpita di più?
C’è stato un forte scontro tra due forti personalità, ma entrambi credeva fermamente nella potenza de La dolce vita. E’ stato molto interessante leggere le lettere e gli accesi confronti tra i due. Quando Rizzoli non voleva più distribuire il film perché troppo lungo, mio nonno era diviso tra il dover contenere le conseguenze di un possibile disastro economico e cercare di difendere l’opera immaginifica di Fellini.
Suo nonno ha dichiarato “per fare un grande film ci vuole un grande cuore”. Ha messo tutto il suo amore nel cinema?
Era un uomo vitale, molto coraggioso e dalle grandi intuizioni. Amava il cinema e credeva in quello che faceva. Fu uno dei primi distributori dei film Disney. Fece esordire Eduardo e Peppino De Filippo sul grande schermo e Vittorio De Sica alla regia. Non accettava un no.
Ha mai pensato di raccontare la vita stessa di Peppino Amato, come un film?
E’ un’idea su cui si può lavorare. Ha avuto una vita incredibile. Con il docufilm volevo raccontare, nell’anno del sessantesimo anniversario dell’uscita al cinema de La dolce vita e del centenario della nascita di Federico Fellini, il dietro le quinte di una delle pellicole più amate nel mondo, attraverso questa incredibile documentazione inedita e originale che è stata custodita dalla nostra famiglia per tanti anni.
Di produttori se ne parla sempre molto poco, perché?
Mentre negli Stati Uniti la figura del produttore è rispettata e celebrata, in Italia sembra quasi una figura di passaggio. Raramente se ne parla. Invece ha dei meriti importantissimi, come nel caso di mio nonno. Senza la sua ossessione, forse non avremmo mai visto Anita Ekberg che si bagna nella fontana di Trevi.
Crede che potrà mai ritornare quell’epoca d’oro dell’industria del cinema?
Il mercato è molto cambiato, a volte il produttore sembra un passacarte tra una rete televisiva e il set mentre dovrebbe essere più valorizzata la figura del produttore indipendente perché è motore dell’industria, di creatività e valorizzazione del prodotto cinematografico.
Amato è stato definito “l’uomo più vivo del cinema italiano”. Tra le curiosità e i tanti documenti sulla complicata lavorazione del film, cosa l’ha sorpresa di più?
Ho una visione mitizzata di mio nonno, nata dai racconti di famiglia. Mi è rimasta sempre in mente una sua frase che descrive il suo pensiero “un produttore non deve fare film per fare soldi, ma deve fare film cosi belli da fare tantissimi soldi”. Credeva fermamente nei progetti che voleva realizzare. Ci si dedicava con capacità professionali, buona fede e lungimiranza, affinché il risultato fosse all’altezza delle aspettative.
Aveva fiuto…
Ha lavorato con Blasetti, Germi e tanti altri. Ha realizzato capolavori del Neorealismo come Umberto D. di De Sica, e poi Francesco, giullare di Dio di Rossellini. Investì soldi anche in Roma città Aperta, a condizione che il ruolo di Pina fosse affidato ad Anna Magnani. E nel dopoguerra produsse il primo film della serie Don Camillo.
Con De Sica c’è stata una grande amicizia?
Si e anche molta complicità. Erano due grandi giocatori d’azzardo, affascinatori di donne e di star internazionali. Il connubio tra loro due era vero e sincero.
Dopo la fine della travagliata lavorazione del film come sono rimasti i rapporti tra Amato e Fellini?
Si conoscevano da tantissimo tempo, da quando Fellini arrivo a Roma e fu coinvolto nella sceneggiatura di Rosellini, Roma città aperta. C’era sicuramente una stima professionale reciproca. Nessuno prima di mio nonno aveva compreso la luce e il valore di quella sceneggiatura dall’impianto creativo straordinario, e Fellini glielo ha sempre riconosciuto.
In qualche modo Amato rivedeva la sua vita ne La dolce vita?Mio nonno aveva un suite all’Excelsior di via Veneto ma non frequentava le notti romane, in senso goliardico. Ci andava per incontrare gli autori, gli scrittori, i registi e le star. Conosceva quel mondo, fatto di lustrini, glamour e apparenza. Era incuriosito dalle storie raccontate e ambientate in quel microcosmo, che fotografa perfettamente la società italiana.
Quali sono prossimi impegni come produttore?
Sto lavorando su un nuovo progetto: la vita di mio padre, Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer, dagli inizi della sua carriera fino all’incontro, nel 1967, con Terence Hill sul set di Dio perdona…io no!
E come regista?
Vorrei raccontare una storia poco conosciuta su un eroe italiano, Hugo Spadafora. Era un medico che negli anni ‘70 scelse di combattere contro le dittature in America Latina e fu brutalmente ucciso: decapitato dal dittatore Manuel Noriega di Panama.