Articles by: Gina Di meo

  • Intervista. Il direttore dell'IIC di NY. Renato Miracco. Riscoprire Morandi al Met


    I quadri di Morandi sono isole quiete che poggiano su se stesse... (G. Boehm)
     
    La stagione delle grandi mostre a New York si apre quest'anno con una retrospettiva dedicata ad uno dei massimi protagonisti della pittura italiana del novecento. Giorgio Morandi sarà al Metropolitan Museum of Art a partire dal 16 settembre fino al 14 dicembre con la mostra più completa e mai realizzata in assoluto a livello mondiale a lui dedicata. Giorgio Morandi, 1890 - 1964, è curata da Renato Miracco, storico d'arte e attuale direttore dell`Istituto Italiano di Cultura di New York, e Maria Cristina Bandera, direttrice della Fondazione Roberto Longhi di Firenze.
    Si tratta di un'occasione unica per il pubblico americano e per i visitatori provenienti da ogni parte del mondo, di avere una visione completa di tutta l'opera morandiana.
    Ci siamo rivolti direttamente ad una delle mani che è dietro la retrospettiva per avere tutti i particolari, Renato Miracco, che ci parla di Morandi con lo stesso amore che ha un padre per un figlio e con lo stesso entusiasmo che ha un ragazzino di fronte ad una cosa nuova. Con le sue parole è in grado di trasmetterci tutto l'entusiasmo e l'impegno che ha messo in questo mastodontico (è il caso di dirlo) progetto. Prima di iniziare la nostra intervista, va sicuramente riconosciuto un grande merito a tutti gli organizzatori, e cioè quello di aver messo su una retrospettiva di questa portata in tempi rapidissimi. Nell'arco di tempo di un paio d'anni, è stato concentrato un lavoro che di solito ne richiede almeno cinque.
     
     
    Direttore, com'è nata l'idea di una mostra del genere su Morandi?
     
    «Era un periodo che mi trovavo qui a New York per lavoro e già avevo curato, nel 2003, una grande mostra su Morandi a Bruges in Belgio, quando l'Italia era di turno alla presidenza dell'Unione Europea. Decisi di andare al Metropolitan Museum per offrire il mio aiuto nella ricerca dei prestiti per realizzare una retrospettiva su Morandi. Ma non pensavo assolutamente a me come il curatore».
     
     
    E che cosa ha contribuito ad essere lei il prescelto?
     
    «Ho esposto al Met la mia idea di Morandi, quella di un'artista che va contestualizzato, storicizzato e modernizzato. Finora Morandi è stato visto come uno dei grandi della pittura che detestava parlare della sua arte, che non faceva promozione. Basti pensare che non ha quasi mai rilasciato un'intervista. Lui giocava a togliere, ad andare sulla finzione del naturale, aveva una quindicina di oggetti, ad esempio la scatola di Ovomaltina, delle bottiglie di vino, scatole di cartone, e con questi pochi elementi che lui disponeva su diversi ripiani combinava nature morte. Nature morte che però erano naturalissime. Il senso della mostra è proprio questo, vuole dimostrare che Morandi non dipingeva solo bottigle in sé, bensì stati d'animo. Lui ci dice: La mia opera ti raggiungerà dovunque tu sia. Ciò che conta è il mondo che si cela dietro ciò che è rappresentato».
     
     
    Quante e quali opere sono state utilizzate per la mostra?
     
    «La mostra ospita circa 110 opere fra le più significative dell'intero percorso artistico di Morandi, dalle celebri nature morte, anche metafisiche, ai rarissimi autoritratti e paesaggi, molti dei quali per la prima volta in mostra, provenienti sia dalle collezioni create dagli amici di Morandi, come Longhi, Ragghianti e Magnani Rocca che ebbero il privilegio di acquistare direttamente o di avere in dono dall`artista il meglio della sua produzione creativa, sia dalle collezioni museali americane. È infatti la prima volta che si potrà godere ed integrare la visione morandiana con le opere americane dando così vita, alcune volte, ad una serialità che resta uno degli aspetti meno conosciuti della produzione dell'artista. Abbiamo la serie del panno giallo, delle nature morte in viola, dei paesaggi che affiancati trovano una loro intensa quanto inedita giustificazione».
     
     
    C'è un criterio particolare nella disposizione delle opere?
     
    «La retrospettiva sarà all'interno della Robert Lehman Wing. Abbiamo progettato un percorso circolare su tre ingressi. Le opere sono disposte sia in ordine cronologico che tematico. Spetta al visitatore decidere qualche percorso scegliere».
     
     
    Mi faccia fare una domanda fatidica... Ma perché una mostra del genere non è stata fatta prima in Italia? E da dove nasce tanta attenzione proprio ora intorno a Morandi?
     
    «Riguardo alla prima domanda, la risposta è che noi soffriamo di una sorta di timore reverenziale verso alcuni artisti. Da molte parti la critica contemporanea pur paragonando Morandi ad un grande lo vede ancora una volta ancorato alla lettura di un passato storico italiano a cavallo del Trecento e del Quattrocento. Ci si blocca nella lettura e rilettura delle sue opere, lo si lega ad un passato troppo lontano e lo si rinchiude in schemi, senza analizzarlo per quello che è. E riguardo all'attenzione intorno a Morandi, nel mio saggio su di lui, Nulla è più astratto della realtà, spiego che a sua pittura ha in sé un potere evocativo intenso, un dolore solitario, un anelito che ritroviamo proprio. La modernità di Morandi è per me nel passaggio all'Astrazione e nella ricerca metodica di una realtà che apparentemente e superficialmente fosse definita dalla forma reiterata, ma che conteneva nel suo essere pittura la chiave per una astrazione altrettanto metodica quanto ossessiva. Se così non fosse questa mostra avrebbe solo il sapore di una bellissima retrospettiva e non di una lettura diversa del pittore laddove la critica ufficiale è quasi blindata su Morandi».
     
     
    Quale atteggiamento deve avere un neofita che si avvicina a Morandi?
     
    «La prima domanda che ci poniamo di fronte ad un quadro di Morandi è "Cosa sto guardando?" o "Cosa dovrei guardare? Possiamo rispondere con ...I quadri di Morandi sono isole di quiete che poggiano su se stesse ma dobbiamo sapere che questa quiete, questo sguardo, è presagio di una profonda sofferenza e dissidio. Morandi, proprio come gli astrattisti, ribalta l'immagine costruendo un sistema di transazione tra due o tre sagome o ombre come facce capovolte della stessa forma e mettendo in evidenza che quello che resta è solo il varco dell'Essenza o la rappresentazione dell'Assenza, cioè la visualizzazione dello Spirito».
     
     
    New York è l'unica tappa della mostra?
     
    «Giorgio Morandi, 1890- 1964 è stata organizzata dal Metropolitan Museum of Art in collaborazione con il MAMbo-Museo d'Arte Moderna di Bologna, diretto da Gianfranco Maraniello, e Bologna sarà la seconda tappa dopo New York a partire dal prossimo gennaio, in coincidenza con l'apertura della Casa Morandi».
     
     
    * * *
     
    La retrospettiva su Morandi è stata decretata come la quinta mostra della stagione per importanza. È accompagnata da un catalogo pubblicato da Skira e curato da Renato Miracco e Maria Cristina Bandera. Una serie di eventi collaterali nell'ambito degli educational programs, sono stati programmatic dal Metropolitan per tutta la durata della mostra. Fra questi una conferenza di Miracco dal titolo Morandi and Abstraction,
    insieme con la curatrice Karin Wilkin, che si terrà il 21 a partire dalle 2pm nell'ambito delle manifestazioni Sunday at the Met.
    Parallellamente, l'Istituto Italiano di Cultura inaugura il 23 settembre la mostra:
    Giorgio Morandi: Watercolors and Drawings 1920 -1963, mentre il 30 settembre, alla Casa Italiana Zerilli Marimò della NYU apre Giorgio Morandi: Etchings. Entrambe le mostre sono accompagnate da un catalogo, che fa parte della serie "I Quaderni dell'Istituto Italiano di Cultura di New York", edito da Charta e curato da Renato Miracco. Mentre la mostra all'Istituto espone un gruppo di acquarelli e rari disegni dagli anni venti agli anni sessanta, provenienti in gran parte da collezionisti europei ed americani, la Zerilli Marimò dedica interamente la rassegna alla grafica con opere provenienti, in gran parte, dalla Estorick Collection of Modern Italian Art di Londra.
    La mostra su Morandi si avvale della supervisione di Laurence Kanter direttore della Robert Lehman Collection presso il Metropolitan Museum. Jane e Robert Carroll, Isabella Del Frate Rayburn e Maurice Kanbar ne hanno, inoltre, reso possibile col loro supporto, la realizzazione. Un ringraziamento speciale va a Laurence Kanter, ad Angelo Guglielmi, Assessore alla Cultura del Comune di Bologna e a Lorenzo Sassoli de Bianchi, Presidente del MAMbo, che con entusiasmo hanno fatto proprio questo progetto fin dal suo nascere.

    (Pubblicato su Oggi7 del 14 settembre 2008)

  • New York. Appuntamento con Primo Levi


    Ad un anno dal ventesimo anniversario della morte di Primo Levi, il Centro Primo Levi e la Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University, in collaborazione con l'Istituto Italiano di Cultura, inaugurano il primo simposio annuale dedicato allo scrittore italiano. Esperti di fama mondiale e accademici emergenti nel campo degli studi su Primo Levi, terranno una serie di dibattiti e presentazioni che nell'arco di tre giorni cercheranno di affrontare Levi a tutto tondo, non solo da un punto di vista letterario.

     

    L'idea del simposio è nata da una raccolta di saggi, Voci dal mondo per Primo Levi, In memoria per la memoria,  dedicata allo scrittore, edita da Firenze University Press e curata da Luigi Dei, docente di chimica e fisica presso l'Università di Firenze e che sarà tra gli speaker della serata di apertura. La pubblicazione - si legge sulla copertina - , che si apre con una lettera inedita del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, "si compone di quindici saggi realizzati da autori molto eterogenei per profilo formativo e professionale, studiosi di letteratura italiana, pedagogisti, scienziati, chimici, giornalisti e scrittori, oltre che per provenienza geografica". Dei parlerà del Primo Levi chimico, di come la chimica per lui, ad Auschwitz, sia diventata fonte di sopravvivenza: "Mi ha dato il pane che ha consentito a me e ad Alberto di sopravvive quegli infernali due mesi".

     

    Dall'idea del Levi chimico si è pensato di allargare lo spettro di analisi e di creare un programma che faccia una sorta di punto della situazione che vada oltre l'analisi delle sue opere limitata ad un contesto di commemorazione, quale può essere la giornata della memoria. L'analisi all'interno del simposio sarà, quindi, su Levi scienziato, politico, storico, personaggio pubblico e sarà anche un'occasione per una verifica dello stato degli studi sullo scrittore negli Stati Uniti, tra l'altro in virtù del fatto che il prossimo anno la Norton pubblicherà la sua opera omnia curata da Robert Weil.

     

    Se è vero che Levi è un successo negli Stati Uniti, è anche vero che è stato un successo tardivo. Sul perché i motivi possono essere diversi. Andrea Fiano, giornalista che interverrà ai lavori della conferenza, nel suo saggio I motivi del tardivo successo di Primo Levi negli Usa pubblicato nel 2007 in "Voci dal mondo per Primo Levi" da Firenze University Press, inizialmente parte da una tesi che attribuisce alle traduzioni in circolazione la colpa di questo ritardo, poi le sue conclusioni sono diverse.

     

    Fiano scrive:

    Arthur Samuelson ricorda che negli Usa tradurre un libro significa andare controcorrente, mentre in Italia è l'opposto e spesso i libri tradotti hanno un vantaggio sul piano delle vendite e della diffusione rispetto a quelli scritti direttamente in italiano. Oggi, invece, è lo stesso Stille a lamentare che negli Usa si sia fatto di Primo Levi una sorta di santo laico, grazie a una lettura limitata e ottimistica dei suoi scritti... Gli estimatori eccellenti di Levi sono a detta di tutti uno dei motivi del suo successivo straordinario successo negli Usa, perché rappresentano una garanzia per molti lettori e perché offrono la loro reputazione a sostegno dello scrittore torinese. Per Robert Weil, Primo Levi è stato aiutato da grandi scrittori americani come Roth e Saul Bellow, ma loro stessi erano ansiosi di farlo perché riconoscevano la capacità del suo lingu aggio e la trascendenza dei suoi lavori. Tutto questo riveste un'importanza particolare se si pensa, come rivela JoAnn Cannon , che negli Usa Se questo è un uomo non venne recensito alla sua prima pubblicazione né dal supplemento letterario del New York Times, né dal New Yorker e nemmeno dalla New York Review of Books ovvero da tre pilastri della critica... Simon Levis Sullam  conferma "anche in Italia il decollo è avvenuto nel decennale della morte" di Levi. In questo senso il successo del Sistema Periodico, ovvero di un libro che non è incentrato sulla Shoà, fa da apripista anche per una rilettura o un rilancio di Se questo è un uomo e della Tregua. Risa Sodi, autrice nel '90 della prima monografia su Levi   afferma che si può sostenere che per molti versi il successo di critica di Levi in Italia venne solo dopo il suo grande successo negli Usa a metà degli anni '80... Peter Novick, nel suo controverso ma fondamentale The Holocaust in American Life si pone il quesito generale sulla memoria dell'Olocausto negli Usa: Perché ora? Con tanto ritardo rispetto ai tempi in cui è avvenuto e perché dopo 20 anno di quasi silenzio sull'argomento. La sua è una risposta storica, legata al ruolo della leadership della comunità ebraica america, la lo stesso Novick si chiede anche un'altra domanda senza risposta: quale sarebbe la discussione sull'Olocausto in America se il suo principale interprete fosse stato un razionalista scettico come Primo Levi e non un mistico religioso come Elie Wiesel?

     

     

    New Voices on Primo Levi, An Annual Symposium si svolgerà secondo il seguente calendario: Lunedì 8 settembre a partire dalle 7pm, Casa Italiana Zerilli-Marimò (24 West 12 Street), Il tema, Primo Levi: Writer and Scientist. Elements of Writing Primo Levi Today, con Franco Baldasso, New York University e Uri Cohen, Columbia University. A bridge between science and literature, con Luigi Dei, dipartimento di chimica Università di Firenze con introduzione del giornalista Andrea Fiano.

    Martedì 9 settembre, 7pm, Istituto Italiano di Cultura (686 Park Avenue), Reading Primo Levi, con l'attore  drammaturgo Moni Ovadia che leggerà estratti degli scritti di Primo Levi.

    Mercoledì 15 settembre, dalle 7pm, Center for Jewish History (15 West 16 Street), Primo Levi, historian and public figure con un'anteprima del film Primo Levi's on Television, di Roberto Olla, giornalista e scrittore. Di seguito The politics of memory - Conversazione con Marc Greif, American Prospect, London Review of Books, Robert Weil, W.W.Norton e co curatore della prossima uscita dell'opera omnia di Primo Levi, Andrea Fiano, giornalista e board member del Centro Primo Levi, Sergio Parussa, Wesley College.

    Una menzione speciale va al Centro Studi Internazione dedicato a Primo Levi di Torino che con la sua creazione lo scorso anno ha dato il via ad una serie di scambi internazionali.

    Per informazioni www.primolevicenter.org.

    Dopo un'anteprima a New York lo scorso giugno, The Tree of Life, il documentario di Hava Volterra sulla storia degli ebrei d'Italia attraverso la ricostruzione del suo albero genealogico, torna sugli schermi. Questa volta sarà al Two Boots Pioneer Theater (155 West 3rd street - corner of Av A) dal 12 al 19 settembre, 7pm. Per informazioni http://www.twoboots.com/pioneer/

    (Pubblicato su Oggi7 del 7 settembre 2008)

  • Life & People

    My Duck Route: As If I Were Caught In A Storm


    For several minutes, I felt as if I were in the middle of the Atlantic Ocean during a storm without a life jacket, without a lifeboat, and convinced that no one on earth could rescue me. How could this even be possible in the 21st century?

    Apparently, it is impossible. But, if you come to New York and see a strange bus in the middle of the street do not miss the opportunity to jump on board. With NYC Ducks, you will be able to experience what it was like during the times of Captain Henry Hudson.

    NYC Ducks is New York's first-ever land and sea tourist attraction; the only half-boat, half-bus amphibious vehicle in the United States that also has an exciting multimedia theater. It is a must-see for every visitor to the city. While I was on board, I was rocked and splashed through a "duckumentary" that replicated Henry Hudson's stormy voyage across the Atlantic to the New World. I was also given free Duck Quackers in the form of a duck beak; once on ship we could use this to "quack" about the good time we were having.

    My Duck route, complete with a Henry Hudson impersonator, started in Times Square between 47th and 48th streets and navigated the streets of Manhattan to the Hudson River. Along the way, entertaining and informative tour guides pointed out some of New York City's famous sites. Along the banks of the Hudson, the Ducks entered the NYC Ducks Theater for an exhilarating multimedia experience that simulated Hudson's journey, including sights and sounds (the rushing wind and other surprises) of a real Atlantic sea voyage. The Ducks then splashed into the Hudson River for an explorer's-eye view of the New York City skyline. After returning to dry land, the Ducks traveled back to Times Square. The total trip time was 75 minutes.


    Info at www.NYCDucks.com

     

    http://www.un.org/events/index.html.  Additional information about upcoming UN events and conferences

    http://www.nyc.gov/calendar. Office of the Mayor of New York city-wide events calendar

    http://www.nyc.gov/html/unccp/html/international_biz/calendar.shtml. Office of the Mayor of New York International business calendar

    http://www.nyc-arts.org. Alliance for the Arts calendar of cultural events in New York City

    http://iec.state.gov. US State Department International events calendar

    http://www.state.gov/r/pa/prs/appt. US State Department daily appointments schedule






    (Edited by Stephanie Longo)

  • Diario di una giornalista in Sardegna


     Il signor Luigi Lai suona un strumento le cui origini risalgono alla preistoria, le launeddas, al plurale perché è formato da tre canne. Luigi è originario della provincia di Cagliari, San Vito, è nato nel 1932 ed è considerato il miglior esecutore di launeddas attualmente in attività. Lui e le le launeddas sono l’esempio vivente di come tante tradizioni sono rimaste intatte nel tempo in Sardegna, un’isola, che viste le sue caratteristiche geografiche sembra destinata a “preservare”.

    Abbiamo avuto la fortuna di conoscere Luigi durante un viaggio stampa in Sardegna e siamo rimasti colpiti dal ritmo straordinario delle note prodotte da uno strumento che potrebbe somigliare ad una cornamusa ma che tale non è perché non ha una sacca d’aria e al contrario funziona utilizzando la tecnica della respirazione circolare. In pratica sono gli stessi muscoli facciali che formano la sacca d’aria. Luigi ci confessa che suona questo strumento da una vita ma ancora non l’ha imparato del tutto. «Ci vuole tanto amore – dice – e dedizione». Il signor Lai parla in modo modesto, ma lui ha sulle spalle una pesante eredità: è il più importante depositario dell’arte di suonare questo strumento. È suo il compito di istruire le nuove generazioni per mantenere in vita questa tradizione millenaria.
    Il nostro familiarity trip in Sardegna, insieme ad una trentina di altre persone tra giornalisti e operatori americani, è stato intervallato da momenti di antichità e di modernità assoluta. Siamo passati dal lusso dei grandi alberghi, soprattutto in Costa Smeralda, luogo cult per i vip italiani ed anche internazionali, al minimalismo delle aree interne dove il tempo sembra essersi fermato alle antiche civiltà contadine. Per dare un’idea della dimensione del tempo in questi luoghi, ad esempio nelle aree dove si trovano rovine di nuraghes (nuraghi con plurale italianizzato, ndr), basta pensare alla reazione avuta da Roberto Benigni e Massimo Troisi nel film Non ci resta che piangere. Pensate ad una pianura sconfinata dove sorgono torri in pietra di forma tronco conica risalenti al II millennio A.C. Queste torri furono il centro della vita sociale degli antichi sardi e diedero il nome alla loro civiltà, la civiltà nuragica, una delle più misteriose e meno conosciute del Mediterraneo. I nuraghi sono i monumenti megalitici più grandi e meglio conservati che si possano trovare oggi in Europa e sono unanimemente considerati come il simbolo più noto della Sardegna. Circa la loro funzione archeologi e storici sono più o meno concordi nel ritenere che essi fossero degli edifici a carattere civile-militare, destinati in particolare al controllo e alla difesa del territorio.
    Per raccontare il mio viaggio in Sardegna occorrerebbe più di un articolo, e così senza nulla togliere a luoghi come Cagliari, dove bisogna assolutamente visitare la Cattedrale di Santa Maria Assunta, ed particolare la cripta che ha un soffitto mozzafiato, o anche la festa di Sant’Efisio, che viene celebrato ogni 1 maggio del 1656 con una processione spettacolare, ho scelto di soffermarmi sulla parte più selvaggia e tradizionale dell’isola. Nelle zone più intere, dove la parola globalizzazione ancora non è arrivata, si trovano a mio avviso, i paesini più interessanti, come Orroli, che ospita uno tra i più importanti nuraghi della Sardegna (nuraghe Arrabiu, ndr) e una delle due dighe del fiume Flumendosa. Oltre alla bellezza del paesaggio, troverete anche antiche case padronali convertire in musei e ristoranti, come Omuaxiu, che vi incolleranno alla tavola con prelibatezze tipiche della cucina sarda. Qui ho provato per la prima volta la fregola, una sorta di couscous sardo, ma di dimensioni più grandi.
    Se il glamour della Costa Smeralda poco si addice alla vostra personalità, visitate San Pantaleo, frazione del Comune di Olbia, e anche lì troverete posti dove familiarizzarete con Bacco e, se esiste, anche con un Dio del cibo. Alla Trattoria Balbacana, tra le altre cose, si mangiano Chjusoni e Polcavru (gnocchi galluresi con ragù di cinghiale), Risottu di Polciu Casgiu e Limoni (risotto con ragù di maiale, formaggio e limone), Casgiu (formaggio), suppa gadduresa (zuppa gallurese).
    La Sardegna non è il posto per mettersi a dieta, mangerete fino a stare male e paradossalmente non starete affatto male perché il cibo è ancora integro.
    Il nostro tuffo nella natura prosegue in Barbagia, regione montuosa della Sardegna centrale che si estende sui fianchi del Massiccio del Gennargentu, tra la provincia di Nuoro e la provincia dell’Ogliastra. Qui i paesaggi sono fantastici, quasi irreali, con fiumi sotterranei, gole e grand canyon e “disposti” in modo così perfetto da sembrare perennemente immortalati in una cartolina. In questa zona si possono fare molteplici attività, come trekking, tour in fuoristrada, canoa e moto quad. L’itinerario può compredere anche una tappa gastronomica (non rinunciateci!), con salumi, arrosti e formaggi preparati con maestria dalle mani esperte dei pastori, sapientemente accompagnati dai vini locali. Tutto questo lo potrete gustare nei pinnettos, le antiche capanne dei pastori, o negli stazzi galluresi, tipiche abitazioni della zona.
    Chiudiamo parlandovi ancora di passato, di rovine che si affacciano sul mare. Siamo a Nora, un'antica città di fondazione punica, capitale del popolo dei Noritani. È situata sul promontorio di Capo Pula, sulla costa meridionale della Sardegna ad ovest di Cagliari, attualmente nel comune di Pula. All'epoca della conquista romana della Sardegna (238 a.C.) si trattava probabilmente della più importante città dell'isola, scelta inizialmente come capitale della provincia romana di Sardegna e Corsica. Anche qui il confronto con un’epoca remota è estremamente tangibile, mentre uno splendido mare, oltre ad arricchire la bellezza del paesaggio, è anche una perfetta musica di sottofondo.
    La nostra settimana in Sardegna è purtroppo finita, e se qualcuno dovesse ancora dubitare di questo posto, vale la pena dire che i sardi sono un popolo di ultracentenari. Ma vista la qualità del cibo e della vita, non sorprende affatto e chissà che i turisti non possano ripartire portandosi a casa un po’ di élisir di lunga vita!

     

     

    (Pubblicato su Oggi7 del 25/05/2008)

     

     

  • Art & Culture

    Raw Material to Reconstruct Identity


    There are questions of identity and questions on how identity can be built and strengthened. In the case of Italian/American identity, its construction passes through another phase. With stories handed down orally, as with word-games, part of original, essential meaning inevitably gets lost.

    We mention this to introduce someone who might stimulate debate, as his arguments are more the exception than the rule. He is Peter Carravetta who, beginning last semester, holds the Alfonse M. D’Amato Chair at Stony Brook University. He was officially nominated a week ago at a ceremony held on Long Island at the university’s campus. Before going into detail, we feel it is necessary to give the reader a sense of his point of view; for Carravetta, an identity is built through primary sources and not through someone else’s interpretations.



    This is the reason why his ambitious project aims to offer coming generations what he refers to as raw material. Professor Carravetta’s path is exactly consistent with that of many of his colleagues who work in the same field of studies. However, unlike them, Carravetta was born in Italy in 1951 in a village in the province of Cosenza. He came to the United States as a twelve-year-old with the awareness, conscious or unconscious as it might have been, of being Italian.



    Even his family’s immigration differs from many others since his parents arrived in the United States already at the age of retirement. “I was the last of six children,” Carravetta tells us, “and my father in turn had ten brothers, six of whom had immigrated to the United States before the First World War. When I arrived in New York, in particular in the Bronx, I Americanized myself immediately. Let’s say I didn’t live in Little Italy and in a year’s time I spoke perfect English and achieved great results in school. In this, my initial Italian education helped me.” As it often happens, adolescent aspirations totally change in adulthood and Professor Carravetta, who once had a passion for science and aeronautics, started studying literary disciplines and graduated with a degree in the History of American Literature.



    “Sciences deluded me,” Carravetta explains, “because they only offered the chance to work for a corporation or for the army and I felt as if my inner self would have been nullified. Literary disciplines, instead, let me discover a creative vein and so I started writing both in Italian and in English. Then at a certain point I discovered Dante and I started attending a course on the Divine Comedy.” Then, as for many Italian/Americans, a trip to Italy became an opportunity to have many new experiences, all the more for Carravetta who had never been to any other Italian city, except for Bologna.



    “In Bologna I discovered a new world,” he comments. “I found myself in front of an ancient and, at the same time, really modern Italy. Then, after a year’s time, I came back to the United States, I applied to New York University and started a PhD in French and Italian and, thanks to another scholarship, I went to live and study in Milan.” In 1983 Carravetta was appointed Assistant Professor of Italian at Queens College CUNY and in 1991 he was appointed Chair. He has remained there until the beginning of this year, when he became the first Alfonse M. D’Amato Professor in Italian and Italian American Studies at Stony Brook University.



    What is it that inspires Professor Carravetta’s thoughts? His approach is first of all a philosophical one as he himself explains: “At a certain point I noticed that nobody knew Italian contemporary thought, while Italian/Americans should know their own history, especially the post-unification period. Moreover, the question of recuperating Italian identity requires deeper study together with historical research and the use of more appropriate critical elements. As an example, instead of continuing to insist on a double identity, why not accept the fact that the real problem is the existing gap between Italians and Italian/Americans?”

    At this point Carravetta might also appear to be a destructuralist since he even says: “Nowadays there is a lack of a hermeneutic model able to make people aware of the non-existence of an identity. It is more a political than an identity question when it comes to Italian/Americans. In fact we are several persons at the same time, we are multi-perspective, we are Italians, Americans, both, or something else. Once and for all we must get over the question of identity and start talking about international community.”

     

    The Alfonse M. D’Amato Chair, as he himself confessed to us, is a prestigious recognition for Carravetta. “I am very proud of it,” he says, “and I am out to radically re-launch studies in the Italian/American sector and also to ask uncomfortable questions.



    This Chair also gives me the chance to start working on a project I have been thinking about for many years, that is The Italian American Archive, with the intent to relate, in several volumes, the social and cultural history of the Italian/Americans since 1870 until today, with a particular emphasis on the first decades considering that the greatest part of that material has been forgotten. All this documentation must be put at the students’ disposal to make them aware of the complexity of their past.” Besides this ambitious project, Carravetta is preparing a symposium on Italian/American criticism which will take place on October 3-4, 2008.

     

    (Translated by Marina Melchionda. Edited by Giulia Prestia)

    Italian version published in "Oggi 7" (05/18/2008)

     

  • TriBeCa. Botta e risposta. Grimaldi e Procacci. A proposito del "chi se ne frega del cinema italiano"


    Caos Calmo, di cui stranamente c'è stata una proiezione per la stampa il giorno dopo la prima del film, è piaciuto sia al pubblico che alla stampa. Forse appariremo ripetitivi se diciamo che si tratta dell'ennessima pellicola italiana che riscuote successo ai festival e poi au revoir, diventa un vago ricordo. Ci siamo chiesti e abbiamo chiesto allo stesso regista Antonello Grimaldi se il suo film sarà distribuito negli Stati Uniti "perché di solito - abbiamo aggiunto - i film italiani muoiono con i festival".

    Lui ha ritenuto opportuno girare la domanda al produttore Domenico Procacci che, secondo quanto ci è apparso, non ha colto la gravità dell'affermazione. Tirandosi un po' la zappa sui piedi ci ha risposto: «Se un film non viene distribuito è perché non piace o perché non c'è interesse a farlo circolare. Noi stiamo discutendo, stiamo cercando di prendere contatti per far uscire il film anche qui e speriamo che Tribeca ci dia una mano. Ma comunque è difficile per le pellicole straniere conquistare il mercato americano».

     

    I francesi però ci riescono...
    «Loro sono sul mercato da oltre vent'anni, eventualmente lavorano in modo diverso».

    Abbiamo chiesto invece a Grimaldi perché Nanni Moretti non è venuto anche se l'organizzazione del Festival lo ha sempre dato come presente agli eventi.

    «Lui è uno che non ama molto questi eventi».
     

    Ma festival del genere vengono programmati mesi prima e lo stesso vale per le presenze, come mai alla stampa non è stato detto niente?

    «Perché alla fine aveva deciso di accettare e poi ha cambiato di nuovo idea».
     

    Non è un comportamento molto serio, comunque cambiamo argomento. Lei durante la tavola rotonda che ha fatto seguito la prima del film per la stampa (venerdì 25 aprile per chi legge), alla domanda se il cinema italiano racconterà ancora delle storie, si è in un certo senso lasciato andare ad uno sfogo. Ha detto che "una certa classe politica se ne frega del cinema italiano". Ci spiega meglio?

    «Non è una cosa nuova. È un concetto che risale agli anni cinquanta, quando Andreotti disse: "Il cinema lasciamolo a loro, la televisione ce la teniamo noi". Fin dalla sua nascita la televisione è apparsa subito come un mezzo per controllare il popolo, imporre modelli, non a caso la maggior parte dei cineasti sono di sinistra. Il disinteresse per il cinema si manifesta in due modi, uno tagliando i fondi, due non considerandolo perché sanno che certi messaggi arriveranno solo a pochi, a differenza della televisione che arriva a tutti».

     

    Parteciperete a Open Roads, la rassegna del cinema italiano a New York?
     «No, ci hanno detto che non è compatibile con il Tribeca Film Festival».
     

    (Pubblicato su Oggi7 del 27 aprile 2008)

  • Bernini on the road verso LA


    Il più grande scultore dell'epoca barocca "ambasciatore di pace" tra l'Italia ed il Getty Museum di Los Angeles. Dopo la querelle durata mesi sulla restituzione da parte del museo californiano dei capolavori italiani trafugati, una mostra su Gian Lorenzo Bernini sculture e ritrattista mette definitivamente punto a qualsiasi controversia. Bernini and the Birth of Baroque Portrait Sculpture, è sia la prima esposizione dello scultore italiano del diciassettesimo secolo in nord-America, sia la prima che comprende i suoi busti e sarà inaugurata il prossimo 5 agosto al Getty Museum, dove resterà fino al 26 ottobre e poi farà tappa alla National Gallery del Canada a Ottawa il 25 novembre e fino all'otto marzo 2009. Le sculture provengono dal Museo Nazionale del Bargello di Firenze, da Palazzo Barberini, Galleria Borghese a Roma, Museo di Roma, il Vaticano, da diversi altri musei in tutto il mondo e da numerose collezioni private.

     

    Bernini and the Birth of Baroque Portrait Sculpture è stata presentata anche a New York, all'Istituto Italiano di Cultura diretto da Renato Miracco e con la partecipazione del Console d'Italia Francesco Maria Talò, Michael Brand, direttore del Getty Museum, Pierre Théberge, direttore della National Gallery del Canada a Ottawa, Joanne Charette, direttore degli Affari Pubblici National Gallery del Canada, Catherine Hess, curatrice della mostra, David Franklyn, vice direttore della National Gallery del Canada, John Giurini, vice direttore Affari Pubblici del Getty Museum.

     

    La mostra, organizzata in ordine cronologico, mette insieme circa trenta sculture create in marmo, bronzo e porfido, nonché quadri e disegni provenienti da tutto il mondo, comprese alcune sculture mai viste al di fuori dell'Italia. Tra i capolavori del Bernini, i busti di Francesco di Carlo Barberini, papa Urbano VIII Barberini, papa Clemente X Altieri, papa Alessandro VII Chigi, cardinale Scipione Borghese, monsignor Clemente Merlini, Luigi XIV, cardinale Richelieu ed alcuni autoritratti.

     

    «Siamo fieri di questa mostra - ha commentato Michael Brand - anche se è stata difficile da organizzare. Il 30% delle opere in esposizione proviene dall'Italia e questo segna l'inizio di una nuova relazione tra i due paesi e anche come una proficua collaborazione porti ad ottenere i risultati che sono sotto i nostri occhi».

     

    A Brand abbiamo posto altre domande al termine della presentazione a New York.

     

    Direttore, non molto tempo fa, l'ex ministro per i Beni Culturali Francesco Rutelli era ospite di questo stesso istituto ed aveva intenzioni bellicose nei suoi confronti, ora è pace fatta e l'ascia di guerra è stata sepolta in nome dell'arte, che cosa significa per lei tutto questo?

    «Parlando del Getty e dell'Italia, la pace significa l'inizio di una nuova relazione tra di noi, ma è anche un esempio concreto di come la collaborazione tra gli studiosi dei nostri due paesi porti ad una mostra di un livello qualitativo eccezionale».

    Cosa pensa del nuovo governo italiano? Pensa che si riuscirà a mantenere i buoni propositi iniziati sotto quello precedente?

    «Non sappiamo ancora chi sarà il prossimo ministro per i Beni Culturali, ma sono sicuro che instaureremo un ottimo rapporto. Devo dire che abbiamo iniziato a lavorare anni fa con il governo Berlusconi e poi abbiamo continuato con Prodi, per noi non ha importanza la destra o la sinistra».

    Lei conosce la realtà italiana, sa che lo stato dell'arte non è tra i migliori, qual è secondo lei la ricetta per far funzionare bene i musei ed in generale il settore artistico?

    «Il vostro paese è benedetto dal punto di vista artistico, ma questo implica anche delle enormi responsabilità e non sempre si è in grado di riuscire a preservare questo patrimonio da soli senza l'aiuto di qualcuno. Penso che ci vogliano dei partner e anche di altri paesi, partner che possano sostenere l'arte economicamente. Voi avete un numero straordinario di musei ma è impensabile farli funzionare tutti alla perfezione, così come è impensabile restaurare da soli ogni singola opera. Una soluzione potrebbe venire anche dal prolungamento dei prestiti a lungo termine, attualmente il massimo è quattro anni, in questo modo gli altri paesi potrebbero prendersi cura delle vostre opere, pulirle, restaurarle».

    Quali altre ipotesi?

    «Perché non avere più di una proprietà? Penso che chiunque possieda un'opera d'arte debba condividerla con gli altri. L'eredità artistica appartiene a tutti, ad esempio è vero che Bernini è inseparabile dal contesto romano, ma non è meraviglioso che anche in nord-America si possa ammirare la sua maestria?».

    Bernini and the Birth of Baroque Portrait Sculpture è stata organizzata dal J. Paul Getty Museum e dalla National Gallery di Ottawa. La mostra è stata curata da Catherine Hess, Andrea Bacchi, docente dell'Università di Trento, Jennifer Montagu, Honorary Fellow, Warburg Institute di Londra.

    (Pubblicato su Oggi7 del 20 aprile)

  • Artigiano, stilista made in Sicily


    Eugenio Vazzano è innanzitutto siciliano e non a caso i suoi abiti e tutta la sua produzione tessile è etichettata “Made in Sicilia”, non solo perché sono la sintesi tra l’antico artigianato siciliano e l’innovazione internazionale, ma anche perché – come ci dice Eugenio – Io vivo in una parte della Sicilia che è abbandonata ed arrabbiata e questo è il mio modo per portare avanti il meglio di questa terra. «Con il marchio generico Made in Italy – continua – i prodotti non vengono identificati, indicando Made in Sicilia, invece, si cattura l’attenzione della gente ed è più facile ricordarsi del nostro prodotto». Eugenio è stato a New York per presentare la sua nuova collezione da Takashimaya sulla Fifth Avenue e per due mesi le sue “Cose” avranno una vetrina particolare all’interno del negozio.

     

    Il nostro stilista-artigiano è nato a Melilli, un paese del ragusano – “Ultimo di sette figli” – ci dice –. «Melilli è l’ultimo pezzo di vera Sicilia ancora rimasto ed è stato per me il padre da rinnegare prima di potere essere amato. Sono cresciuto curioso del tempo e dello spazio e a quattordici anni sono sbarcato nel sogno degli italiani: gli Stati Uniti. Qui ho studiato arte e per mantenermi ho fatto un po’ di tutto. Ho lavorato nelle piantagioni di tabacco, ho fatto il pescivendolo, il fruttivendolo. Poi sono andato a studiare a Firenze, all’Accademia Americana d'Arte e ho cominciato a lavorare in una boutique prestigiosa della città. Dopo poco tempo sono diventato il responsabile di un nuovo negozio. Nonostante la mia posizione, ancora non mi sento appagato e decido di viaggiare e dopo Parigi, Milano, Miami, scopro a Taormina la mia vera passione: recupero i pezzetti di tessuto di un campionario e comincio ad assemblarli seguendo le mie visioni. È una sorta di rivelazione e decido che è il momento di provare a tornare a Melilli e portare qui tutto quello che ho visto e imparato. Ora vivo e lavoro a Melilli. Ho realizzato il mio sogno. Rivendicare le mie radici, fare qualcosa per il mio paese, dare lavoro alla mia gente. Che sarà sempre più felice di contribuire a creare qualcosa di speciale e di siglarlo con un'etichetta unica: “Eugenio Vazzano. Fatto in Sicilia”».

     

    Eugenio ha fondato la sua azienda nel 1992 ed ha undici dipendenti, da tre anni è anche sul mercato newyorkese ed il suo referente principale è Takashimaya. Le collezioni di Eugenio Vazzano raccontano la Sicilia attraverso pezzi unici adatti per ogni occasione. I tessuti usati nelle creazioni sono ricercati e costruiti personalmente da lui perseguendo la filosofia del recupero “ri-creativo”, secondo cui il più piccolo ritaglio di stoffa diventa indispensabile per un nuovo mosaico. L’idea del recupero è sostanziale nella tradizione siciliana, un esempio ne sono “le frazzate ericine”, pezze di stoffe lavorate con la tecnica del patchwork che venivano date in dote alla nubende per proteggere i materassi, oggi spiritosi tappeti. «Ho sempre visto cucire mia madre – spiega - che era sarta, e cercava le pezze giuste per le toppe, le riciclava. A questo concetto sono affezionato e l’ho trasferito nelle mie collezioni». Singolari anche i colori “chiesti in prestito” alla natura e alla cultura siciliana: nero Etna, nero lutto di vedova, verde agrumi, bianco salina, beige pietra tufacea, rosso “astratto” di pomodoro, blu Megara Ibla.

     

    (Pubblicato su Oggi7, il 30 marzo 2008)

     

     

     

  • MUSICA. INTERVISTA/ Roberto Abbado al Metropolitan. Quando la musica è nel Dna


    Roberto Abbado, 54 anni, sarà impegnato al Metropolitan Opera Theater fino al 10 aprile nella direzione di Ernani di Giuseppe Verdi. Milanese di nascita, è figlio di Marcello Abbado, ex direttore del Conservatorio di Milano e nipote di uno dei più grandi direttori d'orchestra italiani, Claudio Abbado, nominato nel 1969, a soli 35 anni, direttore musicale del Teatro alla Scala di Milano. È considerato tra i primi direttori a livello internazionale sia nel repertorio sinfonico che in quello operistico. Abbiamo incontrato Abbado il week end precedente la prima di Ernani il 17 marzo.

    Maestro, con uno zio direttore d'orchestra ed un padre pianista e direttore di Conservatorio, la sua carriera sembrava quasi predestinata...

    «A dir il vero anche mio nonno era musicista e insegnava violino al Conservatorio "Giuseppe Verdi" di Milano. In realtà, nonostante la mia fosse una famiglia di musicisti, io da bambino avevo altri interessi, avevo la passione per le cose meccaniche, in particolare per gli aerei».

    E quando ha iniziato invece ad interessarsi alla musica?

    «A 15 anni c'è stata una svolta. Suonavo già abbastanza bene il pianoforte ma poi ho avuto la possibilità di dirigere un piccolo coro al Conservatorio di Milano e lì mi è venuta la passione per la direzione».

    Lei ha studiato direzione con Franco Ferrara alla Fenice di Venezia e all'Accademia di Santa Cecilia di Roma ed è stato l'unico studente nella storia dell'Accademia a dirigere l'Orchestra di Santa Cecilia.

    «Sì, avevo 23 anni e gli orchestrali chiesero alla direzione dell'Accademia di invitarmi a dirigere un concerto sinfonico a Rieti, poi da lì, sempre a 23 anni, ho diretto la mia prima opera Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi a Macerata ed è stato meraviglioso perché avevo un grande cast. C'erano tre mostri sacri come Renato Bruson, Cesare Siepi, Ilva Ligabue».

    Dopo aver diretto in diversi teatri in Europa e in Italia, tra cui Parigi, Monaco, Amsterdam, Torino, Firenze, Milano, lei ha debuttato negli Stati Uniti alla fine degli anni ottanta e ora è qui quasi stabilmente, cosa le piace di questo paese?

    «Sì gli Stati Uniti sono il paese dove lavoro principalmente. Mi piace qui perché ci sono dei musicisti magnifici, con una preparazione straordinaria. Le cose sono molto bene organizzate e anche tra i musicisti c'è un grande senso della comunità, nel senso che si è orgogliosi si appartenere ad una determinata orchestra».

    In Italia invece...

    «In ambito musicale non si possono fare paragoni. Si tratta di due società strutturate in modo diverso e la prima differenza è di tipo economico. Siamo in un periodo di crisi economica per entrambi i paesi e la musica è la prima a soffrirne perché è una forma d'arte che rende poco e ha bisogno di essere sostenuta. In Europa e in Italia il sostegno viene principalmente dallo Stato e in periodi difficili i primi tagli vengono fatti ai settori artistici. Ciò non dovrebbe avvenire a meno che non si cambi società cercando di renderla più simile al modello americano, dove ci sono i privati che investono».

    L'opera è davvero così in crisi in Italia?

    «Non è una crisi a livello di pubblico perché in Italia ci sono ancora appassionati ferventi, il problema sono i "rubinetti chiusi" e poi noi italiani, a differenza di altri popoli, abbiamo il difetto di criticare sempre noi stessi».

    Lei ha lavorato e continua a lavorare molto anche in Italia ma perché ha scelto di svolgere la sua carriera principalmente all'estero?

    «All'estero ci sono sicuramente più opportunità e non solo per la musica, in Italia si può lavorare bene ma prima bisogna fare esperienze all'estero».

    Il solito discorso, siamo il paese che non dà chance ai giovani.

    «Ammiro molto gli Stati Uniti perché premia i giovani e tutti i riconoscimenti servono a dare loro fiducia, ad andare avanti, in Italia invece i premi vengono dati quando sei già affermato».

    Perché secondo lei c'è questo percorso al contrario?

    «Perché dà prestigio al premio avere una persona affermata, ma ripeto dovrebbe essere il contrario, i premi vanno dati ai 25nni non ai 50nni».

    E c'è speranza di cambiamento con le nuove generazioni?

    «Purtroppo no ed è un discorso che faccio con amarezza. Peccato perché in Italia c'è un potenziale enorme e abbiamo quel qualcosa in più che gli americani ad esempio non hanno».

    Che tipo è Roberto Abbado uomo e non musicista?

    «Sono una persona con una doppia personalità... nel senso che sono serio e determinato in certe cose, soprattutto in campo professionale, ma anche uno che ha molta voglia di divertirsi e prendere la vita con leggerezza e ritengo che il sorriso sia necessario per affrontare la vita».

    E in ambito professionale qual è la sua caratteristica o meglio la sua dote?

    «Non sono per la rigidità e ricerco libertà nel far musica. Tuttavia anche in questa libertà c'è un rigore che viene dalla precisione e disciplina».

    Qual è il suo compositore preferito?

    «Beethoven perché unisce sentimenti profondi con la razionalità e fa sì che la sua musica sia molto logica e allo stesso tempo passionale e comunicativa e se ho anche un'altra possibilità direi Schubert perché è umano e struggente. Nel campo dell'opera, invece, Verdi perché è un po' come Beethoven».

    Che cosa pensa delle opere contemporanee?

    «Mi interessano moltissimo. Ho diretto Teneke di Fabio Vacchi in anteprima mondiale alla Scala di Milano e a giugno dirigerò Phaedra di Hans Werner Henze a Firenze. È un panorama vastissimo e per tanti gusti. Oggi i linguaggi sono tantissimi e non sempre a scapito della qualità. In fondo succedeva anche nel passato, non tutto ciò che si produceva restava e se oggi, tra tutte le produzioni contemporanee, nel giro di dieci anni rimarranno uno o due titoli direi che siamo già a una buona media».

    Pensa che avremo altri Verdi o Beethoven?

    «Chi lo sa, cerchiamo di essere possibilisti. Il tempo fa cambiare opinioni, prendiamo ad esempio il caso di Gustav Mahler, per anni è stato preso in considerazione solo come direttore d'orchestra e non come compositore. Negli ultimi quarant'anni invece è stato rivalutato ed è considerato un grande della musica».

    Torniamo alla sua carriera, ha progetti futuri con il Metropolitan?

    «Al momento no, ci tenevo a fare Ernani perché mancava da 25 anni e sono contento che lo abbiano proposto a me. È un'opera che si fa poco perché richiede quattro grandi cantanti e il Met li ha trovati con Marcello Giordani, Ferruccio Furlanetto, Thomas Hampson e Sondra Radvanosky. Dopo il 10 aprile tornerò in Italia, prima a Torino e poi a Firenze».

     

    (Pubblicato su Oggi7 del 23 marzo)

  • FMR, quando stampare è arte


    Una volta, prima della diffusione della stampa, c'era chi copiava i manoscritti per mestiere. Il lavoro degli amanuensi e dei calligrafi richiedeva tempo, pazienza ma il risultato ultimo era un'opera unica, per contenuto e forma e nonostante l'elemento di "non riproducibilità", quel lavoro ha fatto sì che il pensiero di letterati, filosofi e documenti preziosi si tramandasse per secoli. Oggi, se non in casi rari, dietro un libro non c'è più il lavoro di amanuensi o calligrafi, tutto si riproduce in serie ed in modo rapido. Se non in casi rari... ed il caso raro, nel ventunesimo secolo è rappresentato da FMR, un gruppo specializzato nell'ideazione, progettazione, realizzazione e diffusione di raffinate riviste d'arte, di prestigiosi servizi culturali e artistici e di lussuose ed esclusive opere in forma di libro.

     

    FMR ha fatto il suo reingresso trionfale negli Stati Uniti dopo 25 anni ed ha scelto il luogo che per antonomasia rappresenta la cultura e l'arte a New York, il Metropolitan Museum of Art. Dopo venticinque anni, il gruppo, che ora ha una nuova proprietà ed è quotato in borsa, è tornato portando un po' di passato e un po' di presente. La prestigiosa rivista d'arte FMR nera, indicata da Federico Fellini come "la perla nera dell'editoria mondiale" ha allargato la famiglia, ha una sorella, la rivista FMR bianca ed un fratello, il magazine web FMRonline. L'annuncio è stato dato dal presidente del Gruppo Marilena Ferrari prima nel corso di una conferenza stampa che si è svolta nel museo newyorkese e poi durante un ricevimento, sempre al Metropolitan ma nel Tempio di Dendur con uno scenario che richiamava la fastosità dei banchetti dell'antichità.

     

    La Ferrari ha presentato anche il nuovo progetto che sarà il fiore all'occhiello dell'Fmr, l'Officina dello Splendore, che punta a fare dell'arte e della bellezza il motore di un nuovo Rinascimento socio-culturale che avrà nella realizzazione dei suoi Book Wonderful il punto di massima eccellenza. «Attraverso l'Officina dello splendore - ha spiegato Marilena Ferrari - vogliamo riportare in vita ciò che avveniva durante in Rinascimento, ossia attraverso la creazione di libri che sono la sintesi di qualità intellettuale e bellezza fisica. Credo fortemente in questo nuovo progetto perché ritengo che esista una forte domanda da parte di un certo tipo di pubblico nei confronti dei prodotti artistico-culturali che uniscono grande qualità ed esclusività. Come essere umano, inoltre, ritengo che alle soglie del terzo millennio sia fondamentale riaffermare una centralità dell'arte quale espressione di valori capaci di rivitalizzare la convivenza civile e di supportare un vero progresso, nonché il primato della bellezza quale scelta etica».

     

    Marilena Ferrari, cremonese di nascita e bolognese di adozione, è una donna dal forte carisma e con una passione per l'arte che non è sbagliato definire "d'altri tempi". I book wonderful realizzati nella sua azienda sono oggetti preziosi che trasmettono a chi li sfoglia e a chi ha la fortuna di possederne uno una conoscenza poco "mordi e fuggi" come succede oggi, ma che ti tira letteralmente dentro nel passato, fino ad "assaporare" forme di sapere ormai quasi scomparse.

     

    Abbiamo chiesto a Marilena Ferrari se lei si sente di avere un compito, un destino, visto che, per la legge dei corsi e ricorsi storici, in epoche di eccessivo materialismo, oppure dominate da una tecnologia inarrestabile, arriva sempre qualcuno che ci aiuta a riscoprire i "veri valori" e ci riconnette con il passato.

     

    «Sì, io mi sento di avere un destino - ci ha detto. La mia storia è fatta di libri e ho dedicato tutta la mia vita alla preservazione del libro come opera completa. Una volta il contenitore era l'esaltazione del contenuto, è vero, oggi si può vivere senza, ma che peccato!».

    Quante persone lavorano per il suo gruppo?

    «Circa 800 tra Italia, Francia e Spagna e abbiamo aperto anche una sede a New York, a Park Avenue e saremo operativi da settembre».

    Lavorate solo per commissione?

    «A volte partiamo con un prodotto e poi lo proponiamo a qualcuno e nella maggior parte dei casi viene accettato, altre volte decidiamo noi di fare un volume».

    Quanto tempo ci vuole in media per completare un volume?

    «Circa un anno, anche se ne stiamo preparando uno su Caterina de' Medici, che porteremo a New York nel 2009, che è partito due anni fa. Si tratta di un'opera totalmente rinascimentale».

     
     
    **** 
     
    Con la fusione tra FMR  e  ART'È, edizioni anche in inglese, spagnolo e francese

    Il Gruppo editoriale e artistico FMR si è costituito alla fine del 2007 con la fusione tra la casa editrice Franco Maria Ricci, padre della rivista FMR, nata nel 1964, e la casa d'editoria artistica ART'E' fondata da Marilena Ferrari nel 1992. Entrambe le case editrici hanno rappresentato l'espressione massima dell'editoria artistica e di pregio alla fine del ‘900. Il Gruppo FMR, con sede a Bologna è presente in Italia, Francia e Spagna ed è riuscito a far interagire fra loro i saperi più antichi dell'alto-artigianato artistico italiano e le più avanzate tecnologie internazionali. Ha creato così un modello di business "totalmente inedito", ispirato al clima, ai valori e alla bellezza delle grandi officine rinascimentali. La rivista FMR nasce in Italia nel marzo 1982 per iniziativa del cenacolo di autori che si raccoglie intorno alla figura forte e carismatica dell'editore Franco Maria Ricci e si afferma rapidamente come periodico d'arte unico nel suo genere. Edita in quattro lingue, italiano, inglese, francese e spagnolo e resa inconfondibile dalla raffinata copertina nera, FMR conquista nell'ultimo scorcio del ventesimo secoloil titolo di "rivista più bella del mondo". I contributi sono firmati da Ernest Gombrich, André Chastel, Michel Butor, Giuliano Briganti, Federico Zeri, Alberto Arbasino, Cecil Beaton, Jorge Luis Borges, Italo Calvino, Jean Clair, Umberto Eco, Pierre Klossowski, Alvar Gonzalez Palacios, Pierre Rosenberge e Jean-Pierre Vermont. Al suo debutto negli Stati Uniti, alla Public Library, era presente anche l'ex First Lady Jacqueline Kennedy. L'attuale direzione è stata affidata a Flaminio Gualdoni. La  foliazione si  è arricchita di nuove rubriche stabili che vanno ad affiancarsi a quelle già esistenti, come Athena, incentrata sul ruolo decisivo delle grandi personalità femminili nella storia del creare, Genio italiano e Modo italiano, Sacra, Grand Tour.

    (Pubblicato su Oggi7)

Pages