Parole vecchie e parole nuove. Non tutti le capiscono alla stessa maniera

Luigi Casale (March 22, 2014)
ll caso di “agenda” e “compiti”. Continua il viaggio alla scoperta del mondo delle parole. Solo chi non conosce la loro portata (specialmente quando c’è di mezzo la traduzione da una lingua all’altra) non capisce


Molte volte mi chiedono, e io stesso me lo domando, perché non mi dedichi alla esplicitazione di commenti e riflessioni su: eventi, fatti, azioni e conseguenze, dell’attualità politica. Nell’assumermi l’onere di collaborare al sito www.liberoricercatore.it come esperto di etimologia, avevo precisato la finalità educativa di questa mia ricerca: “la trasparenza linguistica per comprendere meglio le realtà”. Obiettivo che avevo fissato a me stesso prima di consegnarlo ai lettori che avessero voluto seguirmi. A me personalmente sarebbe bastato che le persone aprissero gli occhi (e la mente) per comprendere da soli ciò che ci si muove intorno. Un po’ come fanno i bambini (ma in effetti lo fanno per natura tutti gli uomini, fino agli studiosi e agli scienziati: i ricercatori).  


La gratificazione, i lettori più vicini – tutta gente del popolo – se l’aspettavano dalla proposta etimologica delle parole napoletane, specialmente di quelle che non trovano riscontro di corrispondenza morfologica e strutturale nella lingua italiana. E infatti, era insistente la loro richiesta. Ma soddisfazione maggiore – ne sono convinto – avrebbero provato proprio in quelle parole della lingua italiana, forse le più semplici e familiari, inflazionate dall’uso nel loro valore semantico, specialmente quando esse entrano nel discorso per moda, per eccentricità o per piaggeria. Quanto ad accontentarli nella scelta di parole dialettali, o addirittura vernacolari, ho cercato di fare del mio meglio.


Purtroppo però, la mia scarsa applicazione metodologica, ma soprattutto la mancanza di adeguati strumenti necessari alla ricerca – la quale se mi affascina, tuttavia non è attualmente la mia occupazione principale – mi hanno fatto preferire, per la maggior parte della produzione letteraria, il lessico della lingua italiana. Erano fatti salvi comunque, da una parte l’intento educativo, dall’altra la promessa di occuparmi di qualcosa di più importante e di più significativo per la vita sociale, politica e morale. Ora rileggendo alcuni lemmi da me proposti in questi quattro anni di attività, mi accorgo che quell’intento originario, benché non sempre vigile in tutti gli articoli pubblicati, ha in qualche modo riscattato il mio atteggiamento apparentemente di disimpegno.


Rimane perciò ancora la promessa, la quale nell’attesa di essere rispettata e riconosciuta sempre valida, si anima già in questa mia ulteriore pagina: questa, presente. A gennaio del 2013 il presidente del consiglio era Mario Monti. Egli parlava di “agenda”, mentre la Merkel parlava di “compiti a casa” per l’Italia. La Repubblica dedicò un paginone alla parola “agenda”: non si capì bene se perché fosse stata trovata nuova e originale, o perché sembrasse strano l’uso che se ne faceva. Mentre ai più sfuggiva la connotazione negativa che la stampa italiana volle dare alla parola “compiti”, da farla sembrare ancora oggi una cosa indegna di persone mature. Su “agenda”, volli intervenire anch’io; ma solo per la salute (nel senso di salvezza, come dire: salvarli dalla confusione dei linguaggi) dei miei pochi lettori.


Nella trattazione del lemma parlai anche del significato di “compiti”, senza approfondirne l’origine semantica. Ma un anno dopo, quando mi è capitato di dover parlare di “computer”, ho dovuto richiamare in quel caso in quanto appartenente alla stessa famiglia di parole, anche il termine “compiti”. A distanza di un anno, cambiati gli attori, la scena è la stessa; perché identico è rimasto l’atteggiamento, fondamentalmente permaloso e diffidente, della politica italiana verso l’Europa e verso quelli che ne hanno a cuore il destino (www.liberoricercatore.it/cultura/pilloledicultura/computer ). Perciò, ora, ripropongo la rilettura di quanto andavo scrivendo l’anno scorso, invitando i nuovi lettori a rileggersi – se ciò non risulta troppo oneroso – anche il lemma computer di più recente pubblicazione.  

Inizio della citazione.

“Pillole di cultura (“Agenda” di Luigi Casale) - Faccio in tempo a parlarvi di agenda? Certo, avrei potuto farlo prima! Considerato l’uso diffuso della parola specialmente negli ultimi tempi. Ma dopo che anche il quotidiano “la Repubblica” (giovedì, 3 gennaio 2013) ha dedicato un paginone alla parola (nello spazio: “R2-DIARIO di Repubblica”), non posso esimermi. Perciò nel rispetto dei miei quattro lettori non mi tirerò indietro. Anche se la riflessione a più voci presentata sul giornale la Repubblica – suggerita dalla attualità della formula “agenda Monti” – ne spiega l’uso e il significato nel linguaggio della politica. Il mio intento resta comunque fedele alla affermazione posta a cappello di questa rubrica. Ciò, per non lasciare l’affezionato mio lettore, desideroso di addentrarsi in un più personale percorso di lettura della parola, privo di quel metodo che nella sua modestia appare più vicino, più quotidiano, più familiare: tutto nostro, insomma.


Nella pratica noi sappiamo che cosa sia l’agenda: un libro, un quaderno, un brogliaccio, dove vengono annotati gli appuntamenti, le date importanti, le cose da fare; oppure dove sono fissate quelle annotazioni di carattere personale di cui vogliamo lasciare memoria allo scopo di poter ricostruire in futuro la nostra storia personale. Questa seconda utilizzazione avvicina l’agenda a quell’altro libretto che chiamiamo anche diario. Per l’esperienza che ne abbiamo, potremmo dire allora che l’Agenda (quella che in questo inizio d’anno abbiamo ricevuto in dono specialmente da Banche, Assicurazioni, Uffici di rappresentanza, Ditte e Società di servizi) è più professionale, destinata agli adulti, o per lo più a persone di un certo impegno e responsabilità.


Il Diario, invece, scolari e studenti ce l’hanno nella cartella scolastica; dove annotano insieme agli impegni giornalieri di scuola anche i compiti assegnati, da svolgere a casa. Le due cose potrebbero però ridursi alla medesima funzione, compreso anche il lavorio quotidiano di ricerca interiore fatto giorno per giorno attraverso la registrazione del vissuto: incontri, emozioni, fantasie, riflessioni, decisioni, annotazioni per memoria, ecc. “Diario” – forse già ne abbiamo parlato in altre occasioni – è un aggettivo (poi sostantivato: “il diario”) derivato da dies = giorno; perciò l’etimologia della parola mette in evidenza una rappresentazione del tempo cadenzato a ritmi giornalieri.


Mentre “agenda” è un’antica forma di participio (perdutasi nella lingua italiana!) che la grammatica latina ci fa chiamare gerundivo. In particolare: agenda, dal verbo ago = faccio, è il nominativo plurale neutro del gerundivo latino, e significa “le cose che debbono essere fatte”. Perciò la parola, divenuta in italiano – come nome del libricino – un sostantivo femminile singolare, mette in evidenza le azioni programmate, le scadenze, tutte cose che, una volta svolte, diventano “fatte” (i fatti, gli avvenimenti); cioè “acta” (sempre da “ago”), per dirlo con la corrispondente parola latina. Sia il politico che lo scolaro, quindi, a seconda che chiamino agenda oppure diario il loro libro immaginario delle cose da farsi – o il brogliaccio concreto su cui le annotano – si riferiscono ad un programma definito di “compiti” (ricordate l’espressione della Merkel? “L’Italia deve fare i suoi compiti!”). Ma la parola “compiti” non significa necessariamente: “cose assegnate da altri”.


Ma più esattamente: “cose che devono essere portate a termine (compiute)”. In francese la parola per indicare la stessa cosa è: “devoirs” (calco delle parole italiane: doveri o debiti; cioè “cose dovute, che si devono fare o dare in restituzione”). In conclusione: solo chi non conosce la portata delle parole (specialmente quando c’è di mezzo la traduzione da una lingua all’altra) non capisce. Potenza della trasparenza! Mentre chi è in malafede fa finta di non capire. (Luigi Casale per www.liberoricercatore.it )”. Fine della citazione.

Chi ha orecchie da intendere .........  

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