Marco Pelle, di passo in passo

Francesca Pili (December 10, 2018)
Vincitore del PrimiDieci USA Awards nel 2016, il coreografo italiano ci racconta la strada percorsa, tra vita e danza, che lo ha portato al successo

È una storia tutta particolare quella di Marco Pelle, coreografo del New York Theatre Ballet.

La strada che l’ha portato sin qui non è stata quella canonica che ci si aspetterebbe.

Ha infatti iniziato a studiare danza a 20 anni, un’età in cui di solito la carriera di un danzatore dovrebbe già essere avviata. Proprio per questo motivo la sua non è stata una scelta a cui tutti avevano creduto sin da subito.

Originario di Parma, è cresciuto a Vicenza, con un padre vicedirettore generale di banca che auspicava per lui una strada decisamente diversa. “Mi fece studiare economia a Venezia, ma frequentai solo per un anno”  ricorda Marco.

Come ci racconta, aveva sempre saputo di voler ballare, “da quando avevo 3 anni. Iniziai a chiedere di essere mandato a lezione di danza, ma mio padre non riusciva a vedere di buon occhio la cosa”. Così provò il basket, la pallavolo, il nuoto. Tutte attività a cui “permettevo loro di iscrivermi, entravo nelle palestre, e uscivo dal retro”. Ma dopo aver cercato di seguire le orme paterne, la visione in un teatro di Vicenza di Caught, iconica coreografia di David Parsons, spalancò quella porta per troppo tempo rimasta socchiusa per lui: “Io volevo essere un ballerino”.

Così, nel ’95, comincia a guardarsi intorno per cercare scuole di danza, ma la maggior parte accettavano solo donne. “Non credo fosse per pregiudizio. Credo fosse più perché la formazione di un ballerino uomo può essere più difficile”.

Fortunatamente trovò un’insegnante “che divenne una seconda madre”, Maria Berica della Vecchia, Direttrice artistica del Centro Danza Oggi a Vicenza.

“Mi fece studiare con lei, a Vicenza e all’Académie Princesse Grace di Monte Carlo. Lei ha creduto nel mio mordente. Diceva sempre che ero una Cinquecento con dentro il motore di una Ferrari”.

Fu così che Marco iniziò il percorso di studio della danza partendo proprio dalle sue basi, dalla propedeutica, insieme ai bambini. “All’epoca non avevo maturato alcun senso del ridicolo. Questo mi ha aiutato molto. Quando a 20 anni ti trovi a fare lezione in mezzo ai bambini di 5, non puoi avere vergogna. Fondamentalmente non mi ero ancora trovato nudo nel giardino dell’Eden”.

Dopo 3 mesi, “proprio perché non mi vergognavo”, invitò il padre al suo primo saggio. “Fu un disastro” ricorda, “perciò l’anno dai miei 20 ai 21 fu molto, molto duro”.

Ma non si arrese. Continuò per la sua strada, con le lezioni, “trasformando molto il mio fisico con il duro lavoro in sala prove”. Fin quando arrivò il giugno del ’96, mese in cui ebbe occasione di esibirsi in un nuovo saggio. E fu lì che riuscì a convincere definitivamente suo padre, facendolo diventare “il mio fan numero uno. Da quel momento non tornò più indietro. È diventato il mio primo sostenitore, ha riconosciuto che fosse la mia strada”.

Marco ci tiene tantissimo a sottolineare questo aspetto. “Una persona può commettere un errore, ma la grandezza sta proprio nella capacità di rivalutare, chiedere scusa e dare ragione”. E difatti è passato dall’essere prima detrattore ad arduo sostenitore, “anche quando sono stato io a voler lasciare, a sentirmi stanco. Mi ha sempre spronato a continuare, fino all’ultimo giorno”.

L’arrivo negli Stati Uniti nasce da una scelta improvvisa. “A 22 anni mi resi conto che in Europa non avrei trovato la mia soddisfazione. L’Accademia mi permetteva di studiare, ma tutto sommato non mi sentivo sostenuto”. Marika Bezobrazova, fondatrice dell’Accademia, che gli aprì le porte della stessa lasciandogli fare gli esami, a un certo punto fu sincera nel dirgli che rimanendo lì poteva diventare un insegnante, ma non un ballerino. Decise quindi di interrompere le lezioni e di tornare a Vicenza, senza avere però un piano preciso sul come proseguire. Fu la madre a spingerlo a scegliere l'America per inseguire il suo sogno.

E fu così che arrivò a New York, “completamente allo sbaraglio. Ero proprio wild. Dormivo per strada, a Carl Schurz Park, non parlavo neanche inglese. Non avevo alcun punto di riferimento. Raccontai una gigantesca bugia ai miei, riguardo al fatto di avere degli amici. In realtà trovai delle soluzioni abitative allucinanti, con coinquilini con svariati problemi, e aiutavo come scaricatore in una ditta di traslochi. Questo mi diede il tempo di fare audizioni per le scuole, che mi offrirono diverse borse di studio: Alvin Ailey, José Limon e Merce Cunningham. Optai per quest’ultima. Avevo una borsa di studio parziale, studiavo e lavoravo all’interno della scuola, facendo pulizie o receptionist”.

Merce Cunningham, si sa, ha avuto una visione molto particolare, estrema, nella danza. “Era talmente tanto interessante come lavoro da fare sul mio corpo, questa cosa di trasformarlo quasi in un robot. Trasformi il tuo corpo in una serie di potenzialità. Il tuo corpo diventa un’estensione della tua volontà, e non c’è un’emotività legata al movimento. Ci può essere nella coreografia, ma tu sei all’interno di questo corpo che fa di tutto”. Gli chiediamo dunque come sia stato, da ballerino italiano, avvicinarsi ad un mondo così distante. “All’epoca la mia vita era così difficile, che questa danza che non ti permette emotività, che ti mette in contatto col tuo corpo, ma non con il sentimento, era probabilmente ciò di cui avevo bisogno. In quelle ore io diventavo un movimento puro, nitido, e non c’era nessuna forma di interpretazione emotiva”.

Nella scuola di Cunningham vince 9 borse di studio, restando dal ’97 al 2001.

“La danza classica resta ovviamente la mia preferita, ma Cunningham mi ha influenzato molto, ci ho messo degli anni a distaccarmi da lui nella mia visione creativa, perché la sua era veramente potente. È una delle creatività che regge di più al tempo, proprio perché così asettica. Io ne ho una grandissima ammirazione, aveva qualcosa di liberatorio”.

Nel 2001 fece un’audizione per la Eisenhower Dance Company in Michigan, e si trasferì a Detroit. “Una città bellissima, ma fantasma, a causa degli importanti problemi economici che ha avuto”. Siamo nei primi anni 2000, la “Detroit Motor City” vive da tempo una profonda crisi (che culminerà nel 2009 col fallimento di Chrysler e General Motors). In questa città così provata, dopo uno spettacolo al Music Hall, dietro le quinte avviene “l’incontro della vita” con David DiChiera. Direttore generale del Michigan Opera Theatre (da lui fondato). Marco ricorda come il suo lavoro stesse “aiutando la città in maniera enorme, perché quando ci fu il crollo economico resistettero solo lo stadio e l’Opera. Mi accolse come un padre, aprendomi le porte di casa sua e introducendomi al mondo dell’Opera. Fu lui a chiedermi se avessi mai coreografato e avessi mai avuto interesse a farlo”

Fu DiChiera a mettere in contatto Marco e Mario Corradi, vedendo bene il mix. “Fu Mario che mi diede la prima opportunità. Gli mostrai una coreografia non mia, chiedendo il permesso a chi l’aveva fatta. Lo feci perché era nelle mie note, era un tipo di movimento che mi apparteneva. La sentivo come qualcosa che avrei potuto fare io. E Corradi mi offrì un Macbeth a Jesi, al Teatro Pergolesi. Mario mi insegnò il mestiere. Quando cominciai a coreografare sentii subito che era la mia strada, che io ero un coreografo”.

Da lì, dunque, l’ascesa. “Smisi subito di ballare e mi concentrai sulla coreografia d’Opera”. Fece tante produzioni, e nel 2002 avvenne l’incontro con il New York Theatre Ballet. “Diana (Byer, Fondatrice e Direttrice artistica, ndr) aveva bisogno di una coreografia di qualche minuto, e le proposi un passo a due tra due uomini che coreografai per l’Antract del terzo atto della Carmen andata in scena a Parma”. Raccontata così sembra sia avvenuto tutto in un battito di mani…e più o meno andò proprio così. “Mi chiese se potessi montarla in un’ora. Lo feci e le piacque, così iniziò questa collaborazione”.

Negli anni successivi Marco ha lavorato con svariate altre compagnie, nonché con étoile internazionali. Tra tanti, ricordiamo Alessandra Ferri, con cui ha collaborato nel 2008 in The Piano Upstairs (video) per il suo ritorno alle scene in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto. Una collaborazione da cui nacque anche una profonda amicizia.

Il legame con il New York Theatre Ballet, ovviamente, resta. È infatti con loro che nasce la partecipazione all’ultima serie tv di Ryan Murphy, Pose. “È stata un’esperienza bellissima, e ne è venuto fuori un prodotto eccezionale”. Non era la prima volta che Marco lavorava per lo schermo: è sua infatti la coreografia del corto Passage (video), con Roberto Bolle e Polina Semionova, per la regia di Fabrizio Ferri, presentato in apertura del Festival del Cinema di Venezia del 2013.

E per il futuro ha in programma “una sfida”. Un Gala di danza di stelle internazionali a Detroit. “Un’idea nata e cresciuta proprio insieme ad Alessandra, che oltre a partecipare all’organizzazione, ballerà anche tre pezzi”.

È previsto per il 16 febbraio 2019, ed è un Gala che spazierà dai grandi classici alla contemporaneità, come Whitness di Wayne McGregor, uno dei pezzi che danzerà proprio la Ferri.

“L’idea parte dalla voglia di portare al pubblico una serata sfaccettata. Un pubblico come quello di Detroit è abituato molto bene per quel che riguarda l’opera e il balletto, e avrà la possibilità di vedere ballerini unici, meravigliosi, in un programma molto variegato. La mia idea di fondo è quella del timeless, il senza tempo. Alessandra per me è senza tempo. Il suo movimento, la sua luce, è qualcosa di unico, profondo. Portarla in un teatro così bello è un grandissimo onore per me. Ed è una cosa che sento molto perché si svolgerà in una delle mie case negli Stati Uniti, un teatro per cui ho moltissimo rispetto”.

Alla fine del racconto di questa vita che a tratti ha dell’incredibile, Marco ci saluta con un’immagine: “I ballerini sono delle creature meravigliose, trasformano il proprio corpo in qualcosa di divino, di unico e intoccabile. Sono vicini a Dio”.

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