Ancora un'opera su Napoli

Emanuela Medoro (May 01, 2017)
"La Tenerezza", l’ultimo film di Gianni Amelio, liberamente tratto dal romanzo “La tentazione di essere felice” di Lorenzo Marone, ha nel titolo una parola usata anche da Papa Francesco. Mi sembra opportuno ricordare che secondo Lui la tenerezza non è debolezza, ma è fortezza, se unita a solidarietà e umiltà, perché il potere fa male a chi lo esercita e a chi lo subisce se non lo si mette insieme a umiltà e tenerezza. Concetti utilissimi per spiegare i sentimenti più o meno espressi che muovono i protagonisti di questo film.

I protagonisti e l’intreccio

Il film mette in relazione due famiglie della borghesia, vicine di casa.  Un cortile, spazio di separazione dei due appartamenti, diventa luogo di incontro, di dialogo, di conoscenza, di ricordi, esplorazione e rielaborazione del passato e del presente.  Un ingegnere del nord capita a Napoli per motivi di lavoro, sua moglie è una donna sorridente, spontanea, aperta e comunicativa, hanno due bambini.  Ambedue si incontrano con un vecchio avvocato napoletano che vive solo, “la mia famiglia sono io”. I figli ed il nipote, poco presenti nel suo quotidiano. Ormai in pensione, è ancora ben noto in città. Per lui le parole avvocato e onestà non vanno insieme, ha esercitato il suo potere per far arricchire tanta gente con dichiarazioni false di invalidità e malattie inesistenti.  “A Napoli ci può vivere solo chi ci è nato”, dice l’ingegnere del nord, “Ed io modestamente ci nacqui”, risponde l’avvocato.  Il momento clou della trama è la tragedia del tutto inattesa, che improvvisamente distrugge la famiglia dell’ingegnere, apparentemente normalissima. La trama si svolge intorno ai sentimenti dei protagonisti, soprattutto quelli dell’avvocato solitario e di poche parole, poche ma efficacissime, figlie di una cultura praticata a lungo e di una saggezza antica. Attraverso un’esperienza per lui nuova, quella della dolorosa solidarietà con la sventurata famiglia dei vicini, ritrova l’affetto e il rapporto con la figlia. “La felicità, una casa a cui tornare.”    

L’ambiente

Sebbene questo film rappresenti la Napoli borghese dei professionisti, che vivono in appartamenti spaziosi e assai ben arredati, le immagini esterne della città fanno venire in mente il rione popolare della quadrilogia di Elena Ferrante evidenziando così che ci sono delle caratteristiche della città ovunque presenti. Le strade, un multicolore miscuglio di gente, macchine e motorini, una piazza con un monumento, una porta di pietra grigia, un vicolo dalle mura scrostate, sporche di umido e di polvere antica, ma anche ornate da disegni figurativi o scarabocchi astratti, dai colori vivaci. Nel finale compaiono edifici nuovissimi, il palazzo di giustizia su un vasto piazzale, intorno svettano grattacieli dalle luminose mura esterne rivestite di cristalli grigi. Sembrerebbe New York, se non fossero anche qui segni e disegni multicolori sulle mura e ragazzini urlanti dietro un pallone. Collegano la Napoli vecchia e cadente ma sempre viva del passato con quella del presente e del futuro.  Un film bellissimo, da vedere e rivedere, per commuoversi e meditare.

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