Rompere il silenzio, ancora

Letizia Airos (January 30, 2012)
Riflessioni libere contro l’indifferenza e la dimenticanza mentre a Park Avenue vengono, tra una nota e l’altra, letti i nomi delle famiglie deportate ad Auschwitz. Contro quel rischio sempre latente di non accettazione dell’Altro

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C’era la musica questa volta. Note che volevano accompagnare le voci di chi leggeva. Cognomi e nomi  che spezzavano l’aria nel rumore umido di una  piovosa strada newyorkese.  Cognomi che venivano ripetuti insieme a nomi diversi.  In pochi secondi si delineava l’albero di intere famiglie deportate e sterminate ad Aushiwitz e non solo. Padri, madri, figli, sorelle, fratelli, nipoti, nonni, nonne…  Vite da non cancellare.

Brandon Ross, Lawrence "Butch" Morris, Avram Fefer, Marco Cappelli, Bernd Klug, Mauro Pagani, musicisti newyorkesi e italiani, con discrezione quasi timida poggiavano le loro note accanto a quei nomi.

Quella della lettura dei nomi delle vittime italiane della Shoa, il 27 gennaio, mentre in Italia si celebra la Giornata della Memoria, è ormai una ricorrenza fissa nella New York italiana.  Anche quest’anno dunque―nel sessantasettesimo anniversario dall'apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa―diverse componenti della comunità italiana, del mondo ebraico e diplomatico si sono raccolte al Consolato Generale d’Italia, nel garage aperto su Park Avenue, davanti a dei leggii su cui erano posati i fogli con migliaia di nomi.

E’ un’iniziativa voluta fortemente dal Centro Primo Levi e dall’ex Console Generale Francesco Maria Talò, che quest’anno ha avuto come regista il nuovo responsabile del Consolato Generale di New York, Natalia Quintavalle, insediata da pochi mesi.

Si tratta di un evento che noi ad i-Italy sentiamo in maniera particolare e seguiamo da anni, convinti che occorra amplificarne sempre di più la portata.

Riteniamo di doverlo fare anche  perchè succede ancora di sentir dire: “perchè continuare a leggere quei nomi?”.  Mentre qualcun altro aggiunge: “ma a cosa serve far ricordare tutto questo?”

Quest’anno c’è stato addirittura chi si è chiesto: perchè gli italoamericani dovrebbero partecipare a questa cerimonia? E, a ridosso del 27 gennaio, un anonimo ha inviato una lettera non firmata dal forte sapore antisemita al Professor  Anthony Tamburri, Dean del Calandra Institute ed editor di i-Italy, da sempre impegnato su questi temi (vedi articolo correlato).

Sono tutte spie di una latente indifferenza (chiamiamola così) molto pericolosa. Ed è questo che mi spinge a scrivere queste note a margine di questa Giornata della Memoria 2012 a New York.

Contro l’idifferenza e la dimenticanza

Quel 27 gennaio 1945 il mondo fu obbligato ad aprire gli occhi di fronte all’orrore del campo di Auschwitz liberato, un orrore che aveva attraversato un’Europa indifferente. Indifferente appunto. Siamo davvero immuni oggi da questo rischio di indifferenza?

Stella Levi, una degli ebrei italiani deportati da Rodi e sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, era presente anche quest’anno all’evento e con la sua voce forte e flebile al tempo stesso mi ha detto: “Noi eravamo numeri, sentire dei nomi al posto di quei numeri, ci fa ridiventare uomini e donne”. 

Basterebbero queste parole per spiegare il perchè di un evento che restituisce dignità umana a persone che erano considerate numeri.

Non dimentichiamo poi che di anno in anno sono sempre meno le vittime ed i carnefici in grado di testimoniare.  Quello del 27 gennaio, quindi, non è solo un omaggio, un’abitudine, ma  è anche un invito ad apprendere.  Anche un’occasione da condividere con persone come Stella Levi, testimoni di un’esperienza che dobbiamo definire inumana.

Al di là delle parole, della retorica così facile in queste occasioni, far assistere i propri figli, i propri nipoti, a un’iniziativa così significa investire nella speranza di un mondo migliore. Ancora prima dei libri di storia, c’è bisogno di questo passaparola generazionale, finchè è possibile. Proprio per impedire che si dia credito a quei nuovi “storici” che oggi negano, caricandoci di pericolose riletture.

L’ignoranza porta a ripetere errori ed orrori che sembravano impossibili.  L’uomo può esserne ancora capace, così come è in grado di creare anche meraviglie.

E torniamo alla musica dello scorso venerdì. Al significato che ha avuto e che aveva.

Mauro Pagani, tra i musicisti che sono intervenuti, mi ha confessato: “Non potevo ascoltare quei nomi, ho dovuto pensare solo a suonare. Riflettere sul fatto che tutto questo è successo nell’Europa più colta, culla della cultura,  solo settanta anni fà, ancora mi fa rabbrividire”.

Tra memoria, musica e presente, Stella Levi, seduta in un angolo ascoltava anche lei i musicisti.  “Sono tornata indietro, a quando avevo 19 anni ero lì e suonavano”, mi ha detto. 

Cosi mentre Mauro Pagani si doveva in un certo senso deconcentrare dal contesto per suonare, Stella Levi tornava indietro con la memoria a quel campo dove accanto all'orrore c'era anche la musica.

Sembra impossibile che le due cose possano coesistere. Eppure è successo.

C’era quella musica che l’orrore ha saputo usare per accompagnare in maniera incalzante i riti dell’annientamento a cui si ispiravano i nazisti.

Ma c’era, va ricordato, anche la musica che ha aiutato i deportati ad arginare l’odio, a cercare nelle note un barlume di umanità. Erano musicisti, ma anche prigionieri senza specifica preparazione musicale. “Cantavamo tanto―mi ha deto Stella―cantavamo in italiano e suonavamo.”  

L’incontro tra due comunità

Su Park Avenue, nella città più italiana fuori dall’Italia e più ebraica fuori da Israele, dove ha sede l’ONU, dove coesistono profonde diversità e molteplici contraddizioni, curiosi con l’ombrello si sono fermati stupiti, spesso assorti, davanti a queste voci e alla musica live. E qui due comunità, quella ebraica e quella italoamericana, che hanno spesso intrecciato le loro storie qui a New York, hanno trovato una voce comune. Tra loro un filo rosso. Quello del rapporto tra memoria, verità e negazione. Sia pure per ragioni diverse.

Vorrei ricordare che il vero e proprio manifesto della nuova intellettualità italoamericana nacque nel 1989 per rompere l’assordante silenzio che si era creato in ampi settori della comunità sul tema del nostro stesso “razzismo”―nei giorni di violenza che seguirono l’omicidio dell’adolescente nero Yusuf Hawkins a Bensonhurst da parte di un gruppo di suoi coetanei, in gran parte italoamericani. In “Breaking the Silence: Strategic Imperatives for Italian American Culture,” il prof. Robert Viscusi (per inciso, anche lui uno dei nostri bloggers più amati) prendeva le mosse da quell’episodio per sostenere che “all’America italiana manca una tradizione dialogica autocritica,” e proporre un radicale rinnovamento della cultura italoamericana fortemente radicato nella conoscenza senza veli della propria esperienza storica.

La tentazione, diffusa in alcuni ambienti italoamericani, di insistere su di un racconto solo positivo, mai autocritico, è nota: ed è un aspetto anche qui di “negazionismo”―che si tratti della Mafia, come ha ricordato recentemente Roberto Saviano in una conferenza alla NYU, o di Jersey Shore e del fenomeno dei “Guidos”, coma abbiamo a lungo analizzato su i-Italy in una serie di articoli ora raccolti in un libro.

Tutto ciò che può offuscare l’immagine dell’italianità, in patria come all’estero, andrebbe eliminato, quanto meno celato. E  così siamo stati invasi da tante celebrazioni, anzi autocelebrazioni, in un vortice di italiani “brava gente,” che estende la tentazione negazionista anche alle responsabilità degli italiani sotto il fascismo nei confronti della Shoah. La lettera anomima ricevuta dal Professor Tamburri dimostra che questa tentazione esiste non solo in Italia, ma anche nell’America Italiana.

L’Italia e l’America Italiana

Sono piani diversi, certo, ma hanno qualcosa in comune. Si comincia a dimenticare la Shoah e si finisce per dimenticare di essere arrivati negli USA poveri, deboli e facilmente assoggettabili alla crimanilità.  Il giornalista del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella, aveva sottitolato un suo libro molto famoso: “Quando gli albanesi eravamo noi.”  Voleva ricordare agli italiani―che troppo spesso nell’ultimo decennio si sono scoperti xenofobi quando non apertamente razzisti―quei milioni di nostri antenati che avevano invaso l’America come un’ “Orda” di immigranti poveri appunto, e molto spesso guardati con la stessa diffidenza e paura con cui oggi molti italiani guardano agli immigrati che approdano sulle nostre spiagge dall’Albania, dall’Africa del Nord.

Ma quanto è difficile ammettere di essere stati anche noi “albanesi”? Nel voler dimenticare la nostra albanesità coltiviamo il germoglio di un possibile razzismo. Così come nel voler dimenticare la Shoah ricreiamo le condizioni perchè possa ripertersi la follia. Ecco perchè la presenza di tanti esponenti della comunità italiamericana nella celebrazione del Giorno della Memoria a New York ci è sembrata particolarmente importante.

L’Italia e l’America Italiana si sono unite in quel giorno nella consapevolezza che l’assenza di memoria è la negazione del futuro. Il che non ci impedisce di vedere con obiettività anche quei fenomeni in controtendenza, come l’aiuto prestato da diversi italiani agli ebrei che cercavano di sottrarsi alla persecuzione―ne parla ad esempio su i-Italy Joshua Levi in un toccante articolo che abbiamo appena pubblicato.

Forse non c’è un altro Hitler oggi, qualcuno che abbia un progetto sistematico di sterminio di un’intera razza, ma ci sono spie di intolleranza in tutto il mondo, anche in Italia. E ci sono anche atteggiamenti apparentemente meno riprovevoli ma molto pericolosi, soprattutto perchè condivisi. Creare delle classi per extracomunitari in Italia ricorda il segregazionismo, etichettare come pericoloso un cittadino straniero solo perchè viene da un Paese povero,  chiudere dei locali di ristorazione perchè tenuti da non italiani, sono solo alcuni dei sintomi preoccupanti anche perchè supportati da istituzioni di diverso livello, come è accaduto in alcuni Comuni. Non deve accadere in Italia, non deve accadere in America. E non deve accadere a maggior ragione nell’America italiana, che proprio in ragione della sua “albanesità” dovrebbe essere una roccaforte dell’accettazione dell’Altro.

Non dimenticherò mai quel velo di fanciullesca tristezza che ho visto negli occhi di Stella Levi quando mi ha raccontato cosa ha provato quando era bambina e non le hanno permesso più di andare nella scuola dove andavano i suoi amichetti.

E’ successo. Sotto l’impotenza di molti.  Era anche una legge dello Stato italiano. Uno dei primi passi verso l’orrore.

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"La nostra voce, e quella dei nostri figli, devono servire a non dimenticare e a non accettare con indifferenza e rassegnazione, le rinnovate stragi di innocenti. Bisogna sollevare quel manto di indifferenza che copre il dolore dei martiri! Il mio impegno in questo senso è un dovere verso i miei genitori, mio nonno, e tutti i miei zii. E’ un dovere verso i milioni di ebrei ‘passati per il camino ‘, gli zingari, figli di mille patrie e di nessuna, i Testimoni di Geova, gli omosessuali e verso i mille e mille fiori violentati, calpestati e immolati al vento dell’assurdo; è un dovere verso tutte quelle stelle dell’universo che il male del mondo ha voluto spegnere… I giovani liberi devono sapere, dobbiamo aiutarli a capire che tutto ciò che è stato storia, è la storia oggi, si sta paurosamente ripetendo."

Elisa Springer, Il Silenzio dei Vivi

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