Alle radici dell'odio

Gennaro Matino (July 12, 2016)
Dopo gli attentati di Dacca ancora una volta rimaniamo sgomenti di fronte all'ultima inaudita violenza di nuovi interpreti di apocalittiche scritture che giudicano e condannano il mondo. Tutti, ormai, in qualsiasi angolo della terra, ci sentiamo braccati, prigionieri della paura. Forse se avessimo il coraggio di dire la verità tutta intera capiremmo che le radici dell'odio, ovunque celebrate, infette e generatrici di morte, nascono sovente dal sopruso e dalla violenza subita, capiremmo che non sarà mai possibile aspirare alla pace se non garantendo pace a chi l'ha ormai cancellata dal proprio vocabolario.


LE radici dell'odio cercano significati, inseguono spazi da occupare.



Dopo gli attentati di Dacca ancora una volta rimaniamo sgomenti di fronte all'ultima inaudita violenza di nuovi interpreti di apocalittiche scritture che giudicano e condannano il mondo. Tutti, ormai, in qualsiasi angolo della terra, ci sentiamo braccati, prigionieri della paura: «Volevamo uccidere gli stranieri dei Paesi crociati a Dacca», un'affermazione che sembrerebbe non lasciare scampo a chi non crede nel Corano, a chi appartiene a una religione, a una cultura e a una civiltà diversa. Un'ulteriore efferata strage che ha riportato in questi giorni all'attenzione le parole di Oriana Fallaci, che nel 2005 spiegava la sua decisione di raccontare il suo diritto all'odio: "Abbiamo paura di non essere sufficientemente allineati, obbedienti, servili, e venire scomunicati attraverso l'esilio morale con cui le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadino. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere rischi, di avere coraggio". 




Un coraggio che lascia anche all'odio diritto di cittadinanza. E se la Fallaci avesse ragione, se la libertà fosse davvero possibile difenderla solo con la forza dell'odio? La giornalista si sentiva autorizzata a provare avversione mortale per la diversità di un pensiero ritenuto opposto, nemico della libertà. Eppure le radici dell'odio, quel diritto ad odiare il nemico che spingevano la Fallici a vedere nell'Islam un problema da cancellare, sono piantate in un terreno comune trans religioso, trans nazionale, trans storico, purtroppo fecondo, che fa uguali gli uomini a latitudini diverse, radici difficili da estirpare dal cuore di un'umanità che da sempre usa l'odio come arma politica per formare alla "guerra santa" i suoi soldati, i propri martiri. 




Cosa hanno di diverso questi giovani armati di coltelli o bombe dai guerriglieri di un passato prossimo o dai fanatici estensori della strategia del terrore di casa nostra? È la religione il problema? Forse la vera ragione per cui i jihadisti combattono e che noi facciamo di tutto per ignorare, fasciandoci la testa per non vedere, è la stessa che ha armato in tempi non lontani la mano di alcuni "guerriglieri", terroristi di altrove o liberadores. Forse faremmo bene a ricordare come negli anni sessanta Che Guevara era divenuto un mito dei giovani, non c'era ragazzo che non avesse il suo poster nella propria stanza o il suo volto stampato sulla t shirt. 




Qualcuno lo paragonò perfino a Cristo per la sua lotta di liberazione dei popoli da un capitalismo che metteva in ginocchio, nella miseria, i suoi fratelli. Le sue parole non erano meno dure di quelle del Califfato: "L'odio come fattore di lotta; l'odio intransigente contro il nemico, che permette all'uomo di superare i suoi limiti naturali e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così: un popolo senza odio non può distruggere un nemico brutale. Bisogna portare la guerra fin dove il nemico la porta: nelle sue case, nei suoi luoghi di divertimento. Renderla totale. Non bisogna lasciargli un minuto di tranquillità farlo sentire come una belva braccata". 




Parole impressionanti per la loro atroce attualità che inneggiavano all'odio, che alimentavano l'odio, lo giustificavano al punto tale che chi lottava per la propria causa non era ritenuto un terrorista, ma un combattente, un guerrigliero, un riformatore sociale, addirittura un santo che metteva a repentaglio la propria vita in nome della giustizia. Perché non capire che un mito osannato ieri anche se malato può essere perpetrato altrove, con altro linguaggio, con altro nome ma uguale sostanza, da giovani generazioni pronte a sacrificare la propria vita solo se porta in se una valenza rivoluzionaria, un'aspirazione alla giustizia. Non avremmo oggi nessun terrorista se avessimo costruito un mondo più giusto, se avessimo rispettato il diritto dei popoli a costruire la propria storia, a garantire la propria sussistenza, come ieri nel Sud America non ci sarebbe stato nessun "Comandante" senza l'oppressione dei campesinos. 




Forse se avessimo il coraggio di dire la verità tutta intera capiremmo che le radici dell'odio, ovunque celebrate, infette e generatrici di morte, nascono sovente dal sopruso e dalla violenza subita, capiremmo che non sarà mai possibile aspirare alla pace se non garantendo pace a chi l'ha ormai cancellata dal proprio vocabolario. E forse, anche noi a Napoli, dovremmo cominciare a ragionare in maniera politicamente diversa e capire quanto sia pericoloso usare l'odio per veicolare un'idea. La risposta al terrorismo non può essere odio contro odio, ma la globalizzazione della giustizia, lo spartire pace condividendo lo stesso pane. 

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